Guido Fink, La doppia porta dei sogni. Scritti di cinema 1977-2001

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«Credo che una delle descrizioni più belle e al tempo stesso più angosciose dell’andare al cinema – voglio dire fisicamente, voglio dire del camminare fra le nebbie, le luci fioche, i radi passanti e le saracinesche abbassate di una cittadina del Nord, per rifugiarsi nel tepore e nel biancore di un cinematografo, dove sembra convergere tutta la vita residua della cittadina, a parte quella che si consuma, misteriosa e prevedibile, dietro le persiane delle case private – si trovi verso la fine degli Occhiali d’oro: parlo del testo, non certo del film» (p. 281). Così scrive Guido Fink all’inizio di un saggio dedicato al complesso rapporto fra Giorgio Bassani e il cinema. Incipit di sfolgorante bellezza formale, il brano aiuta implicitamente a comprendere le due principali ragioni della curatela di Alessandra Calanchi e Paola Cristalli del volume La doppia porta dei sogni, recentemente edito dalla Cineteca di Bologna, che raccoglie ventuno scritti redatti da Fink fra il 1977 e il 2001. Nello specifico, la selezione è stata effettuata sulla poderosa eredità di saggi che la vedova dello studioso, Daniela Sani, ha donato proprio alla Cineteca di Bologna alcuni anni fa.

In primo luogo, come testimonia il passo citato, emerge la volontà delle curatrici di rendere omaggio alla nota capacità di Fink di trasformare la riflessione sul cinema in un dialogo costante con altri universi culturali, a partire da quello letterario, ma senza mai escludere la possibilità di incursioni in terreni tradizionalmente meno battuti. Nelle pagine introduttive, Alessandra Calanchi pone appunto l’attenzione sulla natura fortemente prismatica della scrittura finkiana. Attraverso variegati percorsi – «cinema e letteratura, la screwball e la sophisticated comedy, il film yiddish e gli ebrei nel cinema italiano, il New Deal, il melodramma, il cinema ‘ferrarese’ di Antonioni e di Bassani, l’onirismo, la fantascienza» (p. 11) –, gli interventi scelti in collaborazione con Paola Cristalli restituiscono un mosaico di intrecci che supera i confini fra le diverse discipline. Un mosaico che, come si osserva sempre nell’introduzione, sorprende se consideriamo che che molti di questi scritti risalgono a decenni in cui la fruizione filmica era limitata soltanto al cinema o alla televisione.

Questo «modo unico e radicale di fare critica» (p. 12), prosegue Calanchi, è in fondo il riflesso di come lo studioso abbia concepito anche la propria metodologia di docente universitario. Invero, al pari della produzione scritta, le sue lezioni non hanno mai mancato di manifestare la medesima predisposizione multidisciplinare. Proprio la specularità fra docenza e scrittura consente a Calanchi di ricordare come generazioni di allievi abbiano appreso da Fink «a memorizzare, a fare collegamenti, a intrecciare la tragedia e l’umorismo, e a vedere oltre, sempre oltre» (p. 11).

In secondo luogo, La doppia porta dei sogni ambisce a evidenziare la qualità squisitamente letteraria della saggistica finkiana. Lo dichiara senza mezzi termini Paola Cristalli: «più di tutto e più di tutti […] [Fink] scriveva come uno scrittore» (p. 13). Sfioriamo qui un punto cruciale nella progettualità da cui si origina l’antologia. La finezza stilistica di questi testi potrebbe rilanciare l’interrogativo, forse ormai trascurato, su quali finalità debba porsi chi oggi scrive di cinema. In altre parole, l’ineccepibile forma di un incipit come quello riportato nelle prime righe invita a ripensare la scrittura dedicata al grande schermo per restituirla a una statura propriamente letteraria.

Veniamo ora a considerare più da vicino la scelta compiuta da Calanchi e Cristalli sulla collezione degli scritti. Come già accennato, il volume raccoglie interventi apparsi, fra la seconda metà degli anni Settanta e il principio degli anni Duemila, su riviste della caratura di Cinema & Cinema o Paragone Letteratura o ancora all’interno di altre opere collettanee. Anche se purtroppo finisce per escludere la produzione giovanile (inclusa ad esempio l’importante collaborazione con Cinema nuovo), la scelta di tali contorni temporali appare dichiaratamente orientata alla fase della maturità, quando – spiega Cristalli – l’autore sembra scoprire nella formula del ‘saggio ampio’ la sua dimensione più adatta e personale.

Inoltre, l’ordine impresso agli scritti non segue la data della loro prima pubblicazione, ma mira evidentemente «a comporre un’ideale storia del cinema ‘secondo Fink’» (p. 15). Non sorprende, pertanto, trovare in apertura un saggio del 1994 che funambolicamente allaccia i versi di Walt Whitman alle immagini di David Wark Griffith e in chiusura un intervento del 1998 – lo stesso che dà ragione del titolo dato all’antologia – in cui è il motivo del sogno nell’Odissea a guidare la riflessione sul possibile destino del cinema alle soglie del nuovo millennio.

Fra questi due estremi si possono agilmente distinguere tre principali poli di interesse, in realtà già menzionati in precedenza: il cinema statunitense, il cinema italiano e infine i rapporti fra cinema e cultura ebraica. A proposito di quest’ultimo motivo, sebbene siano solo due gli interventi programmaticamente dedicati ad esso, di fatto l’interesse per l’identità ebraica appare onnipresente anche nel resto del volume. Inutile, del resto, ricordare che Guido Fink è stato un acuto indagatore dell’apporto della cultura ebraica alla produzione cinematografica, quella statunitense in primis. Basti pensare alla monografia del 2001 Non solo Woody Allen. La tradizione ebraica nel cinema americano.

Poiché tentare una sintesi di tutti i ventuno saggi sarebbe un’impresa vana, ci limitiamo soltanto ad alcuni accenni. Il secondo testo proposto dall’indice, Gaio e tragico! Breve e interminabile! (1999), esplora le numerose frontiere della commedia americana. A questo lungo excursus può idealmente collegarsi il saggio incentrato sul particolare legame fra Alfred Hitchcock e il registro brillante (1980). Sempre nell’ambito della produzione critica sul cinema hollywoodiano, segnaliamo Come vorrei potermi fidare, contributo che nella sua esaustiva disamina dell’uso della voice over finisce per diventare un autentico strumento di studio di tale espediente narrativo. Peraltro, quest’ultimo saggio è stato fino ad oggi inedito in italiano. Pubblicato per la prima volta in lingua inglese su Letterature d’America nel 1982, soltanto ora appare nella traduzione di Cristalli.

Parimenti prezioso è anche A piedi da Wielopole (1996), che si sofferma sul caso, forse non familiare ai più, della cinematografia yiddish. Di alcuni anni successivo, “Semo tutti cristiani?” (2001) prosegue la riflessione sull’identità ebraica spostandola però sul versante italiano e analizzando – come recita il suo stesso sottotitolo – quella dinamica di visibilità e invisibilità che sovente investe i personaggi ebrei nel nostro cinema. E ancora, fra i testi dedicati al particolare legame fra grande schermo e letteratura italiana, spiccano Una lastra invisibile (1988), il saggio bassaniano da cui siamo partiti, e Quel fascio di raggi luminosi in movimento (1990), che si concentra invece sull’approccio di Italo Calvino al cinema d’autore degli anni Sessanta.

Conclusa la lettura dell’intero libro, la nostra reazione sarà probabilmente simile a quella degli studenti di Fink al termine di una sua lezione. Come scrive Alessandra Calanchi, potremmo sentirci «stanchi e sudati, ma col cervello pronto a tutto» (p. 11). La poliedrica fisionomia di ciascun saggio ci avrà senz’altro colpito, ma forse anche affaticato. Tuttavia, quei «lunghi paragrafi disseminati di sentieri che si biforcano e di porte che si aprono insospettate» (p. 15) – per usare le parole di Paola Cristalli – non si traducono in una difficoltà frustrante quanto piuttosto in una sfida capace di nuovi stimoli.