Subito, fino dal titolo, in Poesia che mi guardi l’interpellazione segnala la presenza forte di un altro – di un’altra – da sé: la poesia si staglia fuori dall’io che scrive e lo osserva, forse complice, forse con distacco, certo da lontano: da una distanza che non si può riempire ma solo osservare. Si disegna allora un luogo: che è della mente, giacché unisce due cronologie incompatibili, quella senza tempo della poesia e quella finita perché mortale della poeta; ma che si fa anche reale nelle immagini del film, che nel montaggio risolvono il paradosso temporale e avvicinano Antonia alla sua poesia come anche lo sguardo di Marina Spada (e il nostro) a lei. Cercherò di esplorare questi luoghi evanescenti e concretissimi insieme attraverso alcune immagini tratte dai quaderni di lavorazione del film: ringrazio Marina Spada che con generosità ha voluto condividerle.
1. Stanze vuote
Nel film Antonia è soprattutto una mancanza: una voce senza corpo che si muove in stanze vuote. Nessuna attrice le presta le proprie sembianze; la vediamo soltanto fare capolino qua e là dalle fotografie e dai film di famiglia. In una sequenza centrale di Poesia che mi guardi [figg. 1 e 2] la camera passeggia lungo i corridoi vuoti e le aule spopolate e asettiche del liceo Manzoni frequentato da Antonia. Sentiamo che lei ha camminato lungo quei muri, guardato da quelle finestre, scritto su quelle lavagne; e che ora però non c’è più, non possiamo vederla né ascoltarla. Una voce fuori campo legge la sua Canto della mia nudità: