1. Donne e scrittura

È ormai noto che, lungo la storia della letteratura, la scrittura delle donne è stata sistematicamente marginalizzata. Escluse dal canone, o accolte con riserva grazie a una singola e ‘fortunata’ opera, le scrittrici sono state per secoli screditate o messe a tacere. Le tecniche, spesso subdole, impiegate a favore della loro esclusione sono ampiamente descritte nell’ormai classico saggio di Joanna Russ, How to Suppress Women’s Writing (Russ 1983), pubblicato solo recentemente in Italia. I metodi di isolamento sono numerosi: dalla «negazione dell’agency» (non può averlo scritto una donna, deve esserci stato l’intervento di un uomo) alla sua «contaminazione» (l’ha scritto una donna ma è sconveniente, non avrebbe dovuto); dall’utilizzo di «due pesi e due misure» (l’ha scritto una donna ma la materia è poco rilevante o interessante) alla «falsa categorizzazione» (l’ha scritto una donna ma non ha alcun valore artistico) (Russ 1983).

Eppure, nonostante tutto, le donne hanno sempre scritto. E, nella contemporaneità, a farlo sono sempre più numerose, come se l’esortazione a scrivere lanciata da Hélène Cixous quarant’anni fa (Cixous 1975a) fosse stata pienamente accolta. Se il pensiero filosofico necessita di numerosi sforzi per riuscire a smarcarsi dal linguaggio fallocentrico da cui per secoli è stato alimentato (Cixous 1975b), per la letteratura la strada si profila come meno ardua: «il discorso poetico o narrante ha strumenti più duttili e raffinati per evocare attraverso la lingua straniera i sensi possibili della lingua mancante» (Cavarero 1987, p. 55).

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Nel vasto perimetro dell’autobiografia, ormai canonizzato da un’ampia mole di studi, costituisce quasi un ambito a sé il filone delle autobiografie d’artista, diffuso a partire dalle memorie ottocentesche di cantanti e attori. Dopo aver calcato a lungo le scene e aver ricevuto omaggi dai pubblici di tutti le latitudini in patria e all’estero, la prima donna e il grande attore avvertono l’esigenza di affidare alla penna il proprio autoritratto: da un lato, essi vogliono tramandare ai posteri un ricordo di sé che oltrepassi le tracce effimere della loro attività (locandine e programmi di sala, cartoline e medaglioni, articoli sulla stampa); dall’altro intendono disegnare un profilo unitario della propria persona, parcellizzata e anzi smembrata da continue tournée e cambiamenti di repertorio; infine, in quanto divi continuamente esposti al giudizio e al pettegolezzo altrui, mirano a offrire la propria verità su se stessi, controbilanciando l’influenza e la pretestuosità di discorsi eterodiretti.

Ciò che però informa tutta l’argomentazione è l’obiettivo cui tende il testo: costruire un’identità narrativa di artista a cui sottomettere la scelta degli episodi narrati e il tono con cui riferirli. Memorie, autobiografie, ricordi sparsi, in qualsiasi forma si presentino, vanno a comporre un autoritratto su misurada consegnare ai posteri. Ne consegue che l’autobiografia d’artista è spesso – per usare la metafora di Rousseau su Montaigne (Lavagetto 2002) – un ritratto ‘di profilo’, poco incline alla confessione (che invece apre squarci su aspetti nascosti o irrisolti, problematici o dolorosi) e tale da attenuare o tacere i difetti di chi parla; un autoritratto messo in forma secondo le aspettative del pubblico. Il patto autobiografico (Lejeune 1986) con il lettore sottende questa ambiguità, per cui – a differenza di quanto accade per letterati e poeti – gli scritti memoriali in prima persona di artisti, la cui immagine pubblica è continuamente esposta alla costruzione dei media, sono frutto (con poche e ‘moderne’ eccezioni) di una autobiographic narrative persona, una sorta di mediazione tra la star persona, ossia il personaggio pubblico dell’attore, e il sé privato, una proiezione che sia compatibile con entrambi e che sia tale da non sconfessarli, pena la perdita dell’alleanza con i lettori o con i fan. Ne è prova il fatto che chi scrive è solito conservare il nome d’arte per rendere subito riconoscibile il proprio personaggio.

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Quando si studia il cinema italiano dell’epoca d’oro, dal neorealismo agli anni Sessanta-Settanta, emergono con prepotenza le reti professionali: un numero cospicuo di sceneggiatori lavorano con un altrettanto nutrito gruppo di grandi registi e un fenomenale panorama di attori e attrici spesso di fama internazionale. Il cinema italiano contemporaneo non riesce a evidenziare altrettanta ricchezza che pure esiste, ma quasi nascosta, celata allo sguardo. Propongo perciò una lettura di La pazza gioia tesa anzitutto a mostrare la loro esistenza, resa più forte e degna di interesse per il fatto che inevitabilmente guarda à rebours: allo straordinario momento sopracitato e ai suoi maestri. Ma qui interessa sottolineare, anzitutto, gli apporti femminili alla creazione di tali reti. Le collaborazioni esistono già nella stagione del cinema italiano dei decenni d’oro, però vengono generalmente poste sullo sfondo del panorama in vista, innervato di relazioni maschili (basti pensare alla commedia all’italiana e ai suoi ‘colonnelli’); le reti creative femminili contemporanee emergono con maggiore limpidezza, integrate in una filiera produttiva che, come nel film di Paolo Virzì, se ne serve e ne valorizza l’apporto ponendole al centro del racconto cinematografico.

 

1. Genealogie

Furio Scarpelli e Agenore Agrocci erano allievi di Sergio Amidei, di qui il legame fra le sceneggiature del neorealismo e quelle delle commedie all’italiana da loro firmate insieme, titoli come La grande guerra (M. Monicelli, 1959), Tutti a casa (L. Comencini, 1960), I mostri (D. Risi, 1963), Sedotta e abbandonata (P. Germi, 1964), C’eravamo tanto amati (E. Scola, 1974). Scarpelli è il maestro di Francesca Archibugi, prima firma della sceneggiatura di La pazza gioia (la seconda è quella di Virzì): al Centro Sperimentale di Cinematografia, negli anni Ottanta, Archibugi ottiene il diploma di regia, frequenta Scarpelli e il corso di sceneggiatura di Leo Benvenuti. Là, in quel decennio dedicato alla formazione, Virzì ottiene lo stesso diploma e incontra Archibugi; come lei frequenta Scarpelli e, fin dagli esordi dietro la macchina da presa, lo indica come proprio maestro. In una delle sequenze più divertenti, e irriverenti, di La pazza gioia, le protagoniste approdano su un set: la dimora avita della famiglia di Beatrice, villa Morandini Valdirana, viene infatti noleggiata al cinema italiano per metterla a reddito. La troupe mostra Francesca Archibugi seduta sulla sedia da regista: insieme a lei un’operatrice al monitor e un’assistente che grida nel megafono [fig. 1]. Nella sceneggiatura del 2015 non c’è traccia di questa presenza ma solo quella dell’incontro con «la brava attrice Jasmine Trinca e l’eterno emergente Corrado Fortuna». Con un rapido omaggio meta-cinematografico Francesca Archibugi è dunque mostrata nella sua veste di regista, sorta di ‘doppio’ dello stesso Virzì. L’una e l’altro appartengono a quel sistema produttivo su cui il film, per bocca della madre di Beatrice, ironizza: «Siamo costretti ad affittare casa nostra al cinema italiano (…) che peraltro (…) tolti un paio di quei soliti nomi celebrati dai giornali, è a livelli sempre più imbarazzanti», si legge nella sceneggiatura.

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1. Introduzione

«Nonostante la percezione diffusa che il crime drama sia un genere intrinsecamente ‘maschile’, le donne vi hanno giocato un ruolo fondamentale fin dall’inizio, non soltanto nella veste di vittime indifese o femme fatale doppiogiochiste, ma anche in qualità di personaggi sempre più risolutivi nell’ambito delle indagini, nonché come percentuale del pubblico televisivo in costante aumento dagli anni Cinquanta a oggi». Inoltre, «la rappresentazione della donna nel crime drama ne [ha] testimoniato il mutamento del ruolo sociale nel corso degli anni, alimentando il dibattito sia sulla stampa di massa che nel campo dei feminist media studies» (Turnbull 2019, p. 247).

Per quanto l’indagine di Turnbull sulla presenza della donna nella serialità televisiva di genere crime coniughi virtuosamente le due prospettive «behind the camera» e «on-screen», e analizzi nel dettaglio la presenza femminile in ruoli produttivi e creativi, tale analisi resta circoscritta all’area anglofona (in particolare USA e UK) con una breve incursione in territorio nordico, per esaminare i celeberrimi ruoli di Sarah Lund (The Killing, 2007-2012) e Saga Norén (The Bridge, 2011-2018). Per l’Italia, anche nelle sue relazioni con altre esperienze produttive e narrative che si sviluppano a livello europeo, una indagine di questo tipo sembra ancora mancare del tutto, e solo di recente è stata mappata la presenza femminile nella produzione di fiction televisiva a livello europeo (Jiménez Pumares 2021).

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In un contributo del 2014, Dana Renga ha rintracciato nel cinema italiano post-Duemila un incremento dei film con protagoniste giovani e giovanissime, sia nel filone del teen movie, sia nel cinema d’autore, o meglio delle autrici (come Costanza Quatriglio, Alice Rohrwacher, Susanna Nicchiarelli). Un discorso simile si applica anche alle serie televisive italiane, dove negli ultimi anni è aumentato il numero di prodotti che muovono le ragazze al centro della narrazione. L’amica geniale, best-seller letterario adattato in serie televisiva, è forse il prodotto culturale italiano che più fruttuosamente ha azzeccato la congiunzione tra girlhood, specificità nazionale e storia sociale: nonostante i romanzi – e di conseguenza i prossimi adattamenti – attraversino molti decenni e fasi della vita delle protagoniste Lenù e Lila, le prime due stagioni sono inevitabilmente centrate sull’amicizia totalizzante tra le loro versioni giovanissime [fig. 1], rendendo L’amica geniale una delle rappresentazioni più complesse della crescita e della connessione tra ragazze viste sul piccolo schermo. Tuttavia, la serie rimane un prodotto atipico: per la sua origine letteraria da un lato, e per la sua storia produttiva e distributiva dall’altro (co-produzione Rai-HBO andata in onda sui rispettivi canali), è evidentemente indirizzata a una audience transnazionale e trasversale (Bisoni e Farinacci 2020), che comprende tanto il pubblico generalista quanto quello più di nicchia attratto dalla componente autoriale, trasferita dai libri (Elena Ferrante) alla trasposizione (la regia di Saverio Costanzo con alcune incursioni di Alice Rohrwacher).

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Per quanto riguarda l’incrocio tra Film Studies e Women’s Studies, il decennio degli anni Cinquanta offre un interessante campo di osservazione della nascita – o rinascita – del personaggio femminile moderno, specialmente nelle cinematografie europee. Questa rinascita coinvolge una trasformazione sociale che ha portato la teoria filmica femminista a esplorare, nell’importanza del binomio società-cinema (Sieglohr 2000) anche il possibile rapporto attrici-spettatrici (Garofalo 1956; Grignaffini 2002; Jandelli 2007; Pravadelli 2015). Non a caso questo decennio diventa anche l’ambiente di nascita di nuove forme divistiche che, stimolate dalla trasformazione dei nuovi panorami mediatici, pongono l’accento sull’importanza delle attrici nella costruzione delle identità culturali, in un momento in cui anche nelle sale lo sguardo è femminile.

Lo status iconico di Anna Magnani come diva italiana del dopoguerra è un esempio di come la storia di una nazione potrebbe essere scritta attraverso i corpi (e i gesti) delle sue attrici (Grignaffini 2002). Diversi film della seconda metà degli anni Quaranta suggeriscono la loro capacità di rappresentare le mutazioni culturali e sociali di un contesto turbolento come quello della transizione democratica italiana. Il periodo tra il 1946 e il 1950 comprende la sezione più prolifica della carriera dell’attrice, con un totale di dodici interpretazioni che racchiudono le basi del suo manifesto figurativo: la donna che, desiderando più di quanto le sia concesso, finisce per ‘traboccare’ dal mondo filmico che la contiene, spesso attraverso i suoi gesti. In un probabile rapporto con il contesto sociale con cui dialogano, tutte le figure incarnano una traiettoria di cambiamento. Sia per desiderio di promozione sociale, mobilità o trasformazione personale, personaggi come Angelina Bianchi (L’onorevole Angelina, L. Zampa, 1947), Gioconda Perfetti (Abbasso la ricchezza!, G. Righelli, 1946), Linda Bertoni (Molti sogni per le strade, M. Camerini, 1948) o Assunta Spina (Assunta Spina, M. Mattoli, 1948) espongono idee alternative di una femminilità archetipica nell’esaltazione del desiderio individuale come dimensione principale. In questo periodo Magnani indossa i gesti di madri che militano in politica (L’onorevole Angelina), prostitute con devozione religiosa (Lo sconosciuto di San Marino, V. Cottafavi, 1948; Vulcano, W. Dieterle, 1950), vedove con ambizioni di imprenditorialità sociale (Abbasso la ricchezza!), femmes fatales che sono anche donne autonome (Il bandito, A. Lattuada, 1946; Assunta Spina) o attrici che militano nella resistenza politica (Avanti a lui tremava tutta Roma, C. Gallone, 1946). La transizione che questi personaggi subiscono ha anche degli aspetti narrativi ed estetici. Significativamente, molti dei personaggi di questi anni tracciano traiettorie di emancipazione spesso troncate dall’imposizione di un simbolico ritorno all’ordine che viene segnato dalla punizione che tocca alla donna ambiziosa, insoddisfatta o libera. Tuttavia, i gesti dell’attrice travalicano l’ideologia prevalente dei film con un messaggio di ribellione, a volte tragico ma sempre complice e catartico verso le spettatrici. Parola, volto e gesto diventano così lo specchio di un desiderio di emancipazione in un momento in cui il cinema nazionale trova le donne «come pubblico e come argomento» (Morreale 2011, p. 82) [fig. 1].

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1. Il giallo in bianco e nero

Il rapporto tra letteratura e televisione italiana è antico e prolifico. La RAI rigidamente in bianco e nero, monocanale e pedagogica, è ansiosa di cooptare prodotti provenienti da altri e più nobili ambiti mediali (il teatro, il cinema, l’editoria) in una necessaria operazione di legittimazione nei confronti di una classe dirigente abbastanza scettica sul nuovo medium.

In Italia il romanzo poliziesco nasce negli anni Trenta senza avere alle spalle la solida tradizione del poliziesco inglese, francese o addirittura statunitense, per cui i primi thriller italiani sono ambientati in Paesi stranieri. Tuttavia nella letteratura italiana esiste un modello di riferimento rappresentato da Il cappello del prete (1888), il romanzo di Emilio De Marchi considerato il primo thriller italiano, sulla cui scia si inseriscono alcuni autori che ambientano le opere nel nostro Paese. Tra questi Alessandro Varald, che crea il commissario Ascanio Bonichi, impegnato a dipanare le ombre di una Roma sotto il regime fascista dove le storie si svolgono tra palazzi principeschi e pensioni equivoche, o Augusto De Angelis (ucciso dai fascisti nel 1944), autore di romanzi di qualità incentrati sul personaggio del commissario De Vincenzi, poi in tv sul Programma Nazionale nel 1974 con il volto di Paolo Stoppa. A partire dal secondo dopoguerra altri autori e registi, in una feconda osmosi tra letteratura, cinema e televisione, si dedicheranno al genere poliziesco: Mario Soldati con il film La mano dello straniero (1954) o Carlo Emilio Gadda con il romanzo che lo rese noto al grande pubblico Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (1957), da cui nel 1983 fu tratta una miniserie in quattro puntate interpretata – tra gli altri – da un gigante Flavio Bucci.

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Negli ultimi quindici anni un rilevante numero di studiosi ha rivolto la propria attenzione verso i film festival, laddove in precedenza il tema era affrontato sporadicamente o si concentrava su singoli casi. Dalla fine del primo decennio del Duemila, infatti, i festival cinematografici sono stati analizzati con riferimento alla loro storia ed evoluzione, alla loro funzione entro il sistema culturale e industriale (in senso diacronico e sincronico), alle caratteristiche comuni e specifiche, alle ricadute sul territorio in cui hanno sede in termini occupazionali, economici e d’immagine, alla posizione strategica giocata rispetto alle dinamiche socio-politiche transnazionali, alla carriera di un regista e al ciclo di vita di un’opera, etc. In un corpus ampio di lavori, caratterizzato da approcci eterogenei, di cui è possibile farsi un’idea attraverso gli indici bibliografici stilati dal Film Festival Research Network fondato nel 2008,[1] poco spazio è dedicato alla specificità del contributo femminile all’interno del circuito festivaliero e al significato da conferire a questa presenza. Di solito la ricerca si concentra sul piano delle rappresentazioni, ossia sulle modalità con le quali le donne vengono raffigurate nei film che partecipano ai festival, mentre la cronaca mondana dedica particolare attenzione alla donna in quanto corpo: ‘madrina’ dell’evento, icona della moda, presenza affascinante e in grado di catalizzare i flash molto più degli uomini. Quasi mai, invece, si indaga sull’entità e sulla qualità della presenza femminile sul piano organizzativo e professionale. Tale mancanza si spiega anche alla luce dell’assenza di archivi specifici sui e dei festival e alla scarsità di dati su pubblico, profili professionali, impatto sul territorio di questi eventi, etc., come se la natura effimera e transitoria dei festival producesse, automaticamente, una scarsa attenzione conservativa e analitica.

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«Perché non scrive della sua vita?» «Perché la conosco». «Ma gli altri no, solo giornalisticamente». «Allora dovrei farla diventare addirittura una storia. Francamente trovare idee per la mia vita mi sembrerebbe troppo, avendola anche vissuta» (Valeri 2010, p. 3) [fig. 1]. Si apre così l’autobiografia di Franca Valeri, Bugiarda no, reticente (2010), testo sul quale ho deciso di basarmi per la costruzione di un format audiovisivo dedicato alle scritture delle attrici [fig. 2]. L’idea che mi ha guidato è stata quella di creare un prototipo di video-ritratto che potesse funzionare come pilot di una vera e propria serie di video-saggi a partire dai testi autobiografici delle dive italiane indagati all’interno del PRIN DaMA – Drawing a Map of Italian Actresses in Writing. In questo testo cercherò quindi di interrogare la mia pratica audiovisiva tracciando i contorni delle mie scelte estetiche e stilistiche.

 

1. Il doppio come trama audiovisiva

La scelta è ricaduta sul testo di Valeri per un’interessante caratteristica che lo posiziona immediatamente in una cornice ibrida tra finzione e autobiografia: per parlare di sé, infatti, l’autrice sceglie l’espediente di un’intervista giornalistica. Le domande della ‘finta’ giornalista le permettono di sollecitare i ricordi sul filo del dialogo che favorisce una narrazione per frammenti e per associazioni di tipo analogico. D’altra parte, come nota Maria Rizzarelli nel suo studio Il doppio talento dellattrice che scrive. Per una mappa delle ‘Divagrafie’, «il discrimine fra dimensione autobiografica e istanza finzionale appare estremamente labile e problematico nella scrittura delle attrici» (Rizzarelli 2021).

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