Marina Cicogna Mozzoni Volpi di Misurata fa ingresso nel mercato cinematografico in un decennio inquieto e di grande fermento del cinema italiano. Nei primi anni Sessanta è legata all’orizzonte distributivo, accompagnando la crescita della società Euro International Films attraverso scelte ardite (tra cui L’uomo del banco dei pegni, 1967; Bella di giorno, 1968; Helga, 1968), che ottengono però un certo riconoscimento culturale in una fase di inedita mobilità interna all’industria del periodo postbellico (Corsi 2001; Brunetta 2009; Nicoli 2017). La sua firma come produttrice è legata al cinema d’autore e ‘di qualità’ (a titolo di esempio: Metti, una sera a cena, 1969; Teorema, 1969; Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970; La classe operaia va in paradiso, 1971; Mimì metallurgico ferito nell’onore, 1972) della seconda metà del decennio fino ai primissimi anni Settanta, momento in cui il cinema italiano raggiunge il suo picco produttivo e commerciale prima del successivo declino (De Bernardinis 2009) [figg. 3-4-5].

In virtù di una tale parabola, connotata da un milieu cosmopolita e da strategie di mercato espansive portate avanti secondo un’ottica internazionale che spesso si appoggia ai possibili accordi di coproduzione, Cicogna viene spesso definita la «prima produttrice europea». Al netto dell’importanza che va riconosciuta al suo intervento sul terreno della produzione cinematografica italiana, in particolar modo nel quinquennio tra il 1968 e il 1973, questa affermazione sollecita in prima istanza le culture della produzione (Caldwell 2008) e, di conseguenza, l’uso delle fonti, aprendo una riflessione sul rapporto tra documentazione e forma narrativa o, come scrive Ginzburg (2006), tra verità, finzione e menzogna, tra «etico» ed «emico». Gli appunti che seguono intendono collocare all’interno di questo frame lo sguardo su Marina Cicogna, anche a partire dal recente processo di riscoperta della sua importanza come pioniera della produzione cinematografica. L’obiettivo non è, dunque, quello di celebrare il successo e l’autonomia di Cicogna nell’orizzonte regolato dai ‘capitani d’industria’, così come appare ovvio fotografando il periodo in esame, quanto piuttosto rintracciare quegli elementi che permettano di formulare delle ipotesi di indagine microstorica, per contribuire a una lettura più ampia del terreno culturale della produzione cinematografica italiana successiva al boom economico.

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La professione di casting director è una delle meno conosciute, se non misconosciute, fra quelle coinvolte nella produzione cinematografica. Lavorando a stretto contatto sia con il comparto della regia, che con quello della produzione, il e la casting director hanno il compito fondamentale di assegnare a ciascun personaggio previsto in sceneggiatura il volto, la voce e le movenze di un attore o di un’attrice in carne e ossa. Nell’immaginario mediale la rappresentazione del(la) casting director è spesso connotata negativamente: la figura severa che, in pochi minuti, distrugge i sogni di giovani aspiranti interpreti o, peggio ancora, il funzionario che, dal casting couch, promette loro opportunità di carriera in cambio di prestazioni sessuali. In tutti i casi, alla figura di casting director è conferito un ruolo di gatekeeping, di esercizio (talvolta abusivo) del potere che trova il suo momento di massima espressione nella pratica del provino. Da questo tipo di rappresentazioni rimane esclusa la parte più consistente del lavoro effettivo di un(a) casting director, che precede il momento dei provini e che prevede la messa in atto di un insieme molto complesso di competenze e di risorse tecniche, creative e relazionali all’interno di una rete di agenti e di organizzazioni a livello nazionale e internazionale. Al di fuori degli schermi, la professione di casting director ha ricevuto un’attenzione relativamente scarsa da parte della letteratura accademica che, quando vi si è dedicata, lo ha fatto principalmente in relazione al tema dell’attorialità e dello stardom (Pierini 2015; O’Rawe e Renga 2017; Renga 2020) o dell’inclusione di interpreti appartenenti a minoranze etniche e sociali (Turow 1978; Gerarghty 2010; Warner 2015; Martin 2018). L’interesse verso il mestiere di casting director e, più in generale, le professioni che ruotano intorno alla figura dell’attore, è andato crescendo negli ultimi anni, come testimoniano il convegno curato da Paolo Noto e Catherine O’Rawe (2017); il progetto di ricerca guidato da Francesco Pitassio (2017) e la conferenza prevista alla University of South Wales (2021).

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Una ricognizione dei titoli di testa dei film italiani realizzati tra gli anni Cinquanta e Settanta mette in evidenza la presenza femminile in una serie di campi attorno al reparto della produzione. Dalla situazione tutta maschile nel finire degli anni Quaranta cominciano a comparire nomi di donne. Il ruolo di segretario di edizione viene pian piano femminilizzato. Pochi i nomi di donna tra le qualifiche di direttore di produzione e ispettore di produzione.

Le rare dichiarazioni di lavoratrici nel campo dello spettacolo, commentando il basso tasso d’occupazione negli anni Sessanta e Settanta, denunciano una condizione sfavorevole rispetto ai colleghi, motivata dalla tensione tra due polarità: se congedi matrimoniali e maternità vengono riconosciuti dalle aziende come fattori determinanti per i vari gradi d’occupazione, per le qualifiche più alte è l’istruzione e in particolare l’istruzione professionale a essere un dato di svantaggio imposto (Bellumori 1972); saranno solo due le donne iscritte al corso di produzione al Centro Sperimentale di Cinematografia nel decennio Sessanta (a differenza dei 27 uomini), e andranno negli anni successivi a ricoprire ruoli marginali per poche produzioni.

Una lettura ravvicinata a partire dal sondaggio condotto da Bellumori, Le donne del cinema contro questo cinema, sull’occupazione femminile nell’industria cinematografica degli anni Sessanta e Settanta rivela un certo numero di casi interessanti, tra i quali spicca Mara Blasetti, donna libera, effervescente, dedita al lavoro, umile ma capace di imporre la sua presenza, confermatasi in più di trent’anni di carriera un’eccezione nella filiera produttiva.

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It’s such a closed world.

J. Mellen

1. Introduzione

Grazie ad alcune ricerche all’interno dei Women e Film Studies sappiamo che le donne operavano sia dietro che davanti la cinepresa (Pravadelli 2014). Sull’attività ‘davanti’ abbiamo molti contributi, dedicati soprattutto allo star system, inaugurati fra gli altri da Richard Dyer (2000 [1979]) e Paul McDonald (1998). Negli ultimi due decenni, inoltre, abbiamo visto un crescente corpus di ricerche sulle donne come filmmakers (Levitin, Plessis e Raoul 2016), anche se siamo ancora lontani dal render conto della ricchezza dei ruoli rivestiti dalle donne nella film history e nell’intero raggio creativo del lavoro filmico, dallo screen writing alla distribuzione. Inoltre, la raccolta di saggi curata da Gledhill e Knight (2015) e dedicata alla pratica del Doing Women’s Film History permette di gettare anche uno sguardo globale sul contributo delle donne precedentemente nascosto.

Attualmente, però, ciò che è meno noto è il ruolo giocato dalle donne nel Ventesimo secolo per promuovere, conservare e musealizzare il cinema, assicurandogli un ‘luogo’ tra le arti creative così come nelle industrie culturali. Le tre figure qui discusse, Iris Barry (1895-1969) [fig. 1], Lotte Eisner (1896-1983) [fig. 2] e Kashiko Kawakita (1908-1993) [fig. 3] si sono mosse proprio in questa direzione grazie alle loro competenze di archiviste e studiose oltre che di organizzatrici culturali.

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Sono costumiste, parrucchiere, sarte, truccatrici. Storicamente sono soprattutto montatrici, si dice per la dedita attenzione sviluppata con la pratica del taglio e cucito e la familiarità con il sistema a pedali dei primi tavoli di montaggio, lo stesso delle macchine da cucire (Meuel 2016). Sono le donne impiegate nel below-the-line della produzione cinematografica italiana, ovvero sotto la linea immaginaria che separa i mestieri ‘artistici’ da quelli ‘tecnici’ nella macchina produttiva di un film (Caldwell 2008, pp. 197-273; Gundle 2019). I dati raccolti nel dataset ANICA, che aggrega i crediti dei film prodotti e coprodotti dall’Italia tra il 1949 e il 1976 – l’intervallo cronologico preso in esame dal PRIN 2017 Modi, memorie e culture della produzione cinematografica italiana – tendono a confermare questo quadro, consentendo allo stesso tempo di far luce sulle poche che, tra di loro, sono state impiegate nel comparto prettamente produttivo, ribadendone la dominante maschile.

Al vertice della piramide, le produttrici, si sa, sono ben poche, eccezioni che confermano la regola del produttore uomo: Marina Cicogna, Marina Piperno, Fulvia Faretra, Giuliana Scappino, Enrica Bacci e Liliana Biancini non sono sole, ma le colleghe, una ventina, vantano sporadiche realizzazioni, non più di un film a testa in media, le cui formule produttive sono ancora da investigare. Passando all’esame della struttura del comparto, a partire dalla sua base, vediamo le segretarie di produzione italiane attestarsi circa sull’8,2% del totale, che sale al 12,3% includendo anche le straniere impiegate nelle coproduzioni nazionali. Ma il collo di bottiglia si stringe inesorabilmente anche solo salendo al gradino professionale superiore, con l’1,7% di ispettrici di produzione (che sale al 2,6 includendo le straniere), poco più dell’1% (2, con le straniere) di direttrici di produzione e solo tredici italiane accreditate come organizzatrici generali.

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1. Donne che traducono

 

Siamo nei primi anni Novanta e a scrivere alcuni appunti riguardanti la traduzione della serie di novellizzazioni La signora in giallo (romanzi basati sulla serie televisiva di Peter S. Fischer, Richard Levinson e William Link) è Lisa Morpurgo. Le parole di questa professionista dell’ambito editoriale possono tuttavia considerarsi rappresentative delle operazioni di moltissime altre figure femminili che intraprendono l’attività traduttoria: un impiego che, ‘consentito’ alle donne in quanto esercitabile anche da casa e, soprattutto, ritenuto di secondaria importanza rispetto alle scritture degli autori, permette loro di uscire dalla propria sfera privata e di esprimersi pubblicamente tra le righe. In quanto alla ‘femminilizzazione’ del lavoro di traduzione in Italia non vi sono attualmente dati sistematici, essendo le indagini dedicate all’argomento proliferate nell’ambito degli studi sull’editoria soltanto di recente, in particolare sulla scia dei Traslation Studies (si veda per esempio Venuti 2005, Cunico e Munday 2007), e focalizzandosi i contributi prevalentemente sulle mediatrici culturali più rinomate (Finocchi e Marchetti 1997, Brigatti et al 2018).

Un termine a quo dell’ipotetico processo di regendering che investe il settore nel Paese e che giunge fino a oggi è stato ciononostante pressoché stabilito. Già tra il XIX e il XX secolo numerose intellettuali italiane intraprendono invero la professione di traduttrici, ma è verosimilmente negli anni Trenta che le donne conseguono, all’interno di un ramo decisamente nascosto della nascente industria editoriale, «uno spazio» più «squisitamente femminile»:

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1. Attrice e donna

Elena Varzi si è definita molto presto come uno dei volti rappresentativi del cinema italiano degli anni Cinquanta, nonché una ‘delle quattro bellezze’ di quel periodo accanto a Mangano, Bosè e Lollobrigida [fig. 1], come si legge su un numero di «Oggi» dell’epoca (Venturi 1952, p. 8) che reca le foto delle attrici e sottotitola L’industria italiana si prepara ad attaccare il mercato inglese con la bellezza delle donne, un articolo che tra l’altro chiarisce l’importanza fondamentale dell’immagine femminile nell’economia del cinema di quegli anni.

Dopo il primo film, È primavera di Renato Castellani (1950), incontra Raf Vallone con cui si sposa nel 1952 [fig. 2] e nel 1955, arrivata a tre figli, lascia definitivamente il cinema per dedicarsi, a suo dire, al marito e alla famiglia. Senza colpi di scena, la fine della sua carriera – otto film a quella data – è anticipata dalla scelta di partecipare unicamente a film in cui recita il marito (Tacchella 1951, p. 21).

L’identità di attrice e l’immagine pubblica s’incrociano dunque con la sua vicenda personale, influenzata dalle scelte di Vallone, impostosi come divo. Da parte dei media italiani, malgrado il successo ottenuto, l’interruzione del percorso artistico di Varzi non sembra fare particolarmente notizia. Su un numero di «Oggi» del 1956 si legge ad esempio che «Elena Varzi ha temporaneamente abbandonato il cinema per dedicarsi alla famiglia» (p. 32) e che «l’attrice è un’ottima cuoca e una brava donna di casa, […] qualità […] apprezzate da Raf Vallone» (p. 33), il tutto corredato di fotografie ad hoc [figg. 3-4].

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«Si direbbe che apprendiamo qualche cosa intorno all’arte quando sperimentiamo ciò che la parola “solitudine” vorrebbe designare». Così scrive Maurice Blanchot in Lo spazio letterario, specificando tuttavia che la solitudine «essenziale», nella quale si addentra nel suo saggio, non è quella esistenziale né quella tipica dell’artista che «gli sarebbe necessaria, si dice, ad esercitare la sua arte [...]. Quando Rilke scrive [...]: “la mia solitudine finalmente si chiude e io sto nel lavoro come il nocciolo nel frutto”, la solitudine di cui parla non è essenzialmente solitudine: è raccoglimento» (Rilke 1967, p. 9).

È invece proprio di solitudine intesa come raccoglimento e come sospensione dal mondo che tenterò di occuparmi in questa breve analisi. Esplorando lo spazio letterario «divagrafico» (Rizzarelli 2017; Cardone, Masecchia, Rizzarelli 2019; Rizzarelli 2021), cercherò di tracciare i punti di congiunzione tra la dimensione dell’arte e quella riservata alla capacità di attivare una relazione con la realtà di tipo performativo, in cui la concentrazione e l’attenzione acquistano un ruolo di primo piano.

Scriveva Cristina Campo nel saggio Attenzione e poesia: «l’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata nel reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero» (Campo 2019 [1961, 1987], p. 167).

Nella parola autobiografica delle attrici l’arte si pone spesso come istanza di libertà, di autonomia, di uscita dallo stereotipo divistico, di accesso a quella creatività accordata tradizionalmente al mondo maschile e a cui molte, seppure con esperienze e linguaggio differenti, dimostrano di aver desiderio di partecipare come soggetti attivi (in alcuni casi, divenendo esse stesse autrici di opere, come nel caso di Elsa De’ Giorgi, recentemente analizzato da Corinne Pontillo, 2020). Allo stesso tempo, è nel rapporto con la dimensione dell’arte in cui le attrici esprimono l’abilità di un radicarsi nell’attenzione, la stessa necessaria all’atto performativo.

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Il vasto campo di studi inaugurato dalle ‘divagrafie’, ovvero dalla mappatura e dalla interpretazione delle scritture delle attrici, si configura come un terreno d’indagine di notevole complessità, sia sul piano strettamente letterario che a livello extra-testuale. Uno sguardo agli aspetti che entrano in gioco nell’esame delle opere delle dive che hanno intrecciato al lavoro attoriale anche l’attività di scrittura, fa vedere quanto vari e molteplici siano i generi letterari coinvolti, le modalità di rappresentazione delle personagge, i percorsi artistici delle attrici, i contesti culturali in cui si sono trovate ad operare. All’interno di una prospettiva che, nel confronto con oggetti di studio ibridi, intermediali, di non facile collocazione entro le coordinate stesse della teoria letteraria,prova a ripensare e a ridefinire i propri strumenti ermeneutici, è però rintracciabile un sostrato comune.[1] Lungo una produzione che, allo stato attuale delle ricerche, prende avvio nel 1950 con la pubblicazione di Shakespeare e l’attore e si conclude con il romanzo Una storia scabrosa del 1997 [fig. 1], anno della morte dell’attrice-scrittrice, non sono poche le dimostrazioni di uno sconfinamento ‘audiovisivo’ della pagina scritta, cioè di una rilettura da parte dell’autrice della propria carriera attoriale e dunque di uno sporgersi della prosa verso il linguaggio cinematografico; così come marcata risulta, in diverse opere, la dimensione autobiografica della scrittura. Basti pensare – come sintesi delle due caratteristiche menzionate e come punto di convergenza con la categoria della divagrafia, che pone l’accento sulla diffusa matrice metatestuale delle scritture del sé – a uno dei libri più noti di de’ Giorgi, I coetanei (1955), che riunisce in un’unica tessitura diegetica una componente autobiografia, inevitabilmente connessa con il carattere performativo del lavoro dell’artista, e una rievocazione memoriale e romanzata della Resistenza.

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