Fotografa, pittrice, disegnatrice, animatrice, sperimentatrice indipendente, anima libera, visionaria, poeta dell’immagine. Ursula Ferrara potrebbe essere definita in molti modi, sia pensando alla produzione creativa che ha sviluppato negli anni, sia guardando alla sua metodologia di lavoro dove indipendenza, tenacia, rigore e pazienza si uniscono a un’attitudine onnivora verso l’impiego di tecniche e linguaggi diversi. Nata nel 1961 a Pisa, ha frequentato l’Istituto d’Arte di Porta Romana a Firenze, dove ha potuto studiare grafica pubblicitaria e fotografia, nonché approfondire varie tecniche artistiche, dal disegno all’incisione, dalla litografia all’acquerello e alla tempera a olio. Il suo è un percorso di crescita artistica che parte da una base genetica peculiare: dal padre geologo Ferrara eredita la passione per la fotografia, ed è proprio lui a regalarle la prima macchina fotografica. Giovanissima inizia a scattare, a sviluppare, a stampare, intraprendendo un percorso sperimentale che porta avanti insieme al disegno. Ed è qui che vibra l’altra componente genetica, quella materna: figlia dell’eclettica pittrice e scultrice Milena Moriani, Ursula riceve da lei non solo il dono dell’abilità grafica e pittorica, ma ne eredita la capacità visionaria e il coraggio per la sperimentazione libera, componenti essenziali per la costruzione di mondi poetici dove l’elemento memoriale e il vissuto intimo si fondono con la dimensione immaginaria più creativa.

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Giuliana Cunéaz (Aosta, 1959) è un’artista del tutto originale nel panorama delle arti elettroniche e digitali (viene definita media artist) italiane. Il nucleo forte del suo lavoro è caratterizzato dal dialogo e dal confronto con la scienza, intesa sia come apporto di riflessioni e cambiamento dei paradigmi del nostro pensare, sia – e forse soprattutto – come inarrestabile bellezza e suggestione evocativa delle immagini scientifiche, rivisitate e ricreate grazie alle ultime tecnologie digitali, fino al 3D e al virtuale. Definirla media artist è riduttivo, in quanto il suo lavoro – dagli esordi nei primi anni Ottanta – prende le mosse da studi artistici (Accademia di Belle Arti di Torino) ed è segnato dalla commistione di nuove tecnologie e di oggetti e di materiali che esulano da quest’ambito: la luce, innanzitutto (in dialogo con l’ombra), ma anche pietra, polvere dorata, carta, marmo, ferro, coni riflettenti. Questo dialogo si esprime in alcune opere anche attraverso un più ampio richiamo a figure e a temi del passato, che affiorano dal mito e dalla leggenda. Ad esempio, nell’installazione Il silenzio delle fate (1990). Qui, mi scrive Giuliana Cunéaz, «affronto, attraverso lo studio delle leggende legate al territorio della Valle d'Aosta, la natura misteriosa e inquietante di queste creature femminili (spesso capricciose, vanitose e irascibili) in relazione al nostro immaginario e ai luoghi. Le fate, figure sempre in bilico tra l’immateriale e l’umano, sono indubbiamente emanazioni della natura. È interessante notare, (sempre attraverso le leggende) come dietro alla bellezza e al fascino spesso nascondono una deformità (piede caprino o coda d’asino) che cercano di mascherare. Un altro aspetto è l’innamoramento verso un essere umano che generalmente poi le abbandona lasciandole nella disperazione o anche come possano partorire solo orchi che cercano di sostituire con bimbi rapendoli in fasce nelle culle...» (Cunéaz 2021).

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Non c’è sperimentalismo nella poesia, c’è

sperimentalismo nella vita, c’è

sperimentalismo finché si fa una ricerca di se

stessi nell’esperienza.

Amelia Rosselli

 

Amelia Rosselli nasce nel 1930 a Parigi, dove i genitori, Marion Cave e Carlo Rosselli, si erano rifugiati dopo il confino a Lipari del padre. La sua infanzia è segnata da numerosi viaggi e trasferimenti, un nomadismo esistenziale forzato dalle contingenze storiche e dall’antifascismo della famiglia. Fuggiasca, profuga, orfana e straniera (Barile 2014, p. 131), la sua è una «formazione non italiana, anglo-francese-americana», come la definisce lei stessa durante l’intervista rilasciata a Renato Minore nel 1984 (Rosselli in Venturini e De March 2010, p. 65), interdisciplinare, e destinata a essere cosmopolita.

«Mi misi ad un certo punto della mia adolescenza a cercare le forme universali», così scrive Amelia in Spazi Metrici (1962), saggio teorico sulla metrica sollecitatole da Pier Paolo Pasolini e pubblicato in coda a Variazioni Belliche nel 1964. La redazione di questo saggio mette in gioco l’ampio patrimonio culturale e di studi da lei coltivato negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento (Carpita 2013), e che spazia dalla letteratura all’etnomusicologia, dalla pittura astratta (in particolare Mondrian) alla psicologia della Gestalt e la filosofia orientale. Sono anni decisivi, questi, anche per le sperimentazioni a cavallo fra le arti esercitate dalla giovane Rosselli che, in quel periodo, alla teoria e alla pratica musicale affianca la scrittura a le arti visive: pittura, fotografia e ripresa cinematografica si rivelano esperienze estetiche determinanti per la stesura di Spazi Metrici, e permeano tutta la sua opera. Una modernissima «avanguardia personale» (Paris 2020, p. 129), ai margini, ma tutt’altro che marginale, della letteratura.

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Il cinema underground europeo sta tentando di organizzare la propria

distribuzione internazionale, tenendo presenti i principi di autonomia e

libertà che lo oppongono al cinema commerciale. 

Quei principi  rappresentano la sua ideologia fondamentale,

cioè non farsi strumento di un sistema,

non adattarsi a un gusto e a un consumo.

Anna Lajolo

 

1. Contesto e profilo

Cinema underground, sotterraneo; fisiologicamente indipendente e quindi non ascrivibile ai circuiti ufficiali della visibilità.

‘Commerciale’ era infatti un termine che stonava; non piaceva a nessuno dei cineasti confluiti, nel novembre del 1968, a Monaco di Baviera, per il primo convegno del cinema indipendente europeo: sei giorni di taglio festivaliero, con discussioni e proiezioni quotidiane, dove «i rappresentanti delle cooperative e gruppi dei diversi paesi hanno discusso la possibilità di creare un centro europeo, una supercooperativa di distribuzione» a favore della circolazione di «film meno richiesti, ma non meno importanti».

È Anna Lajolo, a cui appartengono il virgolettato e la citazione di apertura, a sintetizzare in un articolo intitolato Il cinema sotterraneo europeo alla ricerca di un’intesa – pubblicato su «L’Unità» il 22 novembre 1968 – quanto esposto in quella occasione dai filmmaker italiani, intervenuti al grande raduno di Monaco in rappresentanza della propria struttura di appartenenza, la Cooperativa Cinema Indipendente, CCI, fondata a Napoli l’anno precedente e a sua volta parte di un contesto comunitario più ampio. Nell’arco degli anni Sessanta, infatti, sulla scia di una controcultura libera, anarchica e rivoluzionaria – già affermatasi negli Stati Uniti nel decennio precedente –, nel continente europeo, Italia compresa, aveva iniziato a diffondersi a macchia d’olio una «internazionale poetica e protestataria» – come avrebbe potuto definirla Gianni Toti (l’espressione è sua ed è stata da lui usata nel 1967 in riferimento alla diffusione del fenomeno della poesia sotterranea) – che univa esigenze anticonformiste e antisistema in ambito letterario, teatrale, visivo e, appunto, anche cinematografico e audiovisivo.

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La cineasta pugliese Cecilia Mangini è stata una figura emblematica nel panorama italiano del cinema delle donne. Prima documentarista in Italia, la regista ha perseguito il suo impegno politico attraverso un percorso individuale e indipendente, occupando allo stesso tempo un ruolo centrale nel cinema militante italiano. Per un ritratto che ne offra una visione onnicomprensiva rimandiamo all’articolo di Angela Bianca Saponari apparso su questa rivista (Saponari 2020). In questo nostro breve saggio, invece, intendiamo descrivere due film di Mangini nel panorama di una riflessione e di una ricerca analitica e creativa che ne fa l’interprete di un’idea di film documentario nata nel rigore formale dell’estetica cinematografica.

L’esperienza di Mangini è esemplare negli orizzonti del rapporto fra ricerca formale e studi sul film, in particolare considerando gli esordi, in cui la militanza critica sposa la riflessione teorica. Negli anni Cinquanta inizia la sua attività di fotografa, rinunciando alla fotografia di posa in favore di quella di strada, più vicina alla sua vocazione. Comincia dunque pubblicando i suoi scatti su riviste come «Il Punto», «Cinema Nuovo» e «L’Eco del cinema». La collaborazione con i periodici non si limita alle fotografie, ma investe anche la critica: se nel 1955 aveva già scritto un illuminante articolo intitolato Neorealismo e marxismo, già esplicito nella matrice ideologica della regista; nel 1957, con False interpretazioni del realismo, risponde a una polemica iniziata da Renzo Renzi su «Cinema Nuovo», confronto arricchito dall’alternarsi delle firme di Luigi Chiarini, Callisto Cosulich, Paolo Gobetti, Massimo Mida, Riccardo Redi e Giovanni Vento. Il tema è il complesso rapporto fra cinema italiano e cinema sovietico, questione su cui Mangini riflette rispondendo che «Il rapporto tra autonomia e disciplina sarà cioè impostato in senso tanto più dialettico – e quindi meno tattico – quanto più liberamente e a proprio agio gli intellettuali sapranno muoversi sul terreno dell’ideologia» (Mangini 1957, p. 9). La lezione estetica e ideologica dei sovietici investe diversi piani della sua sensibilità artistica: il taglio dialettico della riflessione teorica e la sua stessa estetica filmica rimandano a una concezione moderna dell’apparato cinematografico, «basata sulla convinzione di un rapporto fertile tra immagini e “reale”» (Missero 2016, p. 55). Nel raccontare la vita quotidiana del proletariato urbano ed emarginato, il suo cinema s’inscrive nella tradizione del dispositivo come strumento di protesta, denunciando gli aspetti controversi della modernizzazione industriale postbellica. Il pensiero gramsciano, di grande ispirazione per la sua esperienza di regia, è alla base di un duplice scopo, politico e formale: entrambi convergono nella composizione delle strutture che descrivono l’oppressione egemonica e nella configurazione degli individui appartenenti alle classi sociali subalterne come agenti del cambiamento sociale.

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L’uso strategico dei social media come strumento imprescindibile per creare e mantenere una propria celebrity persona è un fenomeno relativamente recente nell’ecosistema delle celebrity italiane. In parte per una minore o più tardiva pervasività dei social e della loro adozione, in parte per una riluttanza di adattamento a un sistema transnazionale e internazionale che soltanto in tempi recenti è diventato alla portata delle più o meno giovani star italiane, in un fiorire di nuove strategie comunicative profondamente genderizzate. In particolare, a mio avviso è interessante concentrarci sulle attrici che hanno avuto una svolta importante per le loro carriere proprio all’interno di produzioni rese popolarissime sia in Italia che all’estero grazie alla loro distribuzione su Netflix, produzioni dedicate specificamente a un target di giovani e giovanissimi, avvezzi all’uso di un mezzo come Instagram.

Ho selezionato quindi tre profili di giovani attrici con simili caratteristiche: Benedetta Porcaroli, classe 1996, la cui carriera avviata da giovanissima prendendo parte alla serie Tutto può succedere (Rai, 2015-2018) è decollata dopo aver interpretato per tre stagioni Chiara, una delle protagoniste della serie teen Baby (Netflix, 2018-2020) [fig. 1]. Ludovica Martino, classe 1997, che negli ultimi tempi ha iniziato a interpretare anche ruoli di giovane adulta come ne Il Campione (Leonardo d’Agostini, 2019) e Lovely Boy (Francesco Lettieri, 2021), ma che deve la sua fama al ruolo di Eva, una delle protagoniste di SKAM Italia (2018-, la serie è notoriamente un format nato in Norvegia, e riadattato in nove versioni in altrettanti Paesi [fig. 2]. E infine Coco Rebecca Edogamhe, classe 2001, la più giovane delle tre, che al momento conta in carriera soltanto il ruolo che l’ha fatta conoscere, quello di Summer, la protagonista di Summertime (Netflix, 2020-) [fig. 3].

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Il continuo transito del Sé nei media lascia innumerevoli tracce in rete che, grazie al lavoro incessante di algoritmi in grado di elaborare molte variabili velocemente e con poche risorse computazionali, vengono restituite come personal data: le informazioni generate tramite dispositivi digitali, app, sensori traducono il Sé in numero, entità quantificata, sempre passibile di misurazione. In questo quadro, attraversato da una notevole attenzione bibliografica che va dall’apripista The Quantified Self: A Sociology of Self-tracking (2016) di Deborah Lupton al recente Capitale algoritmico (2020) di Ruggero Eugeni, le forme di autoconfigurazione del Sé attraverso le nuove tecnologie perdono progressivamente la dimensione ‘auto’, intesa come processo che il soggetto compie da sé in autonomia, per acquisire quella più radicale di processo automatico di definizione dei nostri vissuti. Sguardi non umani, machine vision, tracciabilità delle nostre esistenze sembrano segnare la strada verso forme di automatismo sempre più invasivo e totalizzante.

Ma se provassimo a ragionare da un’altra prospettiva, da un altro punto di vista, cioè quello del soggetto e non più solo quello della tecnologia, ribaltando la prospettiva di indagine e chiedendoci cosa succede all’umano nello sguardo ‘non umano’? Probabilmente si aprirebbe la possibilità di raccogliere molte storie di resistenza.

Dear Data è un progetto artistico di Giorgia Lupi e Stefanie Posavec composto da 104 cartoline che le sue information designers si sono spedite tra il settembre 2014 e il settembre 2015 da una parte all’altra dell’Atlantico per raccontare all’altra (e a se stessa) un anno di vita e imparare a conoscersi. Il progetto rimanda alla riflessione sui data, la soggettività e le forme di rappresentazione del Sé che si è imposta nel contemporaneo, e che per molti aspetti è stata rilanciata dal Quantified Self Movement. Fondato nel 2007 da due editor della rivista «Wired», Gary Wolf e Kevin Kelly, il Quantified Self Movement sostiene la conoscenza di sé attraverso i numeri, per un verso promuovendo l’incorporazione dei wearable device e delle pratiche di self-tracking nelle più disparate attività quotidiane per monitorare dati, performance, stati d’animo personali; per l’altro sostenendo la condivisione pubblica dei dati, dei metodi e dei significati ad essi attribuiti attraverso il sito e la social community.

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In questo breve saggio presento una riflessione su alcune fonti storiche che documentano il contributo delle donne alla produzione cinematografica in Italia tra il 1930 e il 1960. Questa ricerca fa parte di un progetto più ampio sulla storia degli stabilimenti cinematografici in Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia, intitolato STUDIOTEC: Infrastructure, Culture and Innovation in Britain, France, Germany and Italy 1930-60[1] e finanziato dal Consiglio Europeo per la Ricerca. Il gruppo di colleghi e colleghe che collabora al progetto STUDIOTEC, guidato dalla storica inglese Sarah Street, si muove lungo quattro assi principali, studiando in prospettiva comparatista e transnazionale la struttura architettonica e l’infrastruttura dei luoghi adibiti alla produzione cinematografica; la creatività e la sperimentazione tecnologica all’interno degli stabilimenti; le relazioni sociali e professionali esistenti tra le varie componenti della forza lavoro impiegata negli stabilimenti; i fattori politici e economici che hanno influenzato il settore.

Documentare la struttura e le dinamiche produttive all’interno dei vari stabilimenti cinematografici operanti in Italia tra il 1930 e il 1960 non è impresa facile, specialmente in contingenze, come quelle attuali, in cui l’accesso agli archivi locali, di stato, audiovisivi e di enti bancari o a collezioni private è limitato. Nonostante il generoso sostegno remoto di archivisti e colleghi in varie città italiane, dagli inizi della pandemia di COVID-19 a oggi (settembre 2021), mi sono spesso trovata a muovermi, in smart working, in direzioni alternative rispetto alla consueta esplorazione delle fonti d’archivio. Se questa lunga fase preliminare di indagine da remoto ha sicuramente posticipato la consultazione di fonti archivistiche utili a documentare non solo «la costruzione dell’artificio» (Cardone, Cuccu 2005) in Italia durante il periodo sotto analisi ma anche la sua organizzazione, d’altra parte, il lavoro di ricerca online ha messo in luce la presenza, o assenza, di fonti digitalizzate o meno, che documentano la divisione del lavoro all’interno degli stabilimenti cinematografici e che possono contribuire a esplorare il contributo delle donne alla produzione cinematografica nazionale.

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Giulia Veronesi (1906-1970) è stata una delle figure chiave della vita culturale milanese degli anni Trenta e Quaranta, benché oggi sia quasi del tutto dimenticata, complice la distruzione del suo archivio privato al momento della sua morte, nel rispetto delle sue ultime volontà.

Conosciuta ai più come la sorella dell’artista Luigi Veronesi, il suo impegno in ambito cinematografico non è ancora stato sufficientemente messo in risalto, se non in relazione alla sua professione di studiosa d’arte e di architettura (Chessa 2013). Questo contributo si pone quindi l’obiettivo di provare a mappare i contributi critici di Giulia Veronesi in campo cinematografico, soprattutto in relazione al suo ruolo nella fondazione della Cineteca Italiana e alla sua lunga collaborazione con la CinématheÌ€que française di Parigi, città dove risiede a fasi alterne dal 1939 al 1958.

Grazie alla ricostruzione biografica di Miriam Panzieri (Panzieri 2008, pp. 161-184) sappiamo che Veronesi si forma presso un istituto femminile, l’Accademia libera di Cultura e Arte fondata a Milano nel 1922 dal filosofo antifascista Vincenzo Cento. Tra i suoi insegnanti c’è lo storico dell’arte e direttore della rivista «Il Poligono» Raffaello Giolli, di cui Veronesi inizia a frequentare la casa, stringendo un rapporto di amicizia e di scambio di idee anche con la moglie, l’artista Rosa Menni (D’Attorre 2018). La coppia introduce la giovane nel vivace ambiente degli intellettuali antifascisti milanesi, un milieu privilegiato nel quale circolano liberamente film e libri proibiti dal regime, tra i quali i Bauhausbücher e gli scritti sul cinema di László Moholy-Nagy, che è Giulia a mostrare al fratello Luigi (Caramel 2002, p. 36) e che poi quest’ultimo rielabora e diffonde in Italia, sia durante che dopo la guerra (Malvezzi 2019). Sempre tramite i Giolli, nel 1929 Veronesi conosce Edoardo Persico ed entra nella redazione di «Casabella». Alla morte di Persico – avvenuta nel 1936 in circostanze mai del tutto chiarite – Giulia diventa la custode unica delle sue carte, che pubblicherà solo nel 1964 per le Edizioni Comunità di Adriano Olivetti (Scritti d’architettura 1927-1935), prima che queste venissero trafugate sparendo misteriosamente all’inizio degli anni Settanta [fig. 1].

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