3.3. Dear Data. Pratiche di resistenza artistica alla tracciabilità del Sé

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Il continuo transito del Sé nei media lascia innumerevoli tracce in rete che, grazie al lavoro incessante di algoritmi in grado di elaborare molte variabili velocemente e con poche risorse computazionali, vengono restituite come personal data: le informazioni generate tramite dispositivi digitali, app, sensori traducono il Sé in numero, entità quantificata, sempre passibile di misurazione. In questo quadro, attraversato da una notevole attenzione bibliografica che va dall’apripista The Quantified Self: A Sociology of Self-tracking (2016) di Deborah Lupton al recente Capitale algoritmico (2020) di Ruggero Eugeni, le forme di autoconfigurazione del Sé attraverso le nuove tecnologie perdono progressivamente la dimensione ‘auto’, intesa come processo che il soggetto compie da sé in autonomia, per acquisire quella più radicale di processo automatico di definizione dei nostri vissuti. Sguardi non umani, machine vision, tracciabilità delle nostre esistenze sembrano segnare la strada verso forme di automatismo sempre più invasivo e totalizzante.

Ma se provassimo a ragionare da un’altra prospettiva, da un altro punto di vista, cioè quello del soggetto e non più solo quello della tecnologia, ribaltando la prospettiva di indagine e chiedendoci cosa succede all’umano nello sguardo ‘non umano’? Probabilmente si aprirebbe la possibilità di raccogliere molte storie di resistenza.

Dear Data è un progetto artistico di Giorgia Lupi e Stefanie Posavec composto da 104 cartoline che le sue information designers si sono spedite tra il settembre 2014 e il settembre 2015 da una parte all’altra dell’Atlantico per raccontare all’altra (e a se stessa) un anno di vita e imparare a conoscersi. Il progetto rimanda alla riflessione sui data, la soggettività e le forme di rappresentazione del Sé che si è imposta nel contemporaneo, e che per molti aspetti è stata rilanciata dal Quantified Self Movement. Fondato nel 2007 da due editor della rivista «Wired», Gary Wolf e Kevin Kelly, il Quantified Self Movement sostiene la conoscenza di sé attraverso i numeri, per un verso promuovendo l’incorporazione dei wearable device e delle pratiche di self-tracking nelle più disparate attività quotidiane per monitorare dati, performance, stati d’animo personali; per l’altro sostenendo la condivisione pubblica dei dati, dei metodi e dei significati ad essi attribuiti attraverso il sito e la social community.

Dear Data racconta la nascita di un’amicizia basata sulla condivisione di dettagli personali, raccolti e organizzati attraverso infografiche. Ogni settimana le due artiste decidevano un elemento da monitorare (quante volte hanno detto «grazie», hanno esitato, hanno provato invidia, etc.) e producevano una cartolina con una grafica riassuntiva dell’intera settimana. Ogni cartolina riporta sul fronte l’infografica e sul retro, accanto all’indirizzo del destinatario, una sorta di legenda necessaria per interpretare l’immagine ed eventuali commenti personali. Ma il progetto di Lupi e Posavec, che pure ha punti di contatto con la filosofia del quantified self, prende subito un’altra deriva, ben più interessante.

Innanzitutto viene minata la pratica del self-tracking, non demandata a device ma incorporata dalle due artiste. Questo cruciale slittamento nasce da un’esigenza che Giorgia Lupi mette bene a fuoco nel suo Manifesto Data Humanism. The Revolution will be Visualized: «In its second wave, data visualization will inevitably be all about personalization. The more ubiquitous data becomes, the more we need to experiment with how to make it unique, contextual, intimate». In un mediascape capace di generare, estrarre e archiviare informazioni e trace dell’individuo sovente senza richiedere alcuna azione al soggetto stesso, Lupi e Posavec pongono in primo piano la necessità di comprendere e penetrare questo processo automatico. Emerge così per un verso la propensione direi liberatoria alla delega, per sottrarsi alla fatica del costante self-tracking – ad esempio Posavec nella quindicesima settimana ammette di non aver mantenuto l’impegno del monitoraggio, per l’altro la sottile violenza di un’appropriazione di informazioni intime – ad esempio nella Settimana dei desideri (Week 13) sempre Posavec ammette di aver oscurato alcuni dati sensibili sui quali l’artista vorrebbe mantenere maggior mistero. Un secondo elemento è che la peculiare posizione assunta obbliga le information designers a definire di volta in volta dei parametri di monitoraggio individuali, che dipendono dal contesto e dalla sensibilità del soggetto; parametri che differiscono nel monitoraggio e nelle rispettive cartoline, sollevando un’importante questione che riguarda le architetture e le logiche soggiacenti alle tecnologie e ai wearable device. I dati raccolti sembrano perdere la loro uniformità e oggettività ritrovando una complessità più affine all’esperienza della vita quotidiana.

Un altro elemento che conferisce a Dear Data grande originalità nel panorama dei self-tracking projects riguarda la scelta delle forme di visualizzazione dei dati, lasciata alle artiste e ancor più realizzata a mano e non attraverso infografiche informatiche. Questa dimensione artigianale che implica il gesto artistico, che permette di riconoscere immediatamente uno stile visivo individuale, che è in grado di accogliere la sbavatura e l’errore (Week 12, Lupi) e addirittura l’insoddisfazione dell’autrice, introduce nella sfera del monitoraggio una dimensione estremamente calda e personale. La creatività e il ruolo delle emozioni nella visualizzazione dei dati, a lungo trascurati, avvicinano il percorso di Lupi e Posavec alla data visualization literacy di matrice femminista promossa da Catherine D’Ignazio e Rahul Bhargava. La bellezza della grafica non si preoccupa di sovrastare la leggibilità delle informazioni raccolte, rivelando l’opacità delle forme di visualizzazione grafiche ma anche il loro fascino persuasorio.

Ripensando sia la pratica del self-tracking, sia il processo creativo dell’infografica Dear Data sembra in grado di coniugare la fiducia nei dati con una riflessione più profonda sulla loro produzione e sul loro utilizzo. Se come sostiene Theodore Porter «Quantification is a technology of distance» (Porter 1995), il progetto di Giorgia Lupi e Stefanie Posavec sposta significativamente il baricentro dell’attenzione dalla quantità alla qualità, lasciando ampi spazi alla auto-rappresentazione del soggetto.

 

Bibliografia

C. D’ignazio, R. Bhargava, ‘Approaches to Building Big Data Literacy’, in Bloomberg Data for Good Exchange Conference, 28 September 2015, New York City, NY, <https://dam-prod.media.mit.edu/x/2016/10/20/Edu_D’Ignazio_52.pdf> [accessed 22 September 2021].

G. Lupi, S. Posavec, Dear Data, London, Penguin Books, 2016.

D. Lupton, The Quantified Self: A Sociology of Self-tracking, New York, Polity Press, 2016.

D. Lupton, Data Selves: More-than-Human Perspectives, New York, Polity Press, 2019.

T. M. Porter, Trust in Numbers: The Pursuit of Objectivity in Science and Public Life, Princeton N.J, Princeton University Press, 1995.