1.7. Vite spettacolari. Autobiografie divistiche dalla scena allo schermo*

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Nel vasto perimetro dell’autobiografia, ormai canonizzato da un’ampia mole di studi, costituisce quasi un ambito a sé il filone delle autobiografie d’artista, diffuso a partire dalle memorie ottocentesche di cantanti e attori. Dopo aver calcato a lungo le scene e aver ricevuto omaggi dai pubblici di tutti le latitudini in patria e all’estero, la prima donna e il grande attore avvertono l’esigenza di affidare alla penna il proprio autoritratto: da un lato, essi vogliono tramandare ai posteri un ricordo di sé che oltrepassi le tracce effimere della loro attività (locandine e programmi di sala, cartoline e medaglioni, articoli sulla stampa); dall’altro intendono disegnare un profilo unitario della propria persona, parcellizzata e anzi smembrata da continue tournée e cambiamenti di repertorio; infine, in quanto divi continuamente esposti al giudizio e al pettegolezzo altrui, mirano a offrire la propria verità su se stessi, controbilanciando l’influenza e la pretestuosità di discorsi eterodiretti.

Ciò che però informa tutta l’argomentazione è l’obiettivo cui tende il testo: costruire un’identità narrativa di artista a cui sottomettere la scelta degli episodi narrati e il tono con cui riferirli. Memorie, autobiografie, ricordi sparsi, in qualsiasi forma si presentino, vanno a comporre un autoritratto su misurada consegnare ai posteri. Ne consegue che l’autobiografia d’artista è spesso – per usare la metafora di Rousseau su Montaigne (Lavagetto 2002) – un ritratto ‘di profilo’, poco incline alla confessione (che invece apre squarci su aspetti nascosti o irrisolti, problematici o dolorosi) e tale da attenuare o tacere i difetti di chi parla; un autoritratto messo in forma secondo le aspettative del pubblico. Il patto autobiografico (Lejeune 1986) con il lettore sottende questa ambiguità, per cui – a differenza di quanto accade per letterati e poeti – gli scritti memoriali in prima persona di artisti, la cui immagine pubblica è continuamente esposta alla costruzione dei media, sono frutto (con poche e ‘moderne’ eccezioni) di una autobiographic narrative persona, una sorta di mediazione tra la star persona, ossia il personaggio pubblico dell’attore, e il sé privato, una proiezione che sia compatibile con entrambi e che sia tale da non sconfessarli, pena la perdita dell’alleanza con i lettori o con i fan. Ne è prova il fatto che chi scrive è solito conservare il nome d’arte per rendere subito riconoscibile il proprio personaggio.

Con lo sviluppo dell’editoria e dei media tra Ottocento e Novecento, le autobiografie dei divi dello spettacolo si moltiplicano e, tra queste, numerose sono riconducibili ad attrici del teatro, del cinema o del varietà che,attraverso la scrittura letteraria, puntano a esercitare un nuovo tipo di agency. Lo scavo indiziario tra fonti primarie e secondarie consente una lettura in filigrana di tali testi rivelandone omissioni, falsificazioni, scarti e, in generale, numerosi elementi utili a determinare le possibili motivazioni della specifica costruzione del sé da parte di ciascuna prima donna. Ma questi autoritratti, redatti spesso in età avanzata e su pressione esterna (editori, amici giornalisti, personaggi pubblici), se messi a confronto presentano caratteristiche ricorrenti.

In questa sede vorrei focalizzare l’attenzione su un gruppo di dive che, nate nell’ultimo quarto dell’Ottocento, fanno esperienze cinematografiche negli anni del muto, quando il cinema è ancora in cerca di una legittimità espressiva e culturale. Oltre che da una vicinanza cronologica, esse sono accomunate da un’affinità professionale: si tratta di donne divenute celebri come cantanti e attrici di varietà, perciò al di fuori dell’ambiente cinematografico, ma che, per svariate esigenze o opportunità, transitano attraverso il cinema, salvo poi abbandonarlo per tornare a esibirsi di fronte al pubblico. Senza addentrarmi in percorsi biografici già solcati, desidero mettere in luce alcuni caratteri comuni alle autobiografie di queste donne artiste e, insieme, delineare quale sia la percezione sociale del cinema da parte di attrici solo prestate alla settima arte, in un sistema dello spettacolo ancora permeabile e ‘a bassa definizione’, dove è facile passare da una forma espressiva all’altra mantenendo come denominatore comune, appunto, quello di una personalità d’artista. È il caso di dive celeberrime come Lina Cavalieri (Natalina Adelina Cavalieri, 1875-1944) e Anna Fougez (Maria Annina Laganà Pappacena, 1894-1966), ma anche di artiste oggi dimenticate come Mimy Aylmer (Eugenia Spadoni, 1896-1992).

 

1. Testo e paratesto

L’orientamento delle autobiografie è reso esplicito, come è noto, dagli elementi paratestuali. La scelta del nome d’arte al posto di quello di battesimo, ad esempio, identifica l’obiettivo – condiviso dalle tre autrici – di mettere a fuoco soprattutto la propria personalità artistica. Il titolo rafforza la soggettività dello sguardo nel ricorso al pronome personale o all’aggettivo possessivo, ma insieme esplicita l’eccezionalità di ciascuna: Lina Cavalieri provocatoriamente intitola il volume Le mie verità, sottintendendo l’indole iperbolica o menzognera delle cronache mondane; Anna Fougez si affida a un aforisma d’effetto che sottintende come la diva sia l’oggetto del pettegolezzo collettivo (Il mondo parla ed io passo), mentre Mimy Aylmer identifica la propria vita avventurosa con il racconto romanzesco (Il romanzo della mia vita). Le copertine avvalorano la loro fama con fotografie scattate in gioventù o, nel caso di Anna Fougez, con un disegno liberty che la ritrae nei suoi celebri, appariscenti costumi di scena.

 

2. Passato e presente

Il testo autobiografico comporta «una ricerca retrospettiva dei barlumi dell’avvenire nel confuso ordito di una vita già segnata da un destino non ancora realizzatosi» (D’Intino 1998, p. 133): il momento in cui viene steso, in altre parole, orienta il punto di approdo e il senso complessivo dell’esistenza di chi si accinge all’auto-esame.«Una attrice è la mescolanza di cento vite umane messe insieme» (AF, p. 12), e per questo la sua vita merita di essere raccontata. Il modo con cui la si guarda, dipende poi dall’altezza storica in cui il ricordo viene attivato. AnnaFougez scrive a 36 anni, mentre è attivamente impegnata nella manutenzione della propriacelebrità e proiettata verso il futuro («Sono ancora un’artista militante […], quindi ho ancora molto cammino da percorrere» [AF,p. 14]); al contrario Mimy Aylmer, che stende il suo racconto a settant’anni, ospite di una casa di riposo, ne fa un atto testamentario («Ricordo bene tutto, il male e il bene. Della mia vita, e se ho peccato ho avuto il coraggio di chiedere perdono con sincerità e devozione!» (MA,p. 236).Quando Lina Cavalieri scrive ha dieci anni di meno: si è già da tempo ritirata dalle scene, e vive paga della compagnia di amici fidati («“Ritirarsi a tempo!” Gusta divisa, alla quale, forse troppo presto, ho sacrificato qualche soddisfazione, assicurandomi però la immunità contro il più grande nemico di noi artisti: la delusione!» [LC, p. 166]).

 

3. Il trauma originario

Forse il tratto più eclatante di queste autobiografie è legato all’infanzia, laddove si colgono non solo le prime avvisaglie del talento, ma dove hanno luogo, soprattutto, dei veri e propri eventi traumatici (Brugnolo 2012), connessi in particolare alle figure genitoriali. Essi sono all’origine della scelta da parte delle ragazze di affrontare il palcoscenico facendo tesoro dell’unico bene che non può essere loro tolto: il proprio corpo, favorito da un aspetto grazioso e da una voce intonata. Lina Cavalieri all’età di 13 anni deve sostenere la famiglia caduta in rovina in seguito al licenziamento del padre che ha difeso la moglie dalle molestie del datore di lavoro. Allo stesso modo Mimy Aylmer, dopo la fuga del padre che lascia la moglie sola e senza mezzi di sostentamento, deve provvedere alle esigenze familiari («anch’io sono figlia di una situazione familiare sfasciata» [MA, p. 13]) e per tutta la vita sviluppa un fortissimo attaccamento verso la madre. Sull’infanzia di Anna Fougez si è fatta luce di recente: figlia di una sciantosa che la abbandona nella ‘rota dei proietti’, viene prima data in affido a una balia, e quindi adottata dalla sorella della madre naturale e dal marito («Così ho avuto tre madri: quella che mi ha dato alla luce, la balia e la zia. Mi sarei accontentata di una sola, ed averla per tutta la vita!» [AF, p. 26]).

 

4. L’arte come vocazione

I racconti tratteggiano un analogo itinerario di formazione verso il raggiungimento di una generica‘arte’: le donne, che non provengono dal mondo dello spettacolo, scoprono in sé fin da bambine doti canore e capacità interpretative; inseguono con determinazione il sogno di esibirsi sui palcoscenici fino a conquistare – spesso con l’aiuto di persone influenti, e con il supporto non indifferente di un corpo aggraziato, quando non seducente – ampie platee. L’‘arte’ – sul cui statuto difficilmente si interrogano – coincide in gran parte con il successo: gli accenni alle proprie qualità vocali (si ricordi che si esibiscono come cantanti, almeno in una certa fase della carriera) sono pochi e per lo più auto-elogiativi, nonostante tutte presentino alcune debolezze; al contrario sono enfatizzati lo studio e la continua ricerca (che surrogano la mancanza di un percorso di formazione regolare) nonché il coraggio di affrontare e superare sfide sempre più impegnative. Così il percorso narrativo ed esistenziale si delinea come una progressiva espugnazione di teatri e di città, una conquista del pubblico (e, in subordine, della critica) che muove da Genova, Roma e Napoli e si irradia progressivamente verso tutti i palcoscenici nazionali e da qui alla conquista del mondo (Parigi, Londra, San Pietroburgo, l’America). Il pubblico è il vero oggetto di desiderio delle artiste, «il più fedele degli amanti» (MA, p. 127)e l’orizzonte ultimo di una vita di fatiche e sacrifici: «il pubblico che mi conosce sa che io ho tanto amato ed amo la mia carriera d’artista e ad altro non penso, che a rendermi sempre più benevola delle folle, con le quali ho sempre avuto un piacevolissimo scambio di emozioni» (AF, pp. 12-13).

 

5. Donne di talento

Parlando delle attrici che scrivono, Maria Rizzarelli (2018) ha ricordato l’importanza della categoria del «doppio talento»proposta da Michele Cometa (2014). Ciò che emerge dalle autobiografie considerate è però un talento plurimo,eccedente e diffuso, che si esprime in una molteplicità di direzioni. Lina Cavalieri è una canzonettista che abbraccia il canto lirico esibendosi nei teatri di tutto il mondo e si reinventa poi come autorità nel campo della cosmesi (apre più di un negozio e pubblica un libro), ma è anche una valorosa sportiva amante della bicicletta. Anna Fougez non è solo interprete di canzoni bensì autrice di versi e musica, scrittrice di aforismi e poesie, creatrice di moda e disegnatrice di costumi, nonché imprenditrice dello spettacolo con la formula della Grande Rivista Italiana. Mimy Aylmer suona il piano, esordisce come canzonettista, poi passa all’operetta e al teatro di prosa (comico e drammatico); partecipa alla Mille Miglia (1929) e a numerose gare automobilistiche («ero bravissima, a vero dire non sono stata mai brava in nulla come nel guidare l’auto» [MA, p. 115]), inoltre coltiva la passione della fotografia. Tutte sono poi attrici cinematografiche.

Sorge il dubbio che il talento, in questi anni di sviluppo ed evoluzione di un sistema di spettacolo e mediale, non risponda tanto all’eccellenza in un campo, ma sia piuttosto una somma di qualità che hanno a che fare con l’agency: l’essere donne intelligenti e determinate, di bell’aspetto, intuitive e coraggiose, capaci di far fruttare le proprie inclinazioni (vocali, mimiche, gestuali ed espressive, talvolta creative) e di padroneggiare i segreti della comunicazione pubblicitaria. È questo insieme di doti che ne fa delle ‘artiste’.

 

6. Il cinema è arte?

Si capisce in quest’ottica il loro rapporto ambivalente con il cinema. Tutte lo incontrano fin dagli anni Dieci, recitano in una manciata di pellicole nel muto (e in alcuni casi nel sonoro), sono impegnate in numerosi progetti (alcuni dei quali non vedono la luce), apprezzano sicuramente la notorietà che il mondo del cinema apporta loro, ma non arrivano mai ad abbracciarlo. La perdita di gran parte dei film che le vedono protagoniste non consente di formulare giudizi sulla loro interpretazione, che appare comunque in linea con i canoni del tempo (e in alcuni casi addirittura spigliata). Ma si può affermare che non scatti la molla della passione, e che il cinema rimanga un’attività marginale, in alcuni casi ‘alimentare’. Anna Fougez non lo nomina mai nelle sue memorie. Lina Cavalieri ricorda il fastidio dei fari durante le riprese. Mimy Aylmer descrive la noia di sedute ripetitive ed estenuanti. La mancanza di un contatto vivo con il pubblico (vero e proprio serbatoio emotivo) che sancisce il gradimento della performance, e lo statuto ‘meccanico’ del cinema impediscono a queste interpreti di manifestare appieno nella recitazione cinematografica la propria indole artistica. E, di conseguenza, di credere che il cinema sia una vera forma d’arte.

Da questi tratti derivano altri aspetti della personalità d’artista tratteggiata nelle autobiografie che, per ragioni di spazio, posso qui solo accennare. In primo luogo il rapporto maieutico e complice con le donne, a cui indirizzano i loro consigli e la loro simpatia: nelle memorie non trovano spazio gelosie o invidie per le altre dive o per le spasimanti dei loro amanti, ma tutte le donne vengono viste con l’occhio benevolo di chi è in cerca di consensi («l’ultima delle mie speranze, è quella di essere compresa dalle donne, se è vero, che esse intendono e comprendono assai più di quanto spesso lasciano apparire» [LC, p. 7]). Al contrario, il rapporto con gli uomini è spesso problematico, quando non conflittuale perché di ostacolo alla loro professione o, comunque, le distoglie dal perseguire finalità d’arte: le dive riconoscono il proprio potere seduttivo («eccomi diventata, mio malgrado, la salsa eccitante dei pasti grassocci di lor signori», [AF, p. 43]) ma tengono a depurarlo degli aspetti più provocatori o lascivi. Canzonano gli ammiratori petulanti, citano i personaggi pubblici che hanno subito il loro fascino (principi, uomini politici), pubblicano lettere e fotografie che attestano la stima degli intellettuali nei loro confronti, ma proteggono l’immagine dei mariti (o fidanzati) lasciandola sottotraccia. Ai potenti si inchinano con opportunistica deferenza – in particolare durante il fascismo – per poter perseguire i loro scopi di arte e di libertà.

Difficilmente sposano ideali femministi (o protofemministi): impegnate ad amministrare la propria immagine pubblica, preservandola da eccessi che potrebbero risultare impopolari, fanno aperta professione di fedeltà agli ideali della tradizione (l’attaccamento alla patria, la fede religiosa, l’elogio della vita campestre, l’importanza della famiglia – raccomandata, in quest’ultimo caso, alle altre donne).

Il corpo ha uno spazio di rilievo in queste autobiografie: si tratta di un tempio, quando non di uno strumento di lavoro da curare e preservare. Qua e là trapelano consigli di bellezza, indizi sulle diete dimagranti o sulla cura della pelle. La ‘sfioritura’ della stagione matura non è evidenziata, ma neppure nascosta: Lina Cavalieri, ad esempio, dopo aver accennato al suo ‘altruismo estetico’ esercitato come responsabile di case di bellezza, commenta: «ho lasciato ad altri il compito di continuare l’opera mia e, guardandomi allo specchio, ho pensato che era giunta l’ora di occuparmi un po’ della mia conservazione» (LC, p. 170). A testimonianza di ciò, pubblica alcune immagini che la ritraggono negli anni maturi.

È ancora Lina Cavalieri, con un’arguta pennellata, a sintetizzare quale sia il requisito indispensabile dell’artista: quello della personalità.

 

Oggi tutte le donne si vestono, si truccano, si pettinano allo stesso modo: oggi tutte si muovono e camminano nella stessa maniera; oggi quasi nessuna donna è dissimile dalle altre: quindi è impossibile farsi notare. Le donne, invece, del mio periodo (parlo delle donne di classe, fossero queste grandi dame, o artiste), tenevano, soprattutto, al marchio della propria personalità. […] È la personalità che emerge sempre, che si afferma, che vince. Nel 1936 le donne che ‘sono veramente, sostanzialmente diverse dalle altre’, hanno il loro successo e affermano la loro notorietà, come nel 1900 ma, disgraziatamente, la mania di uniformare troppo, di copiare troppo, di annullare troppo l’‘io femminile’, per riportarlo ad una forma di ‘standard’ catalogato e convenzionale, rendono assai più difficile l’affermarsi della personalità! (LC, pp. 171-176).

 

Un’acuta lettura sociologica che consegna il medesimo interrogativo ai nostri tempi, e che forse ratifica il motivo dell’abbandono precoce del cinema da parte di queste artiste che non hanno trovato il modo di infondervi la loro personalità.

 

Bibliografia

Autobiografie di donne artiste attive nel cinema muto (la sigla in fondo indica la fonte delle citazioni nel testo)

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L. Cavalieri, Le mie verità, a cura di e con un saggio introduttivo di Fiorenza Taricone, Milano, Ledizioni, 2021.

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*Questo articolo nasce nell’ambito del progetto di ricerca PRIN (bando 2017): Divagrafie. Drawing a Map of Italian Actresses in writing // D.A.M.A. / Divagrafie. Per una mappatura delle attrici italiane che scrivono // D.A.M.A., che vede come Principal Investigator Lucia Cardone (Università degli Studi di Sassari) e come responsabili delle altre unità coinvolte nel progetto Anna Masecchia (Università di Napoli Federico II) e Maria Rizzarelli (Università degli Studi di Catania).