In un’illustrazione del 1918 sulla rivista In Penombra un vecchio stanco, con le vesti logore e la barba lunga, dà le spalle a un giovane ragazzo timido ma con lo sguardo vispo [fig. 1]. La didascalia recita «dialogo tra teatro e cinematografo». L’immagine correda un bell’articolo di Fausto Maria Martini sulla presunta battaglia tra parola e silenzio, nella quale il vecchio teatro si lamenta di essere sfruttato da un ʻragazzoʼ troppo insolente. È solo un esempio di quanto simili discussioni puntellino le riviste d’arte cinematografica e invadano a poco a poco gli spazi di quelle teatrali più rinomate (Comoedia, Il Dramma, e più avanti Scenario). In questi dibattitti spesso si dà al teatro il pregio della parola e al cinema quello di ʻoltrepassare i confiniʼ: pettegolezzi estetici li chiamavano alcuni, peccati di orgoglio li definivano altri. Le riviste teatrali che si occupano di cinematografo spesso registrano i cambiamenti, avvertono delle novità, propongono approfondimenti e ospitano sondaggi che invitano i lettori a scegliere tra le due forme d’arte, motivando le ragioni delle proprie preferenze. Durante gli anni Venti il dibattito critico si intensifica e si mettono in atto nuovi modi organizzativi e produttivi di diffusione del mezzo cinematografico: aumentano le riviste specializzate, nomi altisonanti della cultura cominciano a interessarsi al fenomeno, ma una vera e propria critica cinematografica nasce solo negli anni Trenta. Se all’inizio il cinematografo pesca le sue professionalità dalle fila dei filodrammatici, quando le richieste si fanno più sofisticate inizia ad avere necessità di diversi tipi di maestranze e artisti. Molti attori lasciano la scena per lo schermo, annusandone i facili guadagni, seguiti poco più tardi dagli autori. Il cinema diventa la forma di spettacolo più apprezzata dal pubblico (o meglio da un certo tipo di pubblico), e la crisi sui palcoscenici di prosa è senza precedenti, ma riguarda di più l’ambito organizzativo-economico che quello estetico. È bene ricordarlo: dal punto di vista attorale ancora negli anni Venti gli interpreti sono fulgidi esempi «dell’arte nostra», nonostante qualcuno li pensasse come vecchi araldi di cui liberarsi. Quindi, se di crisi si parla è tutta una questione che si gioca fuori dalle assi del palcoscenico.
Di fatto, non è il teatro di prosa a perdere spettatori ma più semplicemente nasce un nuovo pubblico, che già da qualche anno alimenta le file di un altro tipo di spettacolo molto più dinamico: il varietà e le sue forme annesse, come il caffè-concerto, il café chantant, l’operetta, il music-hall. Non ce ne occuperemo in questa sede, ma per i futuristi quello del varietà sarà un esempio cui aspirare, spettacolo nuovo per eccellenza, diventerà un contenitore di forme, modi e artisti lasciati fuori dal teatro ʻmaggioreʼ.
Nel primo decennio del Novecento il varietà inizia a definire la propria struttura, essenzialmente divisa in due parti: la prima gremita di divette e chanteuses che provano a destreggiarsi tra gli sberleffi di un certo pubblico, la seconda che alterna ʻcanzonettistiʼ, comici, numeri di danza maschili e femminili; a chiudere lo spettacolo è l’étoile o il comico di riconosciuta fama. È questo trionfo di eccentricità la garanzia del successo del varietà. Le esibizioni trasformiste e le meraviglie profuse dagli artisti rivelano una sorta di ribellione, non programmata, al carattere statico e passivo dello spettacolo di prosa. La ribellione però appartiene più al pubblico che agli artisti, i quali spesso aspirano ai lustri del teatro maggiore (è il caso esemplare di Viviani e Petrolini). Lo spettatore cerca uno spettacolo diretto, a prezzi più economici, e in una sala più chiassosa dove si può instaurare un vero dialogo tra scena e platea. Che poi quest’ultimo rischi di limitarsi a fischi e urla rientra tra le possibili derive della serata.
La coscienza dello spettacolo nei primi due decenni del Novecento espande quindi i propri confini, grazie a due forme di spettacolo nuovo, il varietà e il cinematografo, che in quegli anni rappresentano la frontiera da cui erodere le certezze di un vecchio fare teatrale. Di certo sono una frontiera instabile, che ha continuamente bisogno di essere attraversata, che si interroga sui confini e i limiti di un mondo più vasto, di una società in evoluzione e forse sempre più incomprensibile. Cinema e varietà individuano un nuovo spazio di rappresentazione in cui il pubblico ha un ruolo determinante, e che non si adatta al segno arbitrario che la quarta parete traccia a teatro. Uno spazio di frontiera che pone fine a qualcosa, oltre la quale non è ben chiaro cosa resti. Non lo sapeva il pubblico e forse non lo sapevano neanche gli stessi artisti; è questo il fascino che ha attirato spettatori e guadagni: un tipo di spettacolo, quello del cinema e del varietà, su cui non grava il peso di un testo da rispettare, né di un autore cui essere riverente. Spettacoli nuovi, zone di frontiera che diventano per tutti una ʻfinestra affacciata sul mondoʼ, un luogo dell’immaginazione, dell’incontro tra possibile e impossibile.
In questo confronto il teatro di prosa appare preoccupato soprattutto dal cinema, vera e propria industria dai lauti incassi. Ad esempio nel 1912 viene inviato al capo del Governo Giolitti un memoriale per porre fine alla concorrenza del cinematografo, mentre il varietà, ʻminoreʼ per statuto, non è avvertito come una minaccia. E di fatto non lo è. Non è neanche un’alternativa, perché il pubblico del varietà, non esclude di occupare le poltrone rosse delle sale di prosa e poi quelle di una sala di caffè-concerto. E anche gli attori, se debbono contaminarsi, preferiscono di certo il cinema, ma senza abbandonare l’arte di provenienza. Di Maria Melato si dice che «sacrificherebbe troppo di sé se lasciasse il teatro parlato per quello silenzioso» (In Penombra, gennaio 1918). Quello che sembra turbare è l’immagine di grandi e raffinate attrici che appaiono nei film davanti a un pubblico eterogeneo, fatto anche di ʻscaricatori di portoʼ e ʻpopolinoʼ.
Queste problematiche non turbano invece le artiste di varietà: Anna Fougez, nome d’arte di Maria Annina Laganà Pappacena, per quarant’anni è diva indiscussa del teatro di varietà, e poi dal 1916 al 1921 si dedica al cinema, recitando in ben nove pellicole [fig. 2]. Per alcuni rappresenta l’artista moderna per eccellenza, un temperamento ardente e passionale castigato da una disciplina e da un’austerità d’arte intuitiva, ma non per questo meno meravigliosa. Fougez modella adagio il carattere del personaggio che rappresenta, disegnandolo con lievi contorni che a mano a mano acquistano evidenza ed efficacia. In una recensione al suo film Fiore Selvaggio (1921) si legge:
Anna Fougez […] ha conquistato la padronanza della mimica. Nella parte di grande etèra non ha potuto naturalmente far molto, ma quando le si è prestato il destro di mostrarci una figura di fanciulla selvaggia […], abbiamo visto rivivere sullo schermo la maliziosa e disinvolta personalità dell'attrice (Edgardo Rebizzi 1923).
Disinvoltura non indica solo esibizione, ma qualcosa che in maniera più sottile conduce chi guarda in una zona ʻaltraʼ. Il momento della proiezione del film e quello dell’esibizione sul palco in una sala di varietà, sono attimi sospesi in cui la tangibilità del corpo rompe gli schemi e punta alla fantasia. Lo sa bene un’artista come Fougez, che sin da piccola si era guadagnata duramente il favore dei più diversi pubblici d’Italia (e non solo). Si badi, però, non è svendita di sé: Anna Fougez è un’artista raffinata, nel suo dire «la mia maschera la offro a tutti», voleva semplicemente restituire l’idea di uno scambio con il pubblico lontano dalla riservatezza esibita dalle attrici di prosa. Fougez è la portavoce di uno spettacolo democratico e insieme l’emblema di quanto questo incuta timore, proprio perché alla portata di tutti. Gli attori drammatici in qualche caso prestati al cinema si avvicinano con l’aria umiliata di chi fa qualcosa di ʻindecorosoʼ. Per quelli di varietà invece c’è tutto da guadagnare, le chanteuses hanno tutt’altro rapporto con il pubblico e con la presunta ʻmercificazioneʼ del proprio corpo. In poche parole, se degli attori di teatro al cinema si critica l’ingigantire i gesti per supplire alla mancanza di parola, quelli di varietà hanno già ampiamente questo ostacolo. Le loro carriere iniziano dalle piccole sale di caffè-concerto dove le distanze si annullano, sono abituati a un’esibizione di sé senza orpelli e sanno affrontare un pubblico eclettico, le sue smanie di possesso e la contrattazione di una sala dove vige la democrazia. Per molti di questi artisti il protagonista è il corpo: strumento privilegiato di divertimento e gioco, fantasia, incanto e in alcuni casi fattore di diffidenza. Non è un’estremizzazione se molte delle dichiarazioni di quegli anni tuonano nei confronti della nuova arte come «merce da bordello che appesta la nazione» (lo dice deputato Belotti nel 1918). Nel varietà il corpo può essere avvicinato, nel cinematografo è esibito come riproduzione meccanica della realtà, ma in entrambi i casi alla base vi è un’idea che si avvicina al possesso. Anna Fougez gravita attorno a queste due forme d’arte consapevole dei desideri del pubblico, costruendo la sua personale zona di frontiera (di cui parlavamo poco prima), luogo dell’immaginazione, dell’incontro tra possibile e impossibile. Lo fa inizialmente nel varietà e nel cinema, e lo farà più tardi con la Rivista italiana, creando quadri fantasmagorici nei quali inserire la sua presenza corporea. Così si dà a un’arte che è insieme danza e dramma, silenzio e poesia; ma soprattutto è ʻfrontieraʼ, che per lei significa la fine di uno spazio oltre il quale non è ben chiaro cosa si possa trovare.
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