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Milleluci costituisce uno spettacolo per molti versi ineguagliato nella storia della televisione pubblica italiana, sia per la sua collocazione storica – il 1974, durante il periodo dell’austerity e alla vigilia della proliferazione dell’emittenza televisiva privata – che per le scelte artistiche che lo caratterizzano. Il programma, diretto da Antonello Falqui, promuove una celebrazione in grande stile del passato musicale e dello spettacolo nazionale, affidandone per la prima volta la conduzione a una coppia femminile di protagoniste assolute come Mina e Raffaella Carrà. La loro elevata e versatile professionalità artistica, unita a una presenza scenica complice e autoironica, supportata dal contributo di una squadra di collaboratori di prim’ordine (da Gianni Ferrio a Roberto Lerici) e di ospiti significativi, fa di Milleluci un rilevante punto d’approdo. Il viaggio del programma televisivo attraverso i generi dello spettacolo musicale e i media che li hanno veicolati (dalla radio al café-chantant, dalla rivista al cabaret, dall’operetta al musical alla televisione) viene ricostruito attraverso un elaborato lavoro storico e scenografico che può essere fruito da diverse tipologie di pubblico, da quelle attente agli aspetti performativi, a quelle che ne colgono il portato autoriflessivo e sottilmente critico. 

Milleluci represent a spectacle in many ways unparalleled in the history of italian public television, both for its historical position –  1974, during the period of austerity and on the eve of the proliferation of private television broadcasting – and for its artistic choices. The program, directed by Antonello Falqui, promotes a celebration in grand style of the musical past and the national show, conducted for the first time by a female couple of absolute protagonists such as Mina and Raffaella Carrà. Their elevated and versatile artistic professionalism, combined with a close and self-mocking stage presence, and with the contribution of a team of first-rate collaborators (from Gianni Ferrio to Roberto Lerici) and significant guests, makes Milleluci an important arrival point. The journey of the television program through the genres of the musical show and the media that broadcasted them (from radio to café-chantant, from magazine to cabaret, from operetta to musical and to televison) its reconstructed through an elaborate historical and scenographic work, that can be enjoyed by different types of public: from those attentive to the performative aspects, to those that capture its self-reflexive and subtly critical brought.

È il 16 marzo 1974 quando, sul programma nazionale televisivo, si accendono per la prima volta ‘mille luci’ sulla storia dello spettacolo musicale: si tratta di una rievocazione in grande stile, destinata a segnare una tappa ineguagliata per la televisione italiana non solo per l’ingente dispiegamento di mezzi finanziari, ma anche per l’attenta rilettura dello spettacolo musicale che lo show propone. Il pubblico mostra di gradire l’operazione, assicurando al programma un successo attestato da 24 milioni di spettatori, che costituiscono un assoluto record per l’epoca,[1] forse attratti dal titolo del programma che, oltre a richiamare l’opulenza e la retorica altisonante dello show business, costituisce una pausa rilassante nel difficile clima dell’austerity.

In effetti, le misure introdotte dal governo Rumor nel dicembre 1973 per contrastare le conseguenze della crisi petrolifera non hanno ripercussioni solo sui trasporti, ma investono numerosi aspetti della vita quotidiana tra cui il consumo di media, come cinema e televisione, che subiscono contrazioni nella programmazione.[2] Perciò le ‘mille luci’ del varietà diretto da Antonello Falqui – da spegnersi rigorosamente prima dell’ora fatidica del coprifuoco – aprono a una pluralità di aspettative e di direzioni cui lo show cerca di far fronte.

È d’altra parte difficile inventare un format musicale inedito e originale. Come hanno messo in luce Luisella Bolla e Flaminia Cardini, la «macchina sonora» della Rai[3] ha già prodotto decine di programmi che fanno della musica il loro punto di forza. Accanto ai consolidati Canzonissima – un vero e proprio cavallo di battaglia del varietà sostenuto da una competizione canora, in onda dal 1956 al 1975 – e Teatro 10, che nel 1972 raggiunge la terza edizione, presentata da Alberto Lupo con Mina, le tipologie di show musicali più frequentate sono diverse. Oltre alle proposte dedicate ai singoli generi musicali (dal pop al jazz alla musica classica) e ai loro principali protagonisti,[4] in particolare dall’inizio degli anni Settanta si avviano percorsi più innovativi, organizzati come viaggi alla scoperta di territori, culture, tematiche che prendono forma anche attraverso le canzoni. È il caso di Europa Folk e pop (di Gianni Minà e Gian Piero Ricci), seguito, l’anno successivo (1973) da Folk e pop nell’America latina, due itinerari di perlustrazione e conoscenza di spazi geografici e musicali; ma anche di format come Milledischi, trasmesso dal 1971 con l’obiettivo di arginare la crisi del disco valorizzando tutte le novità (dalla musica classica al jazz e folk e canzonette) o Adesso musica dell’anno successivo con la medesima formula.

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In un’illustrazione del 1918 sulla rivista In Penombra un vecchio stanco, con le vesti logore e la barba lunga, dà le spalle a un giovane ragazzo timido ma con lo sguardo vispo [fig. 1]. La didascalia recita «dialogo tra teatro e cinematografo». L’immagine correda un bell’articolo di Fausto Maria Martini sulla presunta battaglia tra parola e silenzio, nella quale il vecchio teatro si lamenta di essere sfruttato da un Ê»ragazzoʼ troppo insolente. È solo un esempio di quanto simili discussioni puntellino le riviste d’arte cinematografica e invadano a poco a poco gli spazi di quelle teatrali più rinomate (Comoedia, Il Dramma, e più avanti Scenario). In questi dibattitti spesso si dà al teatro il pregio della parola e al cinema quello di Ê»oltrepassare i confiniʼ: pettegolezzi estetici li chiamavano alcuni, peccati di orgoglio li definivano altri. Le riviste teatrali che si occupano di cinematografo spesso registrano i cambiamenti, avvertono delle novità, propongono approfondimenti e ospitano sondaggi che invitano i lettori a scegliere tra le due forme d’arte, motivando le ragioni delle proprie preferenze. Durante gli anni Venti il dibattito critico si intensifica e si mettono in atto nuovi modi organizzativi e produttivi di diffusione del mezzo cinematografico: aumentano le riviste specializzate, nomi altisonanti della cultura cominciano a interessarsi al fenomeno, ma una vera e propria critica cinematografica nasce solo negli anni Trenta. Se all’inizio il cinematografo pesca le sue professionalità dalle fila dei filodrammatici, quando le richieste si fanno più sofisticate inizia ad avere necessità di diversi tipi di maestranze e artisti. Molti attori lasciano la scena per lo schermo, annusandone i facili guadagni, seguiti poco più tardi dagli autori. Il cinema diventa la forma di spettacolo più apprezzata dal pubblico (o meglio da un certo tipo di pubblico), e la crisi sui palcoscenici di prosa è senza precedenti, ma riguarda di più l’ambito organizzativo-economico che quello estetico. È bene ricordarlo: dal punto di vista attorale ancora negli anni Venti gli interpreti sono fulgidi esempi «dell’arte nostra», nonostante qualcuno li pensasse come vecchi araldi di cui liberarsi. Quindi, se di crisi si parla è tutta una questione che si gioca fuori dalle assi del palcoscenico.

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