Le vicende del tempo presente non si prestano facilmente alla rappresentazione letteraria; la narrazione necessita della mediazione indispensabile della memoria che ne deposita il senso. Il ritorno è lontano, l’ultimo romanzo di Alessandra Sarchi, con grande coraggio non esita a fare di temi attualissimi carne e sangue della propria scrittura, in coerenza con la convinzione, già espressa nelle sue opere precedenti, che «compito della letteratura sia quello di addentrarsi dentro la vita e provare a descriverla, darle una forma, attraverso la lingua e la struttura, che ci permetta di percepirla nella sua prismaticità».[1]

Il romanzo racconta una vicenda scarna di azioni, centrata su Sara, una donna matura, destabilizzata per la separazione dalla giovane figlia Nina che lascia il nido domestico per andare a studiare in Germania. Tale evento è vissuto da Sara come una mutilazione che ne mina l’identità perché le sottrae la dimensione della cura. Nina, militante ecologista, sceglie di frequentare l’università lontano da casa, non solo per i proclamati motivi di studio, ma anche per una ferma volontà di autonomia: «ho bisogno di staccarmi da mia madre. Non è che non andiamo d’accordo, è solo che preferisco stare lontano da lei e da mio padre. Mi fa piacere vederli, ma di tanto in tanto. Qui mi sembra di essere più libera».[2]
Da questa premessa si sviluppa la vicenda di Sara e Nina, accompagnate da Paolo, marito e padre, fino all’apparire di Pietro, un bambino che entra nella famiglia con effetti destabilizzanti. L’azione nel romanzo, in relazione agli eventi esterni, è ridotta all’osso, a favore dell’osservazione puntuale e accurata dei movimenti interiori generati dalle dinamiche relazionali, senza cedimento a psicologismi gratuiti, con una circolarità che rende gli stati emotivi come autentici fatti, e i fatti salienti in quanto gravidi di stati emotivi. Una simile materia narrativa consente all’autrice di far coincidere fabula e intreccio, con un racconto in presa diretta del continuo evolutivo della storia, mediante una scelta formale che incorpora la mimesi nella diegesi, fino a rendere l’impersonale voce narrante, una sorta di testimonianza partecipe.
Sara sperimenta il suo essere madre come corpo biologico e come corpo sociale in una dinamica speculare di svuotamento e perdita. La scissione diviene costitutiva del senso del materno, già tema dominante dei precedenti romanzi dell’autrice (Il dono di Antonia in particolar modo); la procreazione, infatti, è destinata a compiersi nella elaborazione di un progressivo e costante distanziamento che non può avere esito di ricongiungimento se non quale tentativo illusorio, tuttavia in qualche modo necessario, poiché le illusioni sono indispensabili per l’esistenza tanto quanto gli errori. Nina, per contro, incarna il bisogno della differenziazione sul piano personale e della ribellione generazionale. Il suo attivismo ecologista, rancoroso ed estremista, totalizzante e pervasivo, tracima dalla militanza alle relazioni personali. Del resto, l’evidenza dei disastri ambientali unita al timore che i processi distruttivi in corso siano irreversibili, aumenta l’urgenza della sua militanza:
Durante una passeggiata lungo la Binnenalster – i piedi punti dal freddo nonostante i calzettoni pesanti, l’acqua del lago scura come uno specchio antico, campanili e grattacieli toccati dalle ultime scintille del sole nordico – Nina si era seduta su una panchina e nel silenzio improvviso, nella calma del gelo invernale, aveva concepito l’inconfessabile desiderio che tutto si fermasse, perché solo fermandosi e smettendo di produrre e consumare si poteva evitare la distruzione. Il freddo le rendeva penosa l’immobilità e dilatava la percezione del tempo: era anche solo immaginabile che l’intero pianeta rallentasse? Che diminuissero i voli aerei, le estrazioni di materiali, il consumo elettrico, il traffico stradale, le costruzioni, la pesca negli oceani, gli allevamenti intensivi, gli impianti di aria condizionata, e infine, gli umani? Dovettero passare parecchi minuti prima che si riscuotesse da questa fantasia agglutinante. Prese il cellulare e inviò una serie di cuoricini a sua madre con una foto del lago.[3]
Del resto, Nina già dall’infanzia subisce una fascinazione gravida di destino dalla grande riproduzione di Blue Marble, la foto della Terra scattata il 7 dicembre 1972 durante l’ultima missione Apollo, ricevuta in dono dalla nonna e appesa al muro della sua cameretta, e che unisce madre e figlia nelle reciproche fantasie:
Avevano passato molto tempo, Sara e Nina, sdraiate, a fantasticare su quella immagine, una biglia colorata di azzurro e verde con grandi creste di bianco, inventandosi storie che proseguivano da una sera all’altra.[4]
Negli altri suoi romanzi – Il dono di Antonia (2020) o La notte ha la mia voce (2017) – compare un’ekphrasis che schiude il senso delle narrazioni, analogamente in Il ritorno è lontano tale funzione è svolta dall’immagine di Blue Marble, posta in posizione germinale:
A volte le striature candide erano tempeste di neve, a volte uragani, altre venti impetuosi, dai quali bisognava ripararsi, certe sere si trasformavano in draghi alati o stormi di angeli. Nina per molto tempo aveva ascoltato assorta, abbandonandosi alla fantasia che correva insieme a quelle forme cangianti [...] pronte a infilarsi nei sogni, notte dopo notte.[5]
Tale esperienza visuale vissuta nell’infanzia ha caratteristiche fondative per l’identità del personaggio e delle sue scelte esistenziali, di Nina, come di molti altri prima di lei. Negli anni Settanta, l’immagine della Blue Marble si rivelò come un faro di consapevolezza, una scintilla luminosa nel buio dell’ignoranza ecologica. Questa fotografia, catturata dall’equipaggio dell’Apollo 17, è diventata un’icona, un emblema della delicata bellezza e della vulnerabilità della nostra Terra. La visione del nostro pianeta, intero e sospeso nel vasto vuoto cosmico, evoca un senso di meraviglia e responsabilità. La Blue Marble è il ritratto della nostra unica casa, immensa, e al tempo stesso fragile come un soffio.

La lotta ambientalista ed ecologica è cresciuta anche alimentata da questa fotografia: essa è divenuta un richiamo alla coscienza collettiva, un invito a riconoscere la nostra interconnessione con tutte le forme di vita. La Blue Marble non era solo un’immagine, ma un poema visivo, una lettera d’amore alla Terra, che ci chiede di agire, di lottare per la sua sopravvivenza, e continua a essere un simbolo potente, un promemoria poetico del nostro ruolo di guardiani di questo fragile e luminoso pianeta. È interessante notare come l’impatto globale della Blue Marble riecheggi con la stessa intensità nell’animo della giovane ragazza. In quello sguardo al nostro pianeta, sospeso nell’oscurità infinita, Nina trova una scintilla di ispirazione che accende il suo microcosmo interiore. Quell’immagine diventa il fulcro della sua esistenza, un faro che guida ogni sua scelta e azione. Come l’intero mondo è stato mosso a riflettere sulla delicatezza del nostro ambiente, così la figlia sente un richiamo irresistibile nel suo cuore: dedicare la sua vita alla causa ambientalista, trasformando il suo amore per la Terra in una missione implacabile di protezione e conservazione.
Solo Gregor, il suo compagno tedesco, riesce con fatica a contrastare l’intransigenza di Nina che giunge ad affermare che «il paesaggio migliorerebbe notevolmente una volta usciti di scena gli esseri umani»:
Ammettiamo che sia vero. Che le foreste tornino a espandersi indisturbate, che l’aria diventi respirabile e l’acqua pulita. Ma per chi servirebbe tutta questa bellezza se non ci fosse più un essere umano a contemplarla?».[6]
Tuttavia, l’accusa di fondo che soggiace ai frequenti scontri di Nina con Gregor, con Sara e con il padre Paolo, è l’incapacità altrui di capire la necessità di passare dall’intenzione all’azione. In verità la vicenda della sua famiglia s’incaricherà di mostrare l’ingenuità catastrofica di questo meccanismo perché, quando Sara, dopo la sua malattia, otterrà l’affido del bambino Pietro, il passaggio all’azione si rivelerà «un mucchio di guai».
Alessandra Sarchi, mettendo in tensione la doppia linea narrativa della figlia e della madre, ne interseca le traiettorie, fino a un rispecchiamento del microcosmo delle vicende esistenziali individuali con il macrocosmo della catastrofe del pianeta, dove resta tuttavia centrale la relazione genitoriale densa di contraddizioni e incertezze, tenerezza e violenza, egoismi e altruismi, inevitabilmente inestricabili, in cui i sentimenti sono come la corda dell’amore di Pablo Neruda che ad un tempo ci stringe e ci ferisce, in una prospettiva nella quale, come ha osservato Daniele Giglioli, «ognuna è il destino dell’altra».[7] Così il legame fra le due protagoniste si fa parola e discorso, pur nella deriva della comunicazione virtuale affidata a dispositivi digitali che riducono l’interazione ad una autorappresentazione che impoverisce lo scambio rendendolo radicalmente inautentico, pur nella pervasività della iperconnessione. Eppure, tale relazione resta la sorgente delle identità dei personaggi narrati, segnati dalla cura e dalla distanza, tanto necessarie quanto impossibili da coniugare e perciò fonti costanti della ricerca di mete precarie che rendano sopportabile la vita.
L’autrice riconosce in una intervista che «il tema del romanzo è, come già nel mio romanzo d’esordio “Violazione”, il difficile rapporto che l’umanità intrattiene con la natura. Da una parte la specie umana si è sottratta a molti vincoli biologici attraverso la tecnologia, dall’altra nel rinnegare la propria animalità si trova in un grande disequilibrio».[8] All’interno di Il ritorno è lontano, infatti, si coglie con pienezza una ulteriore consapevolezza rispetto alle precedenti prove narrative, consistente nella circostanza che la natura non è solo quella fuori di noi fatta di monti, ruscelli, alberi e foreste, ma anche quella che pulsa selvaggia nel mondo umano quale cieco istinto egoistico e indifferente causalità senza scopo dei comportamenti degli umani.
Se, come è stato notato, «l’essenzialità è la cifra più autentica della scrittura di Sarchi»,[9] tale essenzialità in questo caso àncora la lingua del romanzo ad una istanza realistica, nella finzione di aderire in maniera totalizzante alle cose, seppur non manchi di un certo lirismo:
Nina se n’era andata. Sarebbe tornata a Natale, forse a Pasqua e in occasione di qualche altra festa comandata, ma non viveva più lì, non ci avrebbe mai più vissuto […]. Ovunque fosse andata e qualunque cosa avesse deciso di fare, era finita l'esistenza fra quelle mura. I suoi passi, i suoi respiri, le sue parole, il suo sonno, la sua fame, le sue lacrime, le sue risate e i suoi silenzi non facevano più parte della casa. Adesso erano solo suoi, di Nina. Sara avrebbe dovuto esserne felice o almeno soddisfatta, e a tratti lo era, ma a volte si sentiva come se le avessero tolto un polmone.[10]
Pietro galleggiava nei pochi centimetri di profondità della sorgente, il corpo magrolino, luccicante d'acqua, i capelli intorno al volto come alghe disperse, i grandi occhi distanti parevano essere immersi nel cielo e nell'acqua da cui era circondato.[11]
Del resto, Pietro, il bimbo abbandonato che Sara porta nella sua vita e nella sua famiglia, costituisce un misterioso centro di forze che sprigiona effetti imprevedibili ed estremi, mettendo in questione equilibri familiari consolidati e ruoli assegnati. Sarchi consapevolmente considera Pietro una sorta di «elemento indomabile, non addomesticabile, la natura nuda».[12] Ma la natura nuda è parimenti il bosco, luogo simbolico essenziale del romanzo, evocato con i versi posti in epigrafe tratti dalla poesia Canzone per una bambina di Franco Fortini che ne caratterizzano il senso panico, e ritorna quale scena indispensabile nella parte finale della narrazione. Il bosco, tuttavia, per una suggestione dovuta a Martin Heidegger,[13] suscita una eco ulteriore che schiude una chiave interpretativa delle vicende e degli itinerari dei personaggi del Ritorno è lontano, sottolineandone la plurale stratificazione e la ricchezza tematica:
Nel bosco ci sono sentieri che sovente ricoperti di erbe, si interrompono improvvisamente nel fitto. Si chiamano Holzwege (sentieri interrotti). Ognuno di essi procede per suo conto, ma nel medesimo bosco. L’uno sembra sovente l’altro: ma sembra soltanto.[14]
Emerge così una raffinata interconnessione non solo nel rapporto tra Sara e Nina, madre e figlia, ma anche tra la maternità e il rapporto dell’uomo con la Terra, intesa a tutti gli effetti come Madre Terra. Questa relazione è esplorata attraverso un’intensa riflessione sui paralleli tra il ruolo materno e la natura stessa, entrambi interpretati come fonti di vita, nutrimento e sostentamento. Nel cuore del conflitto interno alla maternità e, parallelamente, al rapporto dell’uomo con la natura, si nasconde un’eco antica, un legame intricato e profondo. La maternità, vissuta in maniera conflittuale e problematica, rispecchia le tensioni della nostra relazione con la nostra Madre Terra. Entrambe portano in sé un’ambivalenza struggente, un dualismo di cura e sofferenza, di nutrimento ed esaurimento. Come una madre che lotta per accogliere e crescere una nuova vita, così la Terra si sforza di sostenere tutte le sue creature. Ma in questo percorso emergono le difficoltà, le crepe, i momenti di sconforto. La madre umana, nella sua fragilità, riflette la Terra stessa, stanca e sfruttata, che cerca di proteggere e nutrire nonostante le ferite inflitte.
La problematica maternità porta con sé un dolore silenzioso, un conflitto interiore fatto di aspettative e realtà, di amore e sacrificio. Similmente, la nostra relazione con la Terra è segnata da un ciclo di amore e distruzione, di cura e negligenza. Ogni gesto di affetto, ogni tentativo di protezione, sembra scontrarsi con le forze dell’indifferenza e dell’abuso. Eppure, in entrambe le dimensioni, esiste una forza resiliente, un desiderio profondo di guarire e ricostruire. La madre, nonostante le difficoltà, continua a lottare per il benessere del suo bambino, trovando forza in ogni sorriso, in ogni piccolo passo avanti. Allo stesso modo, la Terra continua a offrirci i suoi doni, a rigenerarsi e a fiorire quando riceve amore e rispetto.
La somiglianza tra questi due temi risiede nella loro essenza di nutrimento e protezione, nel loro sacrificio silenzioso. La differenza, però, emerge nel modo in cui affrontiamo questi legami. Con la Terra, possiamo ancora scegliere di cambiare rotta, di abbracciare una lotta ecologica che rispetti e rigeneri. Con la maternità, la battaglia è più intima, più personale, e richiede un equilibrio delicato tra auto-compassione e responsabilità. In questa danza di somiglianze e differenze, si snoda un romanzo di resilienza e speranza. La maternità problematica e la nostra relazione con la Terra ci insegnano la stessa lezione: nel cuore del conflitto, esiste sempre la possibilità di riscoprire un legame più profondo, di trasformare il dolore in forza, e di proteggere ciò che amiamo con tutto il nostro essere.
1 A. Sarchi, ‘«Una volta madre, madre per sempre»: la distanza, la questione ambientale, la maternità. “Il ritorno è lontano”, il nuovo romanzo di Alessandra Sarchi’, intervista a cura di D. Lambruschini, Critica letteria, 2 aprile 2024, <https://www.criticaletteraria.org/2024/04/il-ritorno-e-lontano-alessandra-sarchi-intervista-recensione-2024.html> [accessed 10.06.2026].
2 Ead., Il ritorno è lontano, Milano, Bompiani, 2024, p. 69.
3 Ivi, p. 76.
4 Ivi, p. 7.
5 Ivi, p. 8.
6 Ivi, p. 172.
7 D. Giglioli, ‘La stagione della cura’, Corriere della Sera, 4 febbraio 2024.
8 A. Sarchi, ‘«Una volta madre, madre per sempre»’.
9 M. Rizzarelli, recensione a A. Sarchi, Via da qui (minimum fax, 2022), Arabeschi, <http://www.arabeschi.it/alessandra-sarchi-viada-qui-di-maria-rizzarellirizzarellim-sarchi-viadaqui-r-fig1lanalogia-relativa-al-rapportof/> [accessed 10.06.2024].
10 A. Sarchi, Il ritorno è lontano, p. 9.
11 Ivi, p. 231.
12 A. Sarchi, ‘«Una volta madre, madre per sempre»’.
13 Cfr. M. Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1984.
14 A. Sarchi, Il ritorno è lontano, p. 1.