Alessandra Sarchi, Via da qui

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L’analogia relativa al rapporto fra fotografia e cinema, che Cortázar utilizza per spiegare la distinzione fra racconto e romanzo, è forse un po’ abusata, ma è capace di mettere bene in evidenza una delle peculiarità più affascinanti della narrazione breve. Nel saggio intitolato Alguno aspectos del quento (1962-1963), lo scrittore argentino afferma, infatti, che un romanzo, proprio come un film, offre al lettore un «”ordine aperto» all’interno del quale il senso degli eventi si raggiunge per accumulazione; nel caso di un racconto, allo stesso modo che per uno scatto fotografico, si ottiene il medesimo effetto attraverso una limitazione di campo, ritagliando una porzione di realtà, «ma in modo tale che quel ritaglio agisca come un esplosione che apre una realtà molto più ampia».[1] I racconti di Alessandra Sarchi, appena pubblicati con il titolo Via da qui da minimum fax (2022), si pongono rispetto ai suoi romanzi in una relazione analoga: ripropongono temi, immagini, tecniche diegetiche molto simili, ma in questo caso tutte e cinque le storie si addensano su un momento della vita dei personaggi, si coagulano su dettagli quotidiani, si fissano su gesti e oggetti che invitano a superare la cornice che li racchiude. Ancora con Cortázar potremmo dire che da loro ha origine quella «esplosione di energia spirituale che illumina […] qualcosa che va molto oltre il piccolo e talvolta miserevole aneddoto che narra».[2]

Leggendoli è possibile ritrovare nella memoria alcuni luoghi che ci sono familiari, perché li abbiamo attraversati percorrendo le pagine di Violazione (2012), L’amore normale (2014), La notte ha la mia voce (2017) e Il dono di Antonia (2020); riconosciamo una certa luce californiana che era apparsa qua e là nei romanzi di Sarchi e che ricompare in questi racconti (in Cherry Street specialmente). Riassaporiamo il piacere di una narrazione multi focale capace di decifrare i pensieri e gli sguardi di personaggi diversi (soprattutto ne L’argine), lo splendore del senso che vien fuori dalle citazioni figurative (in Fondamenta della Misericordia), la forza del racconto dell’intima verità dei rapporti di coppia (nella Tana o nel Palazzo della principessa) e delle relazioni umane (un po’ in tutti).

Il Leitmotiv della casa, che accomuna tutti i racconti e che forse trova origine nell’esordio romanzesco di Sarchi, costituisce il basso continuo di queste storie, tutte situate fra ‘quattro pareti’ che racchiudono le memorie del passato, le incertezze del presente, i sogni e i desideri del futuro appena accennato oltre i margini del momento che raccontano. Si tratta per lo più di spazi mobili e instabili, «scatole colorate e recintate, dall’aria fragile e sgangherata» (come la casa di Cherry Street in cui abita l'amica del marito di Annamaria), capaci di ospitare vite che transitano dalla felicità alla sofferenza, dalla certezza al dubbio: la tana che racchiude i ricordi di una storia d’amore spezzata da un tragico incidente, la casa sull’argine del Po’ desiderata da una donna che deve ricominciare dopo un divorzio o quella di Santa Ana che un'altra donna abbandonata dal marito deve forse lasciare; la soffitta del palazzo della principessa occupata abusivamente da una coppia alle prese con la difficile decisione di diventare genitori; l’appartamento veneziano in cui si riunisce un gruppo di amici che si sono conosciuti negli anni della giovinezza e che si ritrova alle soglie della vita adulta.

Risuonano in questi racconti tutti i temi cari alla scrittrice, è possibile riconoscere la sua voce distribuita nelle voci di tutti i suoi personaggi, il modo di leggere fra le pieghe e le piaghe dei rapporti umani, soffermandosi su piccoli indizi. Ma questi frammenti diegetici, così legati alla vita delle figure che in essi si agitano, lasciano emergere soprattutto un minuzioso sforzo ‘a levare’ per giungere a un’essenzialità che è la cifra più autentica della scrittura di Sarchi, che sembra trovare oggi nella forma della narrazione breve la misura a lei veramente congeniale. Pare insomma che i segni su cui imbastisce le sue trame si siano fatti più ‘sottili e clandestini’ (il titolo della sua prima raccolta di racconti funziona sempre come importante indicazione di poetica),[3] i corpi appaiono più opachi mentre l’autrice entra in punta di penna nelle storie, nascoste ancora fra le cicatrici.

Il metodo indiziario che guida il suo sguardo è avvezzo a interpretare i particolari di un quadro, le inclinazioni della luce, la postura delle silhouette rappresentate e – nel caso di questi cinque racconti – si sporge a leggere le tracce da cui si sprigiona un segmento di vita, consegna la narrazione a oggetti, gesti, corpi, odori che custodiscono spazio tempo ed emozioni. Della storia d’amore di Monica ed Evelyn rimane nella memoria il rumore della cartavetrata e l’odore della vernice con cui hanno dipinto gli infissi del loro appartamento, scandendo il silenzioso racconto del loro innamoramento, ma soprattutto le impronte lasciate sulle pantofole di velluto di Evelyn, a cui Monica si aggrappa, dopo l’incidente, come segno del labile effetto di durata della presenza della sua compagna. La ritrovata sorellanza di Ines con Rossella e i nipoti, che la accolgono nella loro calda estate, riecheggia fra le pagine attraverso la parola «cadrega»: sembra proprio questa parola a suggerire a Ines la via per ritornare a casa dal suo esilio americano e a consentirle di riallacciare un legame con i luoghi che ha lasciato dopo il matrimonio. I disegni sulle pareti dell’abitazione abusiva di Melissa e Filippo, privi di descrizione ad eccezione dell’Odalisca di Ingres copiata sulla porta del bagno, appaiono come le orme più vive e misteriose della precarietà del loro abitare il presente, di una relazione in bilico fra felicità e disperazione. Le lunghe gambe e braccia di un’amica, Monty, e il suo sonno leggero si offrono come uno dei pochi sostegni tangibili a cui affidare ricordi e riflessioni: al loro cospetto Annamaria trova la forza di abbandonare la casa del marito, di decidere di restare nella città nella quale ha messo radici e di immaginare «un’altra se stessa». L’odore che si sprigiona da un vecchio armadio (che pare «contenesse il tempo») induce in Silvia (amica di Marta, che è lo sguardo narrante dell’ultimo racconto) la percezione di una ritrovata intimità con quel luogo e con gli amici che in quel momento lo abitano. È una sensazione che la turba perché, come Marta e come tutti gli altri componenti del gruppo di ex colleghi universitari, avverte «una distanza che andava e veniva». Eppure nella volontà di reincontrarsi fisicamente, al di là degli schermi dei pc e dei telefonini, dove si perpetua una prossimità avvertita come inautentica, sembra intravedersi un’ombra della resistenza dei loro affetti:

Erano solo amici. Di più: erano le persone con cui aveva visto la propria giovinezza resistere e prolungarsi, poi capitolare nell’attesa di prendere una forma, e quest’attesa condivisa, in vista dell’evento che avrebbe impresso la svolta decisiva, era anche una riserva notevole di compassione e indulgenza reciproca.

Per molti versi, l’ultimo racconto esplicita la liaison fra spazi e sentimenti che si innesta in tutte e cinque le storie d’amore, di sorellanza e d’amicizia del volume, fino a disegnare un possibile ‘atlante delle emozioni’ (il rimando al paradigma della mappa empatica individuata da Giuliana Bruno nel suo fondamentale studio su cinema e architettura andrebbe sviluppato in una lettura più ampia). Il titolo (Fondamenta della Misericordia), che allude alla chiesa veneziana in cui si danno appuntamento i protagonisti, suggerisce una messa in abisso della cifra che attraversa le relazioni umane tratteggiate Via da qui – relazioni che poggiano appunto sulle fondamenta della misericordia e si situano alla base di un sentire comune la sofferenza altrui. Tale reciprocità di affetti e sofferenze sostiene e conforta il destino di ciascuno, colto in un preciso momento dell’esistenza, nell’intervallo indecidibile fra il restare e l’andare via.


1 J. Cortázar, ‘Alcuni aspetti del racconto’, in Id., Bestiario [1963], a cura di E. Franco, trad. it. F. Nicoletti Rossini e V. Martinetto, Torino, Einaudi, 2007, p. 118.

2 Ivi, p. 119.

3 Cfr. A. Sarchi, Segni sottili e clandestini, Reggio Emilia, Diabasis, 2008.