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«La sua storia era d’un Picasso italiano», afferma Vittorini tirando nel 1960 le somme del percorso della pittura di Renato Guttuso (Vittorini 2008, p. 929). Il nome di Picasso si incastra con determinazione tra quello di Vittorini e Guttuso, come se insieme dovessero formare una triade che orienta molte scelte espressive dalla fine degli anni Trenta in poi, implicando letteratura e pittura ma anche fotografia. Il punto di partenza potrebbe essere la guerra civile spagnola, l’evento storico dal quale Vittorini riceve il suo battesimo ideologico: «nell’offeso mondo si poteva esser fuori della servitù e in armi contro di essa» (Vittorini 1976, p. 213). Nel 1938 Guttuso dipinge un quadro dominato dalle molteplici variazioni tonali del rosso, la Fucilazione in campagna. Il modello risale a Los fusilamientos di Goya, ma anche a un quadro di Aligi Sassu, Fucilazione nelle Asturie, il soggetto riguarda la morte di Federico Garcia Lorca ucciso dai franchisti. Lorca è il primo tramite di Vittorini con la guerra di Spagna e con la pittura di Picasso (cfr. Vittorini 2008, p. 123n).

Nel 1941 Vittorini pubblica nella collana Pantheon di Bompiani un’antologia del Teatro spagnolo. Ad accompagnare i testi, Vittorini compie una scelta figurativa che attraversa la pittura spagnola e comprende El Greco, Velàzquez, Goya, e arriva fino a Picasso: Le bagnanti, Le amiche, e Toro di Spagna, i cui soggetti possono intonarsi alle atmosfere del poeta. L’anno seguente esce Nozze di Sangue, una antologia poetica di Lorca che prende il titolo dal suo dramma più famoso, Bodas de sangre. Vittorini però vuole tenere distante la pittura di Picasso dalla tecnica espressiva di Lorca, come se il poeta fosse legato a un’epoca anteriore rispetto allo sperimentalismo del pittore.

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Volumi racchiusi talvolta in cofanetti ornati da illustrazioni a colori e impreziositi al loro interno da materiale iconografico fuori testo, rilegature cucite, a filo refe, fregi o caratteri in oro sul dorso, eleganti copertine telate: sono queste le caratteristiche di alcune edizioni della collana einaudiana I millenni, nata nel 1947 sotto la direzione di Cesare Pavese e presentata al pubblico dei lettori attraverso una pregiata veste tipografica.

La serie raccoglie l’eredità dei Giganti, collana d’anteguerra di cui viene realizzata nel 1942 un’unica uscita, Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, e ospita una variegata selezione di classici della letteratura mondiale di tutti i tempi, dalle raccolte di novelle e di fiabe e dal monumentale Parnaso italiano curato da Carlo Muscetta fino ai capolavori della letteratura antica, russa o cinese. L’apparente assenza di un unico nucleo generatore e la mancanza di un unico percorso contenutistico si riflettono nel principio di inclusione dei testi, tutt’altro che univoco. Come testimonia il verbale editoriale del 9 novembre 1949, tra la collezione dei Millenni e le affini Universale e Narratori stranieri tradotti, il «criterio di collocazione è elastico» e tale da essere demandato a una «decisione caso per caso» (Munari 2011, p. 74). Al consapevole diniego di rigidi steccati nelle linee editoriali si accompagnano i differenti punti di vista di volta in volta adottati dai consulenti nel corso delle discussioni sulla collana, che sfugge ai tentativi di definizione nella misura in cui, paradossalmente, si rende riconoscibile anche, e soprattutto, in virtù del suo prestigio culturale. Alla ritrosia di Pavese di includere i contemporanei o di procedere a una loro pubblicazione nella serie solo quando abbiano raggiunto un certo grado di ‘classicità’, abbiano cioè inciso un segno sulla loro epoca (cfr. Mangoni 1999, p. 464), fa da pendant, in fase decisionale, l’eloquente assenso di Calvino all’attribuzione della Vita di Benvenuto Cellini all’Universale, «perché mancherebbe, nel caso del Cellini, quell’elemento di “riscoperta” che è presupposto per l’inclusione di un classico nei “Millenni”» (Munari 2011, p. 447).

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Scavare nell’immagine per trovare altre immagini. Isolare il dettaglio e trasportarlo in una dimensione altra, allusiva, lontana da quella di partenza. Rompere la composizione e montarne i frammenti secondo un ordine che ridefinisca i termini del discorso visivo, talvolta reinventandolo. Queste alcune delle direzioni che Elio Vittorini esplora quando si relaziona con le immagini e, più in generale, con la visualità. Si tratta di un procedimento estremamente moderno, che lascia intendere come per Vittorini l’elemento visivo non sia, nella sua sostanza, diverso dalla parola: in conseguenza del taglio, dell’assemblaggio e della contestualizzazione assume diversi significati e potenzialità narrative. È un esperimento che ricorda alcune scene di Blow Up di Antonioni, in cui il fotografo, man mano che ingrandisce un’immagine, finisce con l’avere una relazione sempre più distaccata dalla stessa e con lo scoprire nuovi messaggi o significati. Così si comporta Vittorini, nastro adesivo e squadra alla mano, nella scelta delle illustrazioni. La selezione, il montaggio e l’editing dell’immagine, sono per l’intellettuale siciliano un atto creativo e autoriale a tutti gli effetti, oggetto di riflessione e strumento di interpretazione del testo. Vittorini a più riprese ci offre alcune dichiarazioni programmatiche sulla sua idea di illustrazione editoriale, non disgiunta, nella pratica, dal progetto divulgativo a cui il suo operato tende:

 

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Composta dopo una lunga e travagliata redazione durata circa tre anni, durante i quali Vittorini si occupa con estrema cura di presiedere a tutte le fasi (dal reportage realizzato ad hoc in Sicilia nell’inverno del 1950 al disegno del layout di ciascuna pagina), l’edizione di Conversazione in Sicilia con le fotografie di Luigi Crocenzi rappresenta un caso originalissimo di fototestualità e una testimonianza fondamentale dell’interesse mostrato dallo scrittore verso i linguaggi della visualità.

Il volume, pubblicato da Bompiani nell’inverno del 1953 come libro strenna, riceve una pessima accoglienza dalla critica. I lettori degli anni Cinquanta, per i quali Conversazione in Sicilia rappresentava uno dei testi canonici della letteratura resistenziale, si trovano di fronte ad un’opera di sconvolgente modernità, che propone una tessitura fototestuale volta a dare risonanza alla trama simbolico-allegorica del romanzo e non riescono a comprenderne il significato e il valore. Persino un lettore d’eccezione come Eugenio Montale, per di più grande amico di Vittorini sin dal periodo fiorentino, storce il naso di fronte alla trasformazione del «libro documento» in «libro cosa», e avverte il lettore che si troverà dinnanzi all’inattesa richiesta di «compromesso» fra la Sicilia immaginaria, disegnata tra le pagine di Conversazione, e «l’isola reale» resa visibile dall’apparato fotografico (Montale 1966).

Enrico Falqui mette addirittura in dubbio l’utilità dell’accostamento di immagini ai testi:

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La lunga frequentazione ‘fattiva’ delle arti figurative che contraddistingue l’attività editoriale di Elio Vittorini concorre ad arricchire il prospetto degli esempi di apertura dello scrittore nei confronti dell’universo visuale. Durante la collaborazione con Bompiani, alle soglie degli anni Quaranta, per la collana Pantheon da lui ideata, l’autore si occupa della ricerca negli archivi e dell’impaginazione delle illustrazioni. «Dei compiti redazionali per “Pantheon”», conferma Raffaella Rodondi, «quello attinente al reperimento e alla scelta dell’iconografia è forse il più gradito a Vittorini che lo assolve con inventiva e passione, provvedendo in vario modo alla ricerca delle fonti» (LAS II, p. 123). Lo stesso accadrà, tra il 1949 e il 1952, per la collezione einaudiana dei Millenni, per la quale Vittorini, in contatto con l’Archivio Alinari, cura l’illustrazione di tre classici, Il Decameron, l’Orlando furioso e le Commedie di Goldoni.

Il corredo illustrativo della collana Pantheon è costituito da riproduzioni di opere d’arte, tranne che nel caso di Americana. L’antologia che raccoglie testi di narratori statunitensi dalle origini fino all’età contemporanea è metafora di una letteratura sulla quale non gravano il peso e i condizionamenti della tradizione europea ed è illustrata prevalentemente da fotografie e da scatti rappresentativi del realismo americano degli anni Trenta. È noto come al momento delle sue prime apparizioni l’opera vada incontro a un difficile percorso editoriale che determina l’eliminazione delle note introduttive di Vittorini e coinvolge anche la colonna iconografica. Pubblicata per la prima volta nel 1941, in un’edizione che non verrà diffusa, Americana subisce la manovra ideologicamente ‘correttoria’ garantita dalla prefazione di Emilio Cecchi, confluita nella versione del marzo 1942, che riconduce (e riduce) lo slancio metaforico dei corsivi vittoriniani ai «segni d’una moda» (Cecchi 2015, p. 1457), salvo vedersi nuovamente negata la ratifica del nulla osta fino a quando il veto ministeriale non culmina nella decisione di sostituire i corsivi del curatore con una selezione di passi critici e, dunque, nella stampa di una ulteriore edizione, effettivamente distribuita, dell’ottobre 1942.

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Con questa videointervista vogliamo inaugurare un nuovo spazio di confronto dedicato al tema della comunicazione della ricerca, divenuto ormai cruciale per rilanciare l’efficacia degli studi umanistici rispetto alle sfide della contemporaneità. L’obiettivo è individuare prassi e strategie di disseminazione del sapere capaci di costruire un archivio mobile delle istanze ermeneutiche del presente.

 

Roberto De Gaetano, già direttore e responsabile di Fata Morgana – punto di riferimento indiscutibile nell’ambito degli studi cinematografici ed estetici –, presenta il progetto culturale di quello che può dirsi una sorta di spin off della rivista cartacea, cioè appunto la piattaforma Fata Morgana Web. Forte di un consolidato gruppo redazionale, e aperta a collaborazioni esterne, la nuova review si muove in una direzione precisa, ovvero la riconfigurazione di un pensiero critico che sappia individuare la «verità dell’opera» (Benjamin) senza escludere il rapporto con la tradizione. Accanto al cinema, che resta il campo d’azione privilegiato, l’asse culturale della rivista prevede una feconda apertura ad altri linguaggi della visione (la fotografia, il teatro, la serialità televisiva), nonché mirate incursioni nell’alveo della letteratura e della riflessione filosofica, a testimonianza di una vocazione plurale ma sempre rigorosa nei metodi e nella selezione dei casi di studio. La pubblicazione di un annuario, che raccoglie – accanto ai materiali già apparsi sul sito – contributi inediti di taglio teorico e interviste a registi e attori, conferma l’ambizione cartografica propria dei fascicoli di Fata Morgana e dei volumi del Lessico del cinema italiano.

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Da un dialogo a più voci sugli intrecci concettuali e interdisciplinari intorno a performance, arti performative, performatività e performativo prende origine la raccolta di saggi Reti performative. Letteratura, arte, teatro, nuovi media, riflessione edita a cura di C. Maria Laudando (Tangram Edizioni Scientifiche, 2015). Il merito del volume, da un lato, riguarda l’influenza della svolta performativa novecentesca sulla relazione tra letterarietà, teatralità e visualità e i suoi effetti nel panorama (post)mediale; dall’altro, tenta d’illuminare i confini, le soglie, i margini e le tracce ‘in-visibili’ delle pratiche discorsive, dei processi di ricezione e ‘rimedi-Azione’.

La nota introduttiva della curatrice anticipa gli echi tra i tredici interventi che articolano il confronto: l’assunzione di una prospettiva inter/antidisciplinare e l’apertura a uno spazio liminale tra «teoria e prassi, forma e materia, progettualità e azioni» (p.17). Il volume si divide in tre ‘inter-sezioni’. La prima dipana i fili delle questioni teoriche che ruotano intorno ai concetti legati al termine ‘performance’, ricostruisce uno schema storico-culturale e delinea un approccio metodologico. La sezione centrale, intitolata Il gioco delle parti, affronta i cambiamenti nelle relazioni e nei ruoli ai confini tra diverse pratiche artistiche, (s)oggetti reali e virtuali nel corso del Novecento e nel panorama contemporaneo. Il legame generale tra teoria e prassi emerge chiaramente nell’ultima parte dedicata agli Intrecci e alle dissolvenze identitarie delle pratiche discorsive e dei dispositivi come performance culturali. Il ruolo delle ‘parole-immagini-azioni’ nelle pratiche quotidiane e nelle ricerche artistiche, anticipato già nell’introduzione, ritorna specularmente nel dialogo finale con gli artisti Bianco-Valente. Esse danno vita a un complesso «ecosistema mediatico» (Esposito, p.88), un insieme di processi e interazioni, capace di ‘rendere visibile’ i fili di una (nuova) geografia di memorie, immaginari ed esperienze di sé e dell’Altro.

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Oggetto d’indagine del recente studio di Michele Cometa, Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità, pubblicato a luglio 2017 per Quodlibet, è, come suggerito dal titolo, il meraviglioso quanto misterioso affresco palermitano, che, eseguito intorno alla metà del XV secolo da due pittori tutt’ora sconosciuti per il cortile dell’Ospedale Grande e Nuovo in Palazzo Sclafani, si trova oggi conservato presso la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis di Palermo.

Ciò che propone Cometa in questa sede, mettendo da parte i già consolidati strumenti di ricerca degli storici dell’arte, è un nuovo approccio di analisi all’opera che affonda le sue radici sia nei paradigmi della cultura visuale contemporanea, sia nelle considerazioni proprie della storia dei concetti teorizzata da Koselleck. L’autore così, invece di «dissezionare in brandelli» l’opera, preferisce porsi in ascolto della polifonia di voci e di sguardi che la compongono, con l’obbiettivo di connettere queste varie tessere visive e ricercarne l’armonia di fondo, la quale, costruita su una fitta trama di relazioni, a saperla guardare, prenderebbe la forma di un vero e proprio intreccio narrativo. Il racconto, interamente affidato al muto dialogo messo in scena tra i personaggi e tra questi e lo spazio che li ospita, si srotola come in una giostra in curve ed ellissi, illustrando gli atteggiamenti e le sfumature dell’animo umano, Stimmungen come le definisce Cometa, che si manifestano al sopraggiungere della morte. È proprio la necessità di questa storia l’unico antidoto che rimane all’uomo contro la dissoluzione della vita.

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L’origine della capacità di costruire storie dell’Homo sapiens, a partire dalle teorie darwiniane, ha dato vita a diverse ipotesi che provano a spiegare come il comportamento narrativo possa avere avvantaggiato il genere umano tra tutte le specie, fino a farne l’indiscusso signore del pianeta. Il libro di Michele Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017), nasce in primo luogo dunque nel tentativo di dare una risposta all’interrogativo posto dal titolo, cioè indagare sulle condizioni e le modalità attraverso le quali la narrazione, la fiction e la letteratura possono essere collocate e comprese entro i paradigmi della teoria dell’evoluzione e delle scienze cognitive, prendendo le mosse da recenti acquisizioni dell’archeologia cognitiva che mettono in relazione la produzione di utensili e lo sviluppo di capacità narrative.

L’innovativa prospettiva dello studio di Cometa propone, inoltre, una riflessione sul perché la narrazione abbia un ruolo decisivo nella costituzione del Sé e delle sue protesi esterne, e sulle possibili risposte che a questa domanda danno i teorici della mente estesa e della cognizione incarnata, mettendo in evidenza il ruolo fondamentale del corpo nello sviluppo del comportamento narrativo. Un contributo importante riguarda inoltre la dimensione necessaria della letteratura come straordinario dispositivo di contenimento dell’ansia, che è alla base della strategia di sopravvivenza della specie umana.

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