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I rapporti di Elio Vittorini con il teatro sono stati saltuari ma significativi: nel 1941 lo scrittore siciliano cura per Bompiani l’antologia del Teatro spagnolo, per la quale traduce la pièce più famosa e rappresentata di Federico Garcia Lorca, Nozze di sangue; nel ’42 in Americana presenta l’atto unico del drammaturgo Thornton Wilder Il lungo pranzo di Natale; nel ’43, per la collana Il teatro di William Shakespeare diretta da Mario Praz per Sansoni traduce il Tito Andronico; infine nel ’52 cura l’edizione Einaudi delle Commedie di Carlo Goldoni.

A questi episodi di confronto diretto con opere drammaturgiche, si aggiungono tre prove di scrittura teatrale: il breve dramma Due scene, apparso nel 1946 sulla rivista Il Mondo di Firenze; la riduzione per la radio e il teatro di Uomini e no, a cui lavora con Crovi e Vaime e che appare su Sipario nel 1965; e la sceneggiatura incompiuta Atto primo, che Vittorini abbozza a ridosso del romanzo resistenziale, e che è stata pubblicata postuma sulla rivista Il Ponte nel 1973. A proposito di Atto primo, va detto che esce accompagnato da una nota redazionale che ne suggerisce la datazione al 1965; tuttavia, la studiosa Raffaella Rodondi ha messo in evidenza come alcune parti del testo teatrale siano state inserite in modo pressoché identico in un capitolo di Uomini e no, pertanto è lecito spostarne la stesura all’altezza cronologica della prima edizione del romanzo (1945). Tale rimando intertestuale dimostra chiaramente quanto l’officina vittoriniana sia basata sulla commistione di codici e linguaggi.

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Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

 

Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia

 

 

La sapienza drammaturgica della compagnia marionettistica dei Fratelli Napoli, pupari di tradizione catanese, incontra la letteratura di Elio Vittorini e Conversazione in Sicilia (1941): nasce così lo spettacolo Astratti furori siciliani (2012) in cui i personaggi ‘universali’ di Conversazione palesano una perfetta corrispondenza con gli eroi (e non solo) delle storie dell’Opera dei pupi. Sia il testo di Vittorini sia quello dei Napoli raccontano (ciascuno nel suo specifico linguaggio) – simbolicamente e allegoricamente – una storia che intende riflettere sul mondo offeso e sulla necessità di aspirare a un ordine più giusto [fig. 1].

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1. L’esordio narrativo

 

Nel 1926, Elio Vittorini aveva diciassette anni quando vide pubblicato il suo primo articolo sulla rivista di impronta fascista La Conquista dello Stato, diretta dallo scrittore Curzio Malaparte. La stagione iniziale degli scritti vittoriniani fu «caratterizzata anzitutto per l’accentuata prosa e mimesi con il pensiero di Malaparte» (Rodondi 2008, p. XXIV), che gli procurò il soprannome di ‘pseudomalaparte’ (Greco 1983). Verso il 1929 lo stile strapaesano si rivelò troppo stretto per Vittorini che entrò a far parte della redazione di Solaria. Nello stesso periodo lo scrittore confessò a Falqui, con il quale stava lavorando all’antologia Scrittori Nuovi, la sua irrevocabile «svolta» verso la narrativa, le sue motivazioni e i suoi «grandi» esempi: «II mio rondismo s’inquina ... Non era inquinato anche il rondismo dei selvaggi? [...]. Ma non parlare di moda. Proust e Stendhal, spero, sono fuori della moda. Essi fanno i miei maestri» (LAS I, p. XIX).

Per la rappresentazione interiore di «personaggi giovani», era soprattutto il nostalgico Proust che per Vittorini riusciva a rendere in modo esemplare i sentimenti dell’animo giovanile nella scrittura in prosa: «Proust è il nostro maestro più genuino […]. Per mezzo di Proust si è stabilito uno scambio effettivo tra l’Europa e noi» (LAS I, pp. 124-125).

La svolta di Vittorini verso la narrativa divenne ufficiale con la pubblicazione della raccolta di racconti Piccola borghesia che uscì nel 1931 e del suo primo romanzo Il garofano Rosso, pubblicato a puntate a partire dal febbraio del 1933 sulla rivista Solaria [fig. 1].

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Quando scrive Conversazione in Sicilia Elio Vittorini ha trent’anni, è autore di un romanzo – Il garofano rosso – che è stato sequestrato dall’autorità fascista e vorrebbe partire per la Spagna accanto ai repubblicani. Di lì a poco, nel 1939, si trasferirà a Milano, città che non abbandonerà più; nel ’41 esce l’edizione Bompiani della Conversazione, quando si pubblica anche l’antologia Americana, con i testi tradotti dallo scrittore ma senza le sue note di commento. Conversazione in Sicilia precede dunque Uomini e no, dedicato ai giorni convulsi della guerra in pagine dettate dalla clandestinità e dall’urgenza di raccontare, e disegna piuttosto un affondo nella memoria, una sorta di nostos nel tempo dei ricordi che ne rilancia i motivi nel presente e di lì a poco nella lotta, e nella scrittura, della Resistenza.

 

1. Mappare la memoria

Il racconto del viaggio di Silvestro, il narratore, verso il paese natale, e dell’incontro con la madre dopo quindici anni di lontananza, assume movenze quasi dantesche nell’alternarsi continuo di sonno e veglia («mi addormentai, mi risvegliai e tornai ad addormentarmi, a risvegliarmi, infine fui a bordo del battello-traghetto per la Sicilia», Vittorini 1966, p. 11), così da disegnare sulla pagine una sorta di mappa del ricordo lungo una regressione memoriale in una «quarta dimensione» di una «Sicilia ammonticchiata di spiriti» (p. 92) che mescola lo sguardo del presente alle suggestioni deformate delle memorie d’infanzia. Così Vittorini:

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Il romanzo di Vittorini Uomini e no sta sulle coscienze di tanti lettori come un peccato non consumato. Testimonianza di un momento civile, la violenza nazifascista e la Resistenza nella Milano del 1944, ma anche ritratto di intellettuale, atto di fede stilistico prima che politico, il libro di Vittorini parve scritto sopra le righe, generoso e faticoso, una parabola troppo intinta nella letteratura. Insomma lo si ricorda come un brutto libro importante (Manciotti, Viganò 1995, p. 296).

Con questo giudizio il critico cinematografico Stefano Reggiani, nel recensire su La Stampa (17 settembre 1980) il film di Valentino Orsini appena uscito sugli schermi italiani, liquidava sbrigativamente quella che in fondo era stata la prima uscita letteraria, in presa diretta, sulla lotta armata antifascista in una grande città del Nord. Prima di Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno, 1947; Ultimo viene il corvo, 1949), prima di Pavese (La casa in collina, 1948), prima di Renata Viganò (LAgnese va a morire, 1949) e ben prima di Fenoglio (i racconti I ventitré giorni della città di Alba, 1952; Primavera di bellezza, 1959; postumi: Una questione privata, 1963; Il partigiano Johnny, 1968; La paga del sabato, 1969).

Nel Paese sanguinosamente liberato, la scrittura stessa sembrava volersi ripulire con sdegno dalla vacua retorica del ventennio per riscoprire i contorni e la sostanza del reale e degli uomini, partendo proprio da quelle dolorose esperienze di guerra civile che avevano coinvolto almeno una parte della gioventù italiana.

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Il cinema è un’invenzione senza futuro

Louis Lumière

 

La scrittura di Vittorini, sia quella narrativa che quella saggistica, rivela seppure nella discontinuità dell’ispirazione di ciascuna opera una costante estroversione verso il mondo che lo circonda e che sembra muoversi e trasformarsi a una velocità sempre maggiore, tanto da indurlo a un continuo lavoro di correzione e riscrittura. Il caso più emblematico è forse quello delle Donne di Messina, ma in generale si può dire che il problema del tempo (come sostiene Calvino nel saggio a lui dedicato sul numero 10 del Menabò, un anno dopo la sua morte) muova lo scrittore a «cancellare via via le date dalle proprie opere, accettando che ognuna porti una data d’inizio, prova della sua necessità storico-genetica, e aggiornando continuamente la data della fine, facendo sì che lo scrivere rincorra l’esser letto, cerchi di scavalcarlo» (Calvino 1995, pp. 172-173). Nell’ottica di questa gara contro il tempo si intendono dunque i continui ritorni sul già scritto o le interruzioni, ed è possibile leggere nell’insieme delle opere compiute e della grande quantità di frammenti la profonda coerenza nel modo tutto vittoriniano di vivere la letteratura come progetto, o meglio ancora come «raccolta di materiali per un progetto» (ivi, p. 60), come tensione continua dall’utopia alla sua progettazione.

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«La sua storia era d’un Picasso italiano», afferma Vittorini tirando nel 1960 le somme del percorso della pittura di Renato Guttuso (Vittorini 2008, p. 929). Il nome di Picasso si incastra con determinazione tra quello di Vittorini e Guttuso, come se insieme dovessero formare una triade che orienta molte scelte espressive dalla fine degli anni Trenta in poi, implicando letteratura e pittura ma anche fotografia. Il punto di partenza potrebbe essere la guerra civile spagnola, l’evento storico dal quale Vittorini riceve il suo battesimo ideologico: «nell’offeso mondo si poteva esser fuori della servitù e in armi contro di essa» (Vittorini 1976, p. 213). Nel 1938 Guttuso dipinge un quadro dominato dalle molteplici variazioni tonali del rosso, la Fucilazione in campagna. Il modello risale a Los fusilamientos di Goya, ma anche a un quadro di Aligi Sassu, Fucilazione nelle Asturie, il soggetto riguarda la morte di Federico Garcia Lorca ucciso dai franchisti. Lorca è il primo tramite di Vittorini con la guerra di Spagna e con la pittura di Picasso (cfr. Vittorini 2008, p. 123n).

Nel 1941 Vittorini pubblica nella collana Pantheon di Bompiani un’antologia del Teatro spagnolo. Ad accompagnare i testi, Vittorini compie una scelta figurativa che attraversa la pittura spagnola e comprende El Greco, Velàzquez, Goya, e arriva fino a Picasso: Le bagnanti, Le amiche, e Toro di Spagna, i cui soggetti possono intonarsi alle atmosfere del poeta. L’anno seguente esce Nozze di Sangue, una antologia poetica di Lorca che prende il titolo dal suo dramma più famoso, Bodas de sangre. Vittorini però vuole tenere distante la pittura di Picasso dalla tecnica espressiva di Lorca, come se il poeta fosse legato a un’epoca anteriore rispetto allo sperimentalismo del pittore.

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Volumi racchiusi talvolta in cofanetti ornati da illustrazioni a colori e impreziositi al loro interno da materiale iconografico fuori testo, rilegature cucite, a filo refe, fregi o caratteri in oro sul dorso, eleganti copertine telate: sono queste le caratteristiche di alcune edizioni della collana einaudiana I millenni, nata nel 1947 sotto la direzione di Cesare Pavese e presentata al pubblico dei lettori attraverso una pregiata veste tipografica.

La serie raccoglie l’eredità dei Giganti, collana d’anteguerra di cui viene realizzata nel 1942 un’unica uscita, Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, e ospita una variegata selezione di classici della letteratura mondiale di tutti i tempi, dalle raccolte di novelle e di fiabe e dal monumentale Parnaso italiano curato da Carlo Muscetta fino ai capolavori della letteratura antica, russa o cinese. L’apparente assenza di un unico nucleo generatore e la mancanza di un unico percorso contenutistico si riflettono nel principio di inclusione dei testi, tutt’altro che univoco. Come testimonia il verbale editoriale del 9 novembre 1949, tra la collezione dei Millenni e le affini Universale e Narratori stranieri tradotti, il «criterio di collocazione è elastico» e tale da essere demandato a una «decisione caso per caso» (Munari 2011, p. 74). Al consapevole diniego di rigidi steccati nelle linee editoriali si accompagnano i differenti punti di vista di volta in volta adottati dai consulenti nel corso delle discussioni sulla collana, che sfugge ai tentativi di definizione nella misura in cui, paradossalmente, si rende riconoscibile anche, e soprattutto, in virtù del suo prestigio culturale. Alla ritrosia di Pavese di includere i contemporanei o di procedere a una loro pubblicazione nella serie solo quando abbiano raggiunto un certo grado di ‘classicità’, abbiano cioè inciso un segno sulla loro epoca (cfr. Mangoni 1999, p. 464), fa da pendant, in fase decisionale, l’eloquente assenso di Calvino all’attribuzione della Vita di Benvenuto Cellini all’Universale, «perché mancherebbe, nel caso del Cellini, quell’elemento di “riscoperta” che è presupposto per l’inclusione di un classico nei “Millenni”» (Munari 2011, p. 447).

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Scavare nell’immagine per trovare altre immagini. Isolare il dettaglio e trasportarlo in una dimensione altra, allusiva, lontana da quella di partenza. Rompere la composizione e montarne i frammenti secondo un ordine che ridefinisca i termini del discorso visivo, talvolta reinventandolo. Queste alcune delle direzioni che Elio Vittorini esplora quando si relaziona con le immagini e, più in generale, con la visualità. Si tratta di un procedimento estremamente moderno, che lascia intendere come per Vittorini l’elemento visivo non sia, nella sua sostanza, diverso dalla parola: in conseguenza del taglio, dell’assemblaggio e della contestualizzazione assume diversi significati e potenzialità narrative. È un esperimento che ricorda alcune scene di Blow Up di Antonioni, in cui il fotografo, man mano che ingrandisce un’immagine, finisce con l’avere una relazione sempre più distaccata dalla stessa e con lo scoprire nuovi messaggi o significati. Così si comporta Vittorini, nastro adesivo e squadra alla mano, nella scelta delle illustrazioni. La selezione, il montaggio e l’editing dell’immagine, sono per l’intellettuale siciliano un atto creativo e autoriale a tutti gli effetti, oggetto di riflessione e strumento di interpretazione del testo. Vittorini a più riprese ci offre alcune dichiarazioni programmatiche sulla sua idea di illustrazione editoriale, non disgiunta, nella pratica, dal progetto divulgativo a cui il suo operato tende:

 

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