2.2. «Come nei vecchi libri della nostra infanzia». Vittorini illustratore

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  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

Scavare nell’immagine per trovare altre immagini. Isolare il dettaglio e trasportarlo in una dimensione altra, allusiva, lontana da quella di partenza. Rompere la composizione e montarne i frammenti secondo un ordine che ridefinisca i termini del discorso visivo, talvolta reinventandolo. Queste alcune delle direzioni che Elio Vittorini esplora quando si relaziona con le immagini e, più in generale, con la visualità. Si tratta di un procedimento estremamente moderno, che lascia intendere come per Vittorini l’elemento visivo non sia, nella sua sostanza, diverso dalla parola: in conseguenza del taglio, dell’assemblaggio e della contestualizzazione assume diversi significati e potenzialità narrative. È un esperimento che ricorda alcune scene di Blow Up di Antonioni, in cui il fotografo, man mano che ingrandisce un’immagine, finisce con l’avere una relazione sempre più distaccata dalla stessa e con lo scoprire nuovi messaggi o significati. Così si comporta Vittorini, nastro adesivo e squadra alla mano, nella scelta delle illustrazioni. La selezione, il montaggio e l’editing dell’immagine, sono per l’intellettuale siciliano un atto creativo e autoriale a tutti gli effetti, oggetto di riflessione e strumento di interpretazione del testo. Vittorini a più riprese ci offre alcune dichiarazioni programmatiche sulla sua idea di illustrazione editoriale, non disgiunta, nella pratica, dal progetto divulgativo a cui il suo operato tende:

 

Io penso che […] qualunque libro di narrativa o di poesia, come di storia o di critica o addirittura di teoria […] sarebbe desiderabile che venisse illustrato (con foto o con disegni e foto insieme) per arricchirsi subito di efficacia divulgativa pur conservando intatto il proprio rigore poetico o teorico. Questo a condizione, però, che l’illustrazione sia introdotta nel libro con criterio cinematografico e non già fotografico, non già vignettistico, e che dunque si arrivi ad avere accanto al testo una specie di film immobile che riproponga, secondo un suo filo di film, almeno uno degli elementi del testo (Vittorini 2008, II, p. 702).
 
Esistono due buoni modi di illustrare un libro: corrispondere al suo linguaggio, al suo stile, o interpretare con un istinto da rabdomante che trova ciò che lo scrittore stesso non poteva sapere d’aver detto (Il Politecnico, 29, 1° maggio 1946, p. 22).
 

Entrambi gli orientamenti trovano ampio spazio nella vicenda del Vittorini ‘illustratore’, attività strettamente connessa a quella del Vittorini ‘letterato-editore’ e alle istanze che lo animano.

 

1. Vittorini e Bompiani

Per comprendere l’impostazione del lavoro vittoriniano che andremo qui a mostrare, è necessario definire lo sfondo entro il quale esso si svolge, secondo le coordinate della feconda collaborazione con Bompiani relativa ai primi anni Quaranta. La vicenda di Vittorini all’interno della casa editrice rappresenta per lo scrittore siciliano la porta di ingresso al mondo dell’editoria inteso nella sua parte più attiva e fertile rispetto agli orientamenti letterari di un’epoca. Se la precedente esperienza di traduttore, unita a quella del rapporto con Mondadori, risultano essenziali per la maturazione del Vittorini ‘letterato-editore’, è nel lavoro con Bompiani che prende corpo la possibilità di operare in una direzione precisa, per fare in modo cioè che la cultura del proprio tempo, parafrasando una felice espressione di Calvino, possa avere un volto piuttosto che un altro. L’obbiettivo comune è di oltrepassare tanto l’autarchia culturale a cui il fascismo inevitabilmente tendeva, quanto la divisione binaria tra cultura alta e cultura bassa, in contrasto con il purismo accademico e il narcisismo intellettuale che avevano indirettamente creato le condizioni affinché trovassero spazio nell’editoria «tutti quei sottoprodotti e pseudoprodotti, sempre travisatori, sempre superficializzatori, che oggi invece costituiscono il grosso di quanto la produzione libraria offre al consumo culturale» (Vittorini 2008, I, p. 1028), come Vittorini stesso aveva sentenziato qualche anno prima dalle colonne del Bargello.

Con il lavoro presso Bompiani, e in particolare con le collane Pantheon e Corona, Vittorini ha la possibilità di dare un’impronta precisa e personale a un progetto editoriale, seguendone tutte le sue fasi, dall’ideazione alla sua definizione concreta. Per quanto formalmente non firmate con il sigillo del curatore, come avverrà negli anni Cinquanta con i Gettoni di Einaudi, Pantheon e Corona sono a tutti gli effetti collane vittoriniane. Nella loro gestazione e successiva impostazione, nei loro caratteri testuali e paratestuali, rilucono tutti quegli elementi che caratterizzano il lavoro editoriale di Vittorini; esperienza complessa e articolata che il critico Gian Carlo Ferretti condensa in alcune coppie oppositive che si intrecciano e sovrappongono, componendo un mosaico fatto di «lungimiranza e tempestività, creatività e concretezza, onestà e spregiudicatezza, civiltà e arbitrio nei confronti dei testi e delle persone» (Ferretti 1992, p. 35). Vedremo ora più nello specifico come questi orientamenti trovino effettiva realizzazione nel lavoro sui libri, prestando particolare attenzione a una pratica che, come si accennava, non meno delle altre definirà il modo di operare vittoriniano su autori e testi della tradizione o della contemporaneità, ovvero la scelta e la disposizione del materiale illustrativo, sia esso fotografico, come nel caso di Americana (per cui ci limiteremo a degli accenni), o pittorico, come avviene per Le sacre rappresentazioni italiane. Si tratta senza dubbio delle prove più originali del Vittorini illustratore, le più complete, complesse e audaci: agli antipodi per contenuti e significato culturale, entrambe sono tuttavia fondamentali per definire alcuni tratti della relazione tra Vittorini e la visualità.

 

2. Una pittura in movimento

Se Americana si inserisce nel solco della scoperta del nuovo mondo letterario d’oltreoceano, vergine, mobile, libero dalle pastoie dell’accademismo nostrano, Le sacre rappresentazioni italiane, curata nella scelta dei testi da Mario Bonfantini, fa parte di quella linea del ritorno ai classici che accomuna molte delle iniziative editoriali della Bompiani in questo periodo. Si tratta, in una certa misura, di un riflesso del momento storico: in una fase politica drammatica e convulsa, in cui il futuro appare quanto mai incerto e nebuloso, il ritorno a un nucleo di valori saldo e condiviso rappresenta un’esigenza avvertita da molti. Nel caso delle antologie di Pantheon, però, non siamo tanto in presenza di un’astratta fede nei valori senza tempo della cultura, quanto nella coscienza di ridare un’attualità caratteristica alle opere, che assumono diverso statuto e diversa funzione poetica a seconda del momento storico e del pubblico a cui si rivolgono. Il lavoro paratestuale di Vittorini sulle Sacre rappresentazioni va appunto in questa direzione. Già nel risvolto anteriore della sovraccoperta leggiamo un breve testo di presentazione che specifica come del dramma sacro del Medioevo «poco o nulla è giunto finora al pubblico che legge per interesse umano o poetico». Analoga è l’impostazione dell’apparato illustrativo, dichiaratamente a cura di Elio Vittorini: ciò che emerge dalla consultazione del volume è l’intenzione drammaturgica delle illustrazioni, sganciate da qualsiasi funzione di repertorio. Le 112 tavole che assieme alle quattro sezioni di testi vanno a comporre l’antologia, costituiscono l’apparato iconografico più ricco e movimentato dell’intera collana, con un Vittorini capace al contempo di aderire al clima del testo senza cadere in un piatto didascalismo illustrativo. Con libertà inventiva ed estro d’artista, Vittorini dà vita a un vero e proprio libro parallelo, correlativo iconografico del discorso antologico portato avanti con estrema chiarezza e disponibilità comunicativa da Bonfantini. Le illustrazioni offrono al lettore un secondo percorso di narrazione, una modalità di lettura aggiuntiva, ulteriore. I segni si stratificano, si incarnano, si fondono contraddicendo ogni gerarchia interna. Il risultato è un libro da guardare, oltre che da leggere, in cui le immagini e i testi si muovono specchiandosi l’uno nell’altro, a tutto vantaggio di un percorso di lettura dinamico e articolato. Vittorini non è interessato a offrire un documento storico sullo svolgimento delle sacre rappresentazioni medievali, né intende creare un’equivalenza antologica che allinei i più grandi artisti visivi coevi ai testi teatrali. Al contrario, l’intellettuale non si pone scrupoli nel sovrapporsi all’artista, nello smembrarne le opere compromettendone di fatto l’unità pittorica: l’intenzione esplicita è quella di creare una pittura in movimento, intrecciata o parallela all’incedere dei testi drammaturgici e dei paratesti critici. Quelle che il lettore incontra sono scene altre, svincolate dalla raffigurazione di partenza, per quanto da essa ricavate. Vittorini, più che come illustratore in senso stretto, sembra comportarsi come cineasta (molto frequenti sono flashback, flashforward, foundfootage), scegliendo dalla realtà che ha di fronte – in questo caso riproduzioni fotografiche di cicli pittorici – il dettaglio più adatto a darne una certa visione o a farsi esso stesso narrazione: ellittica, associativa, sintetica. Contaminando l’espressione artistica con un gusto registico per il taglio e il montaggio, l’illustratore realizza una nuova dimensione espressiva, in cui l’immagine prende parte all’azione del testo, moltiplicando i piani di lettura e amplificandone le suggestioni: isolando i dettagli, tagliando spregiudicatamente le scene, trascurando in un certo modo la visione d’insieme, Vittorini tira fuori la sostanza dinamica che l’immagine fissa trattiene in sé. Emblematica di tale procedimento la sequenza di tavole che va dalla XIII alla XX, scomposizione e ricomposizione della Maestà del Duomo di Siena dipinta da Duccio di Buoninsegna, che riassume la vita di Cristo in ventisei riquadri. Pescando liberamente da alcuni di questi, Vittorini propone un serrato montaggio della vita di Gesù per rapidi scorci e cambi di scena, con alcune soggettive che danno al lettore l’impressione di essere dentro il ‘film’ e di spostarsi insieme all’occhio del ‘regista’ [figg. 1-3].

Ad aprire la successione è un’inquadratura dell’Apostolo Pietro che sta pronunciando il terzo diniego al cospetto della fantesca, mentre la figura del Gesù percosso, centro della raffigurazione originale, è assente dalla scena. Anche nelle tavole seguenti Vittorini rimuove la figura di Gesù, focalizzando la sua attenzione prima su Ponzio Pilato che si lava le mani, poi subito sullo sguardo affranto di Maria ai piedi della Croce, che guarda verso l’alto inducendo lo spettatore a dedurre la figura del Cristo. Le tavole sono giustapposte, come a sottolineare con immediatezza la stretta correlazione tra i due episodi. Gesù comparirà soltanto nella pagina successiva, in una doppia tavola con uno zoom molto ravvicinato che esclude dall’inquadratura i due ladroni e ne reinventa la simmetria, salvando dal taglio dell’immagine soltanto il dettaglio delle mani sanguinanti. Voltando pagina, infine, ecco che l’occhio si sposta alla sinistra della croce, dove la folla urlante inveisce contro il Cristo morente, ancora una volta assente dalla scena. Le illustrazioni conclusive sono dedicate a Maria, al dolore e alla tenerezza di madre con la emme minuscola [figg. 4-6].

Nei tagli scelti da Vittorini ravvisiamo tutto ciò che i testi di raccordo ci dicono sul teatro religioso del Medioevo, «minutamente e accanitamente realistico nei particolari», pervaso «dalla sete di cogliere la concretezza del reale» (Bonfantini 1942, p. 19), con una partitura scenica in cui sono «frequenti i salti di tempi, continuo lo spezzettarsi di un’azione in vari momenti», analogamente alla coeva struttura compositiva del polittico, paragonabile per le sue possibilità «solo a quella del cinematografo» (ivi, p. 13): capiamo, quindi, quanto le illustrazioni di Vittorini non cerchino solo la suggestione figurativa, ma fungano da contrappunto critico, andandosi a intonare alle parole di Bonfantini, dando loro spessore visivo. Può accadere così che la didascalia a margine delle tavole illustrative risulti del tutto sganciata dalla raffigurazione vera e propria, che non riporta nell’immagine ciò che è indicato nel titolo dell’opera. Paradossalmente, l’indicazione bibliografica finisce in questi casi per assumere una funzione di guida anti-didascalica, che invita il lettore a osservare la scena segnalata nel titolo in maniera indiretta, attraverso cioè la reazione di chi a quella scena partecipa o assiste pur non essendone il protagonista: una sorta di «sineddoche visiva» (Ungarelli 2008, p. 501). Si vedano ad esempio le tavole LXXXIII, particolare di una Predica di San Bernardino che nella tavola è osservata attraverso gli occhi degli astanti, o la Natività di Gentile da Fabriano della tavola LXII, raffigurata in absentia, evocata nello sporgersi di un’ancella di Maria che sbircia la scena dall’angolo di un muro. L’orientamento al lettore avviene in questi casi per via allusiva, mai didascalica né assertiva, bensì di reciproca sollecitazione tra parola e illustrazione [figg. 7-8].

Nelle pagine de Le sacre rappresentazioni italiane, immagini e testi si dilatano, si ramificano, si arricchiscono a vicenda, a tutto vantaggio di un’esperienza di lettura movimentata e complessa che, anche a distanza di anni e seppur condizionata dalla sommaria qualità tecnica di alcune riproduzioni, mantiene intatto tutto il suo valore espressivo. Questo procedimento sarà alla base anche di quello che è il libro storicamente più significativo della serie di Pantheon, ovvero l’antologia Americana, col suo ricco corredo di fotografie, disegni, dipinti e fotogrammi di film (colpevolmente ignorato dalle edizioni economiche oggi in commercio). Le due antologie, a prima vista così differenti, mostrano in realtà più di una parentela nell’intenzione estetica che guida l’occhio di Vittorini nel multiforme orizzonte della relazione tra la parola scritta e l’immagine. Ancora una volta, appare evidente che il lavoro illustrativo vittoriniano è da considerarsi un contenuto autoriale, parte della vicenda letteraria ed editoriale dello scrittore. Pur non trattandosi di immagini prodotte direttamente dalla fantasia dell’artista, come avviene oggi per i migliori albi illustrati, la loro natura è frutto di una scelta, di un atto creativo che comprende un suggerimento critico, un’idea possibile di lettura, che sottintende, a sua volta, un’idea possibile di letteratura: aperta, inclusiva, multimediale.

 

Bibliografia

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Il Politecnico, diretto da E. Vittorini, 29, 1° maggio 1946.