L’operazione editoriale che ha portato nel 1944 alla stampa dei due volumi degli scritti di Luciano di Samosata (Luciano 1944, I-II) all’interno della collana Corona dell’editore Bompiani condensa in sé numerosi elementi di valore storico e culturale. Tra questi spicca l’aspetto artistico, legato alla presenza delle preziose illustrazioni di Alberto Savinio, ma una attenzione più specificatamente rivolta alla loro forma editoriale suggerisce anche una interpretazione ulteriore, volta a riconoscere nei due libri un distillato della poetica del Vittorini di quegli anni.
Elio Vittorini, infatti, nel 1942 fonda e dirige Corona, una collana universale che accoglie nel proprio catalogo titoli di autori considerati classici, provenienti dalle più varie epoche storiche e geografiche, operando però, dal punto di vista letterario, una selezione molto particolare, corrispondente ai propri interessi e gusti di lettore e autore, con l’intento dichiarato di rivolgersi a un’ampia comunità di lettori non necessariamente colti, che considerano i libri un bene di prima necessità. Il contesto storico del secondo conflitto mondiale è lo sfondo su cui si colloca il progetto editoriale e ogni testo deve avere un valore innanzitutto nel presente.
Poste queste premesse, Vittorini coordina le fasi di lavorazione dei volumi dedicati ai testi di Luciano di Samosata, che nello specifico erano nati da un’idea di Valentino Bompiani subito accolta da Savinio (cfr. Cianfrocca 2018): in questo margine apparentemente ristretto di lavoro, Vittorini riesce però a realizzare un oggetto pienamente corrispondente alla sua visione letteraria e culturale di quegli anni, facendo ruotare i suoi elementi costitutivi, in particolare iconografici e paratestuali, entro la propria orbita carismatica.
Questi i nomi che compaiono nel frontespizio dei volumi [fig. 1]: Luciano di Samosata, autore; Luigi Settembrini, traduttore; Alberto Savinio, illustratore e curatore, compilatore quest’ultimo quindi, non solo dei disegni che affiancano i testi, ma anche dell’introduzione e delle brevi note di presentazione degli scritti lucianiani.
Le illustrazioni di Savinio hanno un ruolo non ancillare nel costituire l’identità della pubblicazione e ciò è evidente a partire dall’indice del volume che antepone l’Indice delle illustrazioni all’Indice del testo; inoltre, quantitativamente le immagini sono rilevanti: 20 per il primo volume, 30 per il secondo. Si tratta di disegni in bianco e nero [figg. 2-3], cui si aggiunge rispettivamente, nella posizione dei controfrontespizi, una riproduzione a colori di un disegno acquerellato [figg. 4-5]. Le immagini dunque dovrebbero essere il perno di un’operazione editoriale che – coerentemente con la volontà attualizzante della collana in cui si colloca – è il risultato di una convinzione anche di Savinio stesso, del suo modo di intendere il rapporto con gli antichi.
Su questo si inserisce però un altro elemento: «il triplo accostamento Luciano-arte ellenistica-Savinio viene da lontano» (Maroccini 2015, p. 71) ed è datato 1933, anno in cui Vittorini compila la rassegna di una mostra delle opere di Savinio a Firenze. Lo scritto rappresenta l’orizzonte ermeneutico vittoriniano in cui la pubblicazione dei volumi di Luciano si colloca e fornisce una insuperabile sintesi del modo in cui Vittorini interpreta l’arte di Savinio:
La pittura di Alberto Savinio sarebbe piaciuta agli antichi greci. Non dico che gli antichi dipingevano o avrebbero dipinto come Savinio […]. Dico che la pittura di Savinio avrebbe trovato il più largo consenso di popolo presso gli antichi greci, in quanto avrebbe soddisfatto quel loro gusto della deformazione che miti e opere letterarie, se non figurative, ci documentano. In chi fantasticava del minotauro, o immaginava Giove sotto forma di toro o di cigno, e in Savinio che vede i suoi personaggi con teste di struzzo, di anitre, caproni e giraffe, il gusto suscitatore è lo stesso. Gusto per il quale la deformazione avviene come simbolo di trasfigurazione (Vittorini 2008, p. 623).
In questo scritto è però presentata anche una questione delicata che entra in conflitto con il successivo lavoro di Vittorini editore per Corona: il fatto cioè che «il nostro pubblico d’oggi non riesca più a intendere» quel particolare gusto rappresentato dalla pittura di Savinio. E infatti viene evocata la seguente immagine:
Diceva Arturo Loria: questi disegni sarebbero ideali per la biblioteca, da appendere tra scaffale e scaffale. E giurava che se fosse stato grecista o latinista, una specie di professor Pasquali, li avrebbe comprati tutti (Vittorini 2008, p. 624).
Accostare Savinio a Luciano di Samosata è dunque un’operazione culturalmente sofisticata, ma tale non vuole e non deve essere nel 1944 la proposta editoriale di Corona, quanto meno nelle intenzioni esplicite.
Ed è in questo solco che il direttore di collana interviene, anche perché nel frattempo la Storia impone che l’attenzione del lettore sia sollecitata non da un’operazione raffinata, ma dalle ragioni di ‘emergenza’ (questa l’espressione utilizzata da Vittorini nel risvolto di copertina dei primi volumi di Corona; cfr. Cadioli 2017, p. 172 e Ferretti 1992, pp. 45-56) per cui il testo dello scrittore ellenistico è ancora necessario.
Il tutto non è contro la volontà di Savinio – anzi, questi condivide con Vittorini l’idea di portare sui testi del passato una lettura e una interpretazione valide per il lettore contemporaneo – ma si rende necessario incanalare il prodotto culturale in modo adeguato verso i lettori elettivi di Corona, i quali non possiedono l’attitudine intellettuale di un «professor Pasquali»: Vittorini dunque ‘assorbe’ il lavoro condotto da Savinio nel proprio percorso di collana e di letterato editore, lavorando sulla forma dell’edizione e arrivando di fatto ad imprimere una firma invisibile ai due volumi.
L’obiettivo viene raggiunto innanzitutto a partire dal fatto che Savinio non è presentato al lettore come la mente che ha governato la regia editoriale della pubblicazione e nei due libri questa volontà di ‘attenuazione’ del suo influsso è evidente: basti osservare la copertina, dove nemmeno è citato (neanche nei risvolti in cui si presenta solo il testo di Luciano), e il frontespizio, dove il suo nome è composto in corpo e in posizione decisamente minori. Savinio stesso, per altro, non ha mancato di contestare all’editore questa scelta (cfr. lettera del 7 agosto 1945 in Cianfrocca 2018).
A questo punto occorre indagare il principale livello su cui il direttore di collana ha agito, cioè la scelta dell’immagine delle copertine [figg. 6-7]: come spiega Francesca Cianfrocca, «non tutti i disegni [di Savinio] verranno in realtà accolti» e «per le copertine si prediligono particolari tratti da pitture greche, probabilmente per ragioni di uniformità con gli altri titoli della collana» (Cianfrocca 2018). Vittorini infatti pone in copertina le riproduzioni di particolari della pittura vascolare di epoca ellenistica, le quali possono senz’altro apparire una «scelta molto sofisticata» (Maroccini 2015, p. 70) se le si interpreta analiticamente, ma che invece per l’occhio di un potenziale lettore esercitano efficacemente una funzione didascalica, a partire dalla loro coerenza con l’epoca storica del testo. La volontà cioè è quella di «fornire al lettore delle coordinate testuali ma soprattutto paratestuali che siano in grado di orientare la sua lettura» (Maroccini 2015, p. 64), in una prospettiva legata alla ricerca di una immediatezza comunicativa.
Quello che però effettivamente stupisce è come la ‘vittorinizzazione’ dei due volumi sia riconoscibile anche nelle immagini evocate dall’introduzione di Savinio (Savinio 1944) – composta autonomamente e sulla quale non c’è alcuna documentata ragione per pensare a un intervento vittoriniano in senso stretto di editing o revisione –, che mostra in filigrana una serie di echi con l’opera e la poetica del Vittorini di quegli anni: qui il rapporto osmotico è indubbiamente biunivoco e non è pensabile parlare di una prevaricazione di Vittorini sul pensiero di Savinio, ma più semplicemente è testimonianza di una consonanza, di una rete di influssi e suggestioni che in quegli anni dovevano essere palpabili intorno al club Bompiani (Ferretti 2004, p. 24), a dimostrazione ancora una volta della forte carica elettiva di quel contesto di lavoro e di progettualità.
Non è possibile qui dare conto delle numerose e rilevanti corrispondenze che si possono ricostruire in controluce, ma occorre quanto meno sottolineare come tale sintonia di idee e la comune lettura attualizzante portata sull’antico si traducano anche in questi volumi nell’attuazione di una pratica di intervento disinvolto sui testi altrui. Le opere di Luciano infatti sono state scelte non seguendo il loro «ordine cronologico», ma dividendole «per genere»; di conseguenza, precisa Savinio, la «disposizione ha avvicinato opere del primo periodo a opere dell’ultimo […] ma che importa?» (Savinio 1944, p. 34).
Infine, ultimo ma determinante elemento dell’operazione è la scelta di riproporre la traduzione di Settembrini, la quale è esplicitamente la cerniera perfetta con il presente e chiarisce il raccordo elettivo con il 1944: Settembrini infatti tradusse i testi di Luciano «entro un periodo di cinque anni nell’ergastolo di Santo Stefano», portando avanti con l’autore antico un dialogo necessario «a non perdere interamente l’intelligenza […], per non perire interamente nella memoria degli uomini» (Savinio 1944, p. 35).
Questa chiave di lettura sui testi, ma anche la riproposta della loro versione ottocentesca, deve tenere conto del lettore elettivo di Corona e infatti Savinio dichiara di essere intervenuto sulla traduzione del Settembrini, che viene «rinettata appena di alcuni arcaismi», sostituendo «le parole poco comuni con parole più comuni», allo scopo dichiarato di «togliere ogni ostacolo nel quale l’occhio del lettore potesse inciampare e fermarsi. Si trattava insomma di “lucianizzare” al massimo questa versione italiana di Luciano, il quale, come scrittore “della fine”, era il più prosatore dei prosatori e tirava più a dire che a cantare» (Savinio 1944, p. 36).
Allo stesso modo e in coerenza con questo assunto, collocare i due volumi in un orizzonte di comunicazione letteraria, sì colto ma intellegibile più ampiamente, equivaleva, di fatto, in quel contesto editoriale, a ‘vittorinizzare’ al massimo la forma della loro edizione.
Bibliografia
A. Cadioli, Letterati editori. Attività editoriale e modelli letterari nel Novecento [1995], Milano, il Saggiatore, 2017.
F. Cianfrocca, ‘Alberto Savinio editore di Luciano. Un percorso attraverso le lettere’, Fillide, 16, aprile 2018 <http://www.fillide.it/index.php/rivista/19-articoli/413-francesca-cianfrocca-alberto-savinio-editore-di-luciano-un-percorso-attraverso-le-lettere> [accessed 4 February 2019].
F. Cianfrocca, «Scrivere fino in fondo». Il carteggio Savinio Bompiani (1941-1952), Tesi di laurea magistrale in Filologia moderna, Università di Roma La Sapienza, a.a. 2016-17, relatore C. Bello, correlatore P. Italia (ora in corso di pubblicazione presso Bompiani).
G.C. Ferretti, L’editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992.
G.C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia (1945-2003), Torino, Einaudi, 2004.
Luciano di Samosata, Dialoghi e saggi, trad. it. di L. Settembrini, introduzione, note e illustrazioni di A. Savinio, Milano, Bompiani, I, 1944.
Luciano di Samosata, Una storia vera, trad. it. di L. Settembrini, introduzione, note e illustrazioni di A. Savinio, Milano, Bompiani, II, 1944.
G. Maroccini, ‘L’occhio di Vittorini’, Letteratura e Letterature, 9, 2015, pp. 61-77.
A. Savinio, Introduzione, in Luciano di Samosata, Dialoghi e saggi, pp. 7-42.
E. Vittorini, ‘Mostre fiorentine: Savinio, Annigoni’, L’Italia letteraria, V, 3, 15 gennaio 1933, p. 4, ora in Id., Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926-1937 [1997], a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 2008, pp. 623-626 (le citazioni sempre da qui).