Il romanzo di Vittorini Uomini e no sta sulle coscienze di tanti lettori come un peccato non consumato. Testimonianza di un momento civile, la violenza nazifascista e la Resistenza nella Milano del 1944, ma anche ritratto di intellettuale, atto di fede stilistico prima che politico, il libro di Vittorini parve scritto sopra le righe, generoso e faticoso, una parabola troppo intinta nella letteratura. Insomma lo si ricorda come un brutto libro importante (Manciotti, Viganò 1995, p. 296).
Con questo giudizio il critico cinematografico Stefano Reggiani, nel recensire su La Stampa (17 settembre 1980) il film di Valentino Orsini appena uscito sugli schermi italiani, liquidava sbrigativamente quella che in fondo era stata la prima uscita letteraria, in presa diretta, sulla lotta armata antifascista in una grande città del Nord. Prima di Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno, 1947; Ultimo viene il corvo, 1949), prima di Pavese (La casa in collina, 1948), prima di Renata Viganò (L’Agnese va a morire, 1949) e ben prima di Fenoglio (i racconti I ventitré giorni della città di Alba, 1952; Primavera di bellezza, 1959; postumi: Una questione privata, 1963; Il partigiano Johnny, 1968; La paga del sabato, 1969).
Nel Paese sanguinosamente liberato, la scrittura stessa sembrava volersi ripulire con sdegno dalla vacua retorica del ventennio per riscoprire i contorni e la sostanza del reale e degli uomini, partendo proprio da quelle dolorose esperienze di guerra civile che avevano coinvolto almeno una parte della gioventù italiana.
L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia – scriverà Calvino nell’ormai celebre Prefazione del 1964 al suo primo romanzo – fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. […] Mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale grezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed amplessi non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma, sapevamo fin troppo bene che quel che contava era la musica e non il libretto. […] Il “neorealismo” per noi che cominciammo di lì, fu quello (Calvino 1964, pp. 6, 8).
Il neorealismo cinematografico, che traeva materia di racconto dallo sguardo dolente sulle macerie ancora calde e i lutti che inquinavano il paesaggio e lo spirito degli italiani, parve all’inizio non accorgersi della letteratura contemporanea, anzi, per molti aspetti ne aggirò le possibili gabbie formali anticipandola e privilegiando il racconto orale alla memoria scritta, l’immagine rispetto alla sceneggiatura. Roma città aperta (1945), Giorni di gloria (1945), Un giorno nella vita (1946), Il bandito (1946), Il sole sorge ancora (1946), Paisà (1946), Caccia tragica (1947), Achtung! Banditi! (1951), per citare solo i primi titoli pressoché obbligatori in qualsiasi ciclo su cinema e Resistenza in voga negli anni Sessanta, avevano delle firme ormai consolidate – da Amidei a Serandrei, da Perilli a Zavattini, da Pinelli a De Santis, da Fellini a Sonego – ma nessun regista o sceneggiatore si preoccupava di attingere idee direttamente da un testo edito.
Non molto diversa fu la ripresa tematica su fascismo e Resistenza nei primissimi anni Sessanta – quasi un genere che investì anche la nascente commedia italiana – almeno in parte dovuta al riaffiorare minaccioso sulla scena politica di partiti e raggruppamenti di orientamento neofascista. Registi vecchi e nuovi tornarono a cimentarsi con il passato prossimo aggiornandone la lettura, costruendo storie e personaggi provenienti anche da classi sociali diverse da quel ‘popolo’ apparentemente indistinto, corale, che aveva animato in prima persona la sfida al nazifascismo. E più o meno tutti, a cominciare dallo stesso Rossellini (Il generale Della Rovere, 1959; Era notte a Roma, 1960), si tennero a distanza di sicurezza da romanzi e racconti. Solo Vancini (La lunga notte del ’43, 1960), De Sica (La ciociara, 1960) e Comencini (La ragazza di Bube, 1963) trassero ispirazione rispettivamente da Bassani, Moravia e Cassola.
Non sorprende pertanto che anche Uomini e no abbia dovuto attendere a lungo prima di essere trasposto al cinema da Valentino Orsini e Faliero Rosati con l’apporto determinante del produttore ed ex partigiano Giuliani G. De Negri [fig. 1]. Passato dalla fucina dei cineclub degli anni Cinquanta all’impegno del cinema documentario con Paolo e Vittorio Taviani fino a diventare assistente del maestro Joris Ivens, il regista pisano aveva esordito nel lungometraggio in sodalizio con i fratelli samminiatesi (Un uomo da bruciare, 1962; I fuorilegge del matrimonio, 1963), per poi proseguire da solo un tracciato più inquieto, di ricerca linguistica, fra le contraddizioni degli intellettuali e della sinistra occidentale di fronte all’eco ravvicinata delle rivoluzioni del Terzo Mondo e delle guerre nel Sudest asiatico. Orsini tentò di ricomporre crisi ideologica e crisi creativa con una soluzione filmica filtrata dalle suggestioni di un libro di culto dei movimenti del ’68, I dannati della terra del martinicano Frantz Fanon; ma forse erano troppi e confusi gli elementi miscelati – pulsioni autobiografiche, arie tardive di nouvelle vague, oratorio brechtiano, fotomontaggi di materiale di repertorio – da lasciare insoddisfatti critica, pubblico e lo stesso autore. Restava comunque in lui la voglia di recuperare nel passato del Paese stimoli e passioni rimosse per orientarsi decentemente anche nel presente. Nacque così Corbari (1970), una sorta di ballata western (non a caso Giuliano Gemma-Ringo ne era il protagonista) che ricostruiva le gesta, ancora avvolte da un alone mitico, di quel giovane ribelle romagnolo che con la sua donna e una banda di partigiani aveva condotto sull’Appennino faentino una feroce guerra di resistenza contro tedeschi e repubblichini, creando piccole zone contadine liberate. Prima che i reparti nemici, nell’agosto del ’44, risalissero le vallate dalla Toscana per annientarli senza pietà.
Amore, morte, una causa giusta, una lotta disperata Orsini li ritroverà nel romanzo di Vittorini proprio alla fine di quel decennio potenzialmente rivoluzionario, quando già gli analisti più accorti avvertivano la parabola discendente del ‘gaio disordine’ internazionale che aveva ribaltato il mondo e un cineasta militante e sensibile come Chris Marker ne andava filmando poeticamente il percorso, la piena e l’ineluttabile fine in quel fiume d’immagini e storie che resta Le Fond de l’air est rouge (1977). E quando, soprattutto in Italia, l’ostinazione delle ultime brigate combattenti e lo stato d’assedio della vita civile avevano reso impraticabile quell’aria trafitta dal piombo.
Vittorini aveva scritto Uomini e no pressoché di getto a Milano, tra la primavera e l’autunno del ’44, quando già collaborava alla stampa clandestina del Partito comunista vivendo nascosto [fig. 2]. Fin dalle prime pagine del libro, che vedrà la luce nel settembre 1945 per Bompiani, l’autore non mascherava troppo le affinità tra il protagonista, nome di battaglia Enne 2, e le proprie vicende biografiche: «L’inverno del ’44 è stato a Milano il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo...», per poi far precisare al libraio ambulante di Porta Venezia: «Questo è l’inverno più mite che abbiamo avuto da trentasei anni. Dal 1908» (Vittorini 1965, p. 7), anno di nascita dello scrittore siciliano. Ma è soprattutto quando inizia, nei capitoli in corsivo, a dialogare con il personaggio come espediente letterario per interrompere la narrazione e riflettere sulla ragione stessa di quanto accade, che la sottile parete divisoria diventa sempre più trasparente: «Gli dico: “Non ci conosciamo da dieci anni? Io sono come te”» (p. 29). Per arrivare a una vera e propria sovrapposizione: «Io a volte non so, quando quest’uomo è solo – […] – io quasi non so s’io non sono, invece del suo scrittore, lui stesso» (p. 78). Tanto da confondere e condividere i ricordi della Sicilia di Conversazione: «Ora so ch’egli vuole la sua infanzia. Chi può dargliela se non io? È la mia» (ibidem).
Non era facile tradurre il doppio registro del romanzo in un discorso filmico unitario senza perdere le risonanze liriche della parola scritta, lo scavo nelle psicologie dei personaggi, i dubbi, le incertezze, le paure nel chiedersi le motivazioni e i perché di una lotta senza quartiere, senza regole, che rischiava di annullare quella distinzione etica tra uomini e non uomini conclamata fin dal titolo. Orsini opta per una semplificazione del racconto, concentrandosi sulle ardite azioni partigiane e le rappresaglie nazifasciste in una città logora, nebbiosa, dai colori lividi, lungo strade e piazze semideserte, se non per piccoli assembramenti di passanti attoniti di fronte ai cadaveri dei giustiziati. Quello che Vittorini suggeriva, tra reale e surreale, la macchina da presa esibisce, anche se con decoroso distacco, come nella bella sequenza della fucilazione notturna rischiarata dai quarzi di un palcoscenico, osservata a rispettosa distanza, a camera fissa, con gli incolpevoli ostaggi, dannati senza condanna, trascinati davanti alle raffiche della mitraglia.
Secondo i canoni del cinema narrativo l’azione deve essere rappresentata, non semplicemente detta, ma per far questo Orsini è portato a sfrondare, tagliare e ricucire il romanzo con un ordito diverso, riducendo a figure minori di raccordo personaggi femminili importanti come Lorena (Ivana Monti), che oltre a essere una coraggiosa staffetta portaordini si confermava (nel testo scritto) amica fedele, capace di alleviare la solitudine di Enne 2 (Flavio Bucci) in una disinibita notte d’amore tra una sigaretta e l’altra. «Quando ebbero finito egli volle subito fumare. “È una buona cosa” disse, “essere uomo”. “Anche essere donna”, disse Lorena. “Ti basta questo?”, Enne 2 le chiese. “Mi basta”, disse Lorena. “Non ti porterò via a nessuno.” Sorrise anche. “Ma quando vuoi sentirti uomo non far complimenti”» (p. 37). O come la ciarliera, vecchia compagna Selva (Cristina Grado), forse l’unica a capire più chiaramente il perché della guerra in corso: «“Un uomo è felice quando ha una compagna. Non possiamo desiderare che un uomo sia felice? Noi lavoriamo perché gli uomini siano felici. […] Ogni cosa ha un senso solo perché gli uomini siano felici”» (pp. 16-17). Queste frasi semplici, serene, ripetute sembravano il punto di approdo, per Vittorini, delle lunghe riflessioni sul male nell’uomo e la necessaria pietas per sopravvivere e sperare condotte in Conversazione in Sicilia:
Ogni uomo è malato una volta, nel mezzo della sua vita, e conosce quest’estraneo che è il male, dentro a lui, l’impotenza sua con quest’estraneo; può comprendere il proprio simile. […]
Ma forse non ogni uomo è uomo; e non tutto il genere umano è genere umano. […] Uno perseguita e uno è perseguitato; e genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato. Uccidete un uomo; egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato, un affamato; è più genere umano il genere umano dei morti di fame. […]
L’uomo Ezechiele disse: “Ricordati che noi non soffriamo per noi stessi ma per il dolore del mondo offeso” (Vittorini 1966, pp. 100, 138).
Il film si arresta, necessariamente, alla superficie del visibile; anche nei dialoghi, solo in parte ripresi dal romanzo e semmai rinfoltiti per aggiungere linearità al rapporto controverso tra Enne 2 e Berta (Monica Guerritore) [figg. 3-4]. Un amore interrotto, recuperato, rinviato negli anni difficili della guerra, che Orsini condensa nella dialettica degli sguardi e dei silenzi sul volto degli attori, dai finestrini del tram in corsa, nella penombra della nuda stanza-rifugio, dai margini della piazza che espone oscenamente il corpo dei morti.
Quello che era appena accennato e sospeso nella pagina scritta diventa snodo portante nella sceneggiatura: Berta è sposata da un anno a un altro uomo e la si sente giustificare con foga questa scelta dovuta alla solitudine in cui Enne 2 l’ha costretta, per poi addirittura vederla, in una breve sequenza melodrammatica, mentre spiega al marito sepolto sotto le coperte che deve capire e non piangere, perché con ‘lui’ è diverso.
Ma a parte la discutibile soluzione finale, aggiunta al testo di Vittorini, che vede il protagonista, identificato e braccato nel suo nascondiglio sui tetti, lanciarsi dalla finestra imbottito di dinamite per abbinare il sacrificio-suicidio alla vendetta sul persecutore fascista sottostante (Cane Nero, un misurato Renato Scarpa), sembra che Orsini abbia un po’ smarrito in corso d’opera la complessità del dibattito interiore, esistenziale e filosofico, che attraversava il romanzo, il suo significato più profondo che poteva illuminare, come forse il regista avrebbe voluto, anche i militanti confusi degli anni Settanta.
Un misterioso vecchio, incontrato da Berta su una panchina del parco, la confortava dicendo che non bisognava piangere per i morti, piuttosto imparare «quello per cui sono morti». «“La liberazione?”, disse Berta. […] “Di ognuno di noi”, rispose. […] “E il nostro paese? E il mondo?”. “Si capisce”, il vecchio rispose. “Che sia di ognuno, e sarà maggiore nel mondo”» (Vittorini 1965, pp. 102-103).
Ma con l’incanaglirsi dello scontro e l’accumulo dei morti dalle due parti, l’autore sentiva di dover intervenire di nuovo, in prima persona, chiedendosi e chiedendoci se accanto all’uomo offeso nella sua dignità non vi fosse anche altro, di più endemico:
Ma l’offesa in se stessa? È altro dall’uomo? È fuori dall’uomo? Noi abbiamo Hitler oggi. E che cos’è? Non è uomo? Abbiamo i tedeschi suoi. Abbiamo i fascisti. E che cos’è tutto questo? Possiamo dire che non è, questo anche, nell’uomo? Che non appartenga all’uomo? […]
Noi presumiamo che sia nell’uomo soltanto quello che è sofferto, e che in noi è scontato. […] Ma l’uomo può anche fare senza che vi sia nulla in lui, né patito, né scontato, né fame, né freddo, e noi diciamo che non è l’uomo. […] E chi ha offeso che cos’è? Mai pensiamo che anche lui sia l’uomo. Che cosa può essere d’altro? Davvero il lupo? (pp. 161, 167).
Interrogativi che appena qualche anno più tardi si sarebbe posto anche Primo Levi: Se questo è un uomo...
Bibliografia
I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964.
M. Manciotti, A. Viganò (a cura di), La Resistenza nel cinema italiano. 1945-1995, Genova, Istituto Storico della Resistenza in Liguria, 1995.
E. Vittorini, Conversazione in Sicilia [1941], introduzione di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1966.
E. Vittorini, Uomini e no [1945], Milano, Mondadori, 1965.