2.4. Vittorini e I millenni illustrati

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  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

Volumi racchiusi talvolta in cofanetti ornati da illustrazioni a colori e impreziositi al loro interno da materiale iconografico fuori testo, rilegature cucite, a filo refe, fregi o caratteri in oro sul dorso, eleganti copertine telate: sono queste le caratteristiche di alcune edizioni della collana einaudiana I millenni, nata nel 1947 sotto la direzione di Cesare Pavese e presentata al pubblico dei lettori attraverso una pregiata veste tipografica.

La serie raccoglie l’eredità dei Giganti, collana d’anteguerra di cui viene realizzata nel 1942 un’unica uscita, Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, e ospita una variegata selezione di classici della letteratura mondiale di tutti i tempi, dalle raccolte di novelle e di fiabe e dal monumentale Parnaso italiano curato da Carlo Muscetta fino ai capolavori della letteratura antica, russa o cinese. L’apparente assenza di un unico nucleo generatore e la mancanza di un unico percorso contenutistico si riflettono nel principio di inclusione dei testi, tutt’altro che univoco. Come testimonia il verbale editoriale del 9 novembre 1949, tra la collezione dei Millenni e le affini Universale e Narratori stranieri tradotti, il «criterio di collocazione è elastico» e tale da essere demandato a una «decisione caso per caso» (Munari 2011, p. 74). Al consapevole diniego di rigidi steccati nelle linee editoriali si accompagnano i differenti punti di vista di volta in volta adottati dai consulenti nel corso delle discussioni sulla collana, che sfugge ai tentativi di definizione nella misura in cui, paradossalmente, si rende riconoscibile anche, e soprattutto, in virtù del suo prestigio culturale. Alla ritrosia di Pavese di includere i contemporanei o di procedere a una loro pubblicazione nella serie solo quando abbiano raggiunto un certo grado di ‘classicità’, abbiano cioè inciso un segno sulla loro epoca (cfr. Mangoni 1999, p. 464), fa da pendant, in fase decisionale, l’eloquente assenso di Calvino all’attribuzione della Vita di Benvenuto Cellini all’Universale, «perché mancherebbe, nel caso del Cellini, quell’elemento di “riscoperta” che è presupposto per l’inclusione di un classico nei “Millenni”» (Munari 2011, p. 447).

Eppure, a fronte di una programmatica eterogeneità di intenti e di proposte, uno sguardo al catalogo della collana restituisce l’apporto dei singoli collaboratori e lascia emergere in controluce le tracce del loro operato. La presunta neutralità viene meno se perlustrata, ad esempio, alla luce dell’importanza che hanno rivestito per la formazione di Pavese autori come Hemingway, Whitman, Omero, tutti a pieno titolo inclusi tra le prime uscite dei Millenni, o se si pongono in relazione la serie delle fiabe, dai fratelli Grimm e Andersen fino alle straordinarie Fiabe italiane di Calvino, e il sostegno al genere dato da Natalia Ginzburg. Allo stesso modo, la via aperta dalle Mille e una notte, pubblicate con la curatela di Francesco Gabrieli alla fine del 1948 come edizione strenna, inaugura un percorso di dialogo tra immagini e testi che non tarderà a mostrare il suo debito nei confronti del talento illustrativo di Elio Vittorini.

Reduce da precedenti esperienze editoriali già modernamente articolate intorno al connubio tra sezioni verbali e apparati iconografici – basti pensare alla collaborazione con Bompiani e alla ideazione nei primi anni Quaranta della collana illustrata Pantheon – lo scrittore siciliano non è estraneo alle modulazioni formali e ai circuiti ermeneutici generati dall’incontro tra parole e immagini, e nella seconda metà del decennio arriva ad occuparsi per Einaudi della ricerca del materiale illustrativo per le copertine di collane di narrativa come I coralli, nonché per alcuni Millenni, tra i quali, verosimilmente, proprio quelle Mille e una notte che hanno nutrito l’immaginario esistenziale e letterario del Vittorini romanziere. Del resto, la responsabilità del «settore illustr.[ativo]» per la sofisticata serie einaudiana è esplicitamente attestata anche dal Consiglio editoriale del 12-13 gennaio 1949 (Munari 2011, p. 64) e non è circoscritta alle sole edizioni direttamente curate da Vittorini.

Sul solco tracciato dalla raccolta di novelle orientali, dunque, nel 1949 viene pubblicato, con ventitré tavole a colori, Il Decameron di Boccaccio [fig. 1]. La cura del testo critico è affidata a Giuseppe Petronio, la prefazione e l’allestimento dell’apparato illustrativo, costituito dalla riproduzione di opere di Giotto e di pittori di area toscana, tra i quali Taddeo Gaddi, Andrea Bonaiuto e Simone Martini, pertengono invece alla competenza e al lavoro di Vittorini. L’introduzione viene pubblicata a firma dell’«Editore», ma la mano dell’intellettuale siracusano è garantita, oltre che dalla ripresa dello scritto in Diario in pubblico (Vittorini 2016, pp. 223-224), anche da un riferimento a un’imminente spedizione del «testo prefazione Decam.[eron]» in una lettera dell’ottobre 1949 a Natalia Ginzburg (Vittorini 1977, p. 274) e dalla presenza, tra le carte del Fondo Vittorini conservate presso il Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano, di una copia dattiloscritta; nella sua brevità, essa rappresenta la chiave di volta non solo dell’edizione dell’opera di Boccaccio nella lettura offerta da Vittorini, ma anche di alcuni aspetti comuni all’intera collezione dei Millenni:

 

noi pubblichiamo il grande libro senza alcun commento, ignudo, su pagine che non lasciano ricordare nemmeno quanto ne scrisse il De Sanctis, e con illustrazioni qua e là che piuttosto aiutino a individuare l’accento grazie al quale la realtà di un’epoca può oggi apparire favolosa ma insieme nostra contemporanea (Vittorini 2008, p. 556).

 

L’intenzione di non fornire ai lettori un esemplare filologicamente erudito, rivolto piuttosto a un vasto pubblico, sì colto ma non necessariamente specialista, viene rispecchiata, ancora una volta, dai confronti interni al gruppo Einaudi, che in una riunione del maggio 1951 si mostra pressoché concorde nel limitare le parti introduttive ad una essenziale presentazione del testo e sembra andare incontro alla posizione di Vittorini, il quale ritiene che le prefazioni «debbano essere tali da non frapporre alcun velo tra il lettore e l’opera» (Munari 2011, p. 257). Se uno scarto critico ed ermeneutico è previsto nella confezione dei volumi, esso è affidato alle interazioni tra le componenti verbali e il linguaggio figurativo, ai fecondi attriti semantici posti in essere dai riverberi tra i testi privi di note o commenti e i frammenti visivi, a tal punto che «sovente un accostamento tra uno scrittore e un gusto figurativo preesistente vale un intero saggio critico» (Antologia Einaudi 1948, p. 225).

‘Squisitamente’ vittoriniana, invece, è la validità dei classici coniugata al presente, l’assunto in base al quale I millenni debbano essere «quei libri di tutti i secoli che conservano, o si presume che conserveranno inalterato il loro valore di contemporaneità» (Munari 2011, p. 257); così come grondante di una tipica postura sperimentale è la formulazione del «corrispettivo visivo» di Boccaccio (Vittorini 2008, p. 556), la ricerca di un analogon pittorico che possa rendere percepibile un principio di conformità tra testo e illustrazioni. Nel caso dell’autore di Certaldo, l’equivalente visivo viene individuato nell’arte di Giotto; sebbene la contrapposizione tra «soggetto sacro» dell’artista e «soggetto profano» di Boccaccio abbia poi indotto a non assolutizzare la presenza del pittore toscano (ivi, p. 557), è proprio nella riproduzione del particolare di uno dei suoi affreschi che è possibile rinvenire, a titolo esemplificativo, le connotazioni del peculiare modo di operare dell’illustratore Vittorini. Sfogliando il volume, intercalato alla terza novella dell’ottava giornata si scorge un particolare delle Nozze di Cana (1303-1305), segmento del ciclo della Cappella degli Scrovegni di Padova [fig. 2]. In corrispondenza della beffa perpetrata ai danni del personaggio sempliciotto di Calandrino, caduto nella convinzione di essere diventato invisibile, lo sguardo si posa sul dettaglio raffigurato dal maestro di mensa colto nell’atto di assaggiare l’acqua appena mutata in vino, e dal ragazzo al suo fianco; e la lettura procede rinfocolata dalla risemantizzazione proiettata sull’immagine a contatto con il testo, di cui comunque l’illustrazione intende rappresentare la «corrispondenza […] esteriore, anche di soggetti, anche ambientale, perché il lettore ne abbia un aiuto diretto e inequivocabile» (ivi, p. 557). Avvezzo a ‘resecare’ con le forbici fin dai tempi della collaborazione con Milano sera e della direzione del Politecnico, a ricercare in concreti accostamenti verbo-visivi significati che prescindono dai codici espressivi considerati singolarmente, lo sguardo di Vittorini lavora sul dettaglio e lo decontestualizza, estendendo anche ai Millenni quella particolare maniera di procedere acutamente messa in luce da Giuliano Maroccini in relazione alle sovraccoperte illustrate di Corona, dove «molti dei dipinti presi a prestito per illustrare i volumi sono […] il frutto di arditi tagli fotografici» e dove «le inquadrature sono quelle di un istintivo occhio fotografico che percepisce e singolarizza particolari che allo svagato sguardo comune sfuggono del tutto, assorbiti dalla visione complessiva» (Maroccini 2015, p. 73).

L’attenzione al particolare ritorna anche con l’Ariosto dell’Orlando furioso, curato da Vittorini e dato alle stampe, in tre volumi e ventisette tavole a colori, nel 1950 [fig. 3]. A differenza del Decameron, dove venivano riportati in calce all’indice soltanto l’autore e l’ubicazione delle opere, adesso i crediti delle illustrazioni appaiono ordinatamente inseriti in un sommario apposito, che riporta anche i versi a cui le immagini vengono associate. Non si tratta però, come si potrebbe supporre, dei segmenti testuali topologicamente affiancati ai frammenti figurativi, ma di inserti lirici trascritti sul retro delle pagine illustrative e atti a svolgere la funzione di fulminee didascalie, creando percorsi di lettura paralleli rispetto alla successione dei canti. Un valido esempio del rilievo assunto delle componenti paratestuali è rappresentato dall’unica opera del Mantegna presente tra i versi dell’Orlando furioso. Impegnato nel tentativo di risalire alla «radice della […] finzione, dove poeta e pittori hanno un comune umore» (Vittorini 2008, p. 578), Vittorini opta per una costellazione di artisti (inclusi i ferraresi Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole de Roberti) e per una selezione di istanti di vita cortigiana tra i quali un particolare del Ritorno dalla caccia di Mantegna [fig. 4], appunto, che diviene in grado di cogliere un momento culminante, risolto nell’accostamento tra «il più bel cavallo della pittura italiana e il più famoso della letteratura» (ivi, p. 577). Ad illuminare il potenziale interpretativo del dettaglio del signorile cavallo grigio dell’affresco di Mantova, interviene il verso «Fugge Baiardo alla vicina selva» che, rinviando all’episodio del duello tra Rinaldo e Gradasso e alla contesa per il destriero, funge da ‘prolessi visiva’ del canto XXXIII, collocato addirittura nel volume successivo.

Frutto di un viaggio in Veneto compiuto da Vittorini insieme a Giulio Bollati (cfr. Munari 2011, p. 269) – il quale succederà allo scrittore nella ricerca del materiale illustrativo per I millenni – è l’apparato iconografico che correda i quattro volumi delle Commedie di Goldoni, pubblicati a cura del Nostro come strenna del 1952 [fig. 5]. Questa volta sono gli scorci della città lagunare dipinti da Antonio Canaletto e da Francesco Guardi, ma soprattutto i bozzetti quotidiani di Pietro Longhi a prestare colori, forme, personaggi al «corrispettivo visivo» della straordinaria rappresentazione umana e sociale offerta dal commediografo del Settecento (accostata al frontespizio del primo volume è non a caso una riproduzione della celebre Caccia in laguna [fig. 6]). Sebbene Vittorini, nella nota introduttiva, non manchi di soffermarsi a ragion veduta sul divario esistente tra il pittore veneziano, tra il suo tratto elargito con bonomia sulla gente e i luoghi della sua città, e la maggiore complessità della ricerca goldoniana – motivando il ricorso all’artista con l’obiettivo di «dare un riferimento figurativo delle particolarità ambientali (casalinghe, settecentesche, veneziane) entro a cui lo scrittore individuò i filoni della sua materia» (Vittorini 2008, p. 655) – a suggellare la fonte da cui sgorgano tanto l’ispirazione figurativa di Longhi quanto l’estro letterario di Goldoni concorrono le stesse parole di quest’ultimo, che nel 1750 dedica al suo illustre contemporaneo l’eloquenza di un’apostrofe. «Longhi, tu che la mia Musa sorella / chiami del tuo pennel che cerca il vero» recita il sonetto (Goldoni 1955, p. 117), rinvigorendo l’efficacia di una spregiudicata quanto scrupolosa operazione editoriale.

 

Bibliografia

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