«I am afraid I might be an inadequate artist». Inizia così una conversazione tra ELIZA, un software di intelligenza artificiale creato da Joseph Weizenbaum (AI Laboratory, MIT) tra il 1964 e il 1966, e un suo paziente, umano. Inizialmente sviluppato per parodiare la predicibilità delle risposte di un terapeuta rogersiano, ELIZA ha attivato invece un processo inaspettato: molte delle persone che hanno interagito con questo antenato del moderno OpenAI, compresa la segretaria dello stesso Weizenbaum, si sono presto improvvisate in intime confessioni, attribuendo così implicitamente umanità al primo Chatbot della storia. Questo fenomeno, che parla del nostro bisogno di essere ascoltati più che della nostra fiducia nella scienza, ha preso il nome di ‘effetto ELIZA’. Poco tempo dopo Masahiro Mori parlava di uncanny valley, rimandando al celebre saggio di Freud sull’unheimlich e descrivendo un andamento oscillante degli uomini nei confronti delle macchine antropomorfe: oltrepassata una certa soglia di realistica somiglianza con la figura umana, esse cessano di essere rassicuranti, heimlich appunto, e diventano spaventose. Dagli anni Settanta a oggi molte cose sono avvenute: per esempio, nel giugno 2022 Blake Lemoine, l’ormai ex-ingegnere di Google, ha attribuito una coscienza a LaMDA, il ChatBot a cui stava lavorando, ma, se andiamo a tempi ancora più recenti, è di pochi giorni fa la notizia della creazione di Hal s5301, il primo robot umanoide che respira, suda, si muove: è stato prodotto da Accurate e Gaumard Scientific per essere interrogato e curato dagli aspiranti medici del Centro di simulazione medica e addestramento avanzato (Csmaa) dell’Università di Trieste.

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Rappresentare artisticamente il perturbante, o per essere più precisi quel sentimento commisto di familiarità ed estraneità che Freud chiama Unheimliche, è una questione che porta a ridefinire la relazione tra la percezione psichico-corporea della realtà e il raggio d’influenza dell’inconscio; e quindi, in ultimo, a (de)strutturare le ragioni dell’immaginario. In questa direzione si muove la ricerca espressiva di Laura Fortin che esplora, per mezzo del disegno, nevrosi e inquietudini di un sentire profondamente contemporaneo. Nello specifico l’artista, la cui poetica denota alcune tangenze con la temperie della dark art, pone al centro delle proprie opere una linea d’ombra tra corpo e mente, tra coscienza sensoriale e interpretazione intellettiva, che non di rado si risolve nella raffigurazione di soggetti difformi dalla norma codificata, che perciò non sarebbe lecito mostrare, e anzi andrebbe rimosso: diciamo pure un eccesso, uno scarto.

Nero residuo, accolto nella raffinata collana d’arte de Le Farfalle (2022), non fa eccezione rispetto a quanto detto finora. Il volume consta di quattordici disegni di Fortin – il cui numero parrebbe richiamare una personale ‘via crucis’ di un corpo-psiche femminile ferito – e da altrettanti testi poetici di Roberto Deidier, interlocutore idealmente «all’altro capo» (come titola l’ultimo libro edito per Lo specchio Mondadori) che raccoglie l’implicita richiesta di dare voce al dolore e al disagio dell’artista. Il lavoro di Deidier si presenta dunque come la traduzione poetico-verbale del perturbante di Fortin, ovvero della cifra stilistica di Nero residuo volta a una rappresentazione-ossessione della corporeità femminile che rinnega le proporzioni naturalistiche poiché la realtà, qui, coincidendo con il corpo-mente di chi disegna, è un luogo di estraneazione e di minaccia.

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«Credo che una delle descrizioni più belle e al tempo stesso più angosciose dell’andare al cinema – voglio dire fisicamente, voglio dire del camminare fra le nebbie, le luci fioche, i radi passanti e le saracinesche abbassate di una cittadina del Nord, per rifugiarsi nel tepore e nel biancore di un cinematografo, dove sembra convergere tutta la vita residua della cittadina, a parte quella che si consuma, misteriosa e prevedibile, dietro le persiane delle case private – si trovi verso la fine degli Occhiali d’oro: parlo del testo, non certo del film» (p. 281). Così scrive Guido Fink all’inizio di un saggio dedicato al complesso rapporto fra Giorgio Bassani e il cinema. Incipit di sfolgorante bellezza formale, il brano aiuta implicitamente a comprendere le due principali ragioni della curatela di Alessandra Calanchi e Paola Cristalli del volume La doppia porta dei sogni, recentemente edito dalla Cineteca di Bologna, che raccoglie ventuno scritti redatti da Fink fra il 1977 e il 2001. Nello specifico, la selezione è stata effettuata sulla poderosa eredità di saggi che la vedova dello studioso, Daniela Sani, ha donato proprio alla Cineteca di Bologna alcuni anni fa.

In primo luogo, come testimonia il passo citato, emerge la volontà delle curatrici di rendere omaggio alla nota capacità di Fink di trasformare la riflessione sul cinema in un dialogo costante con altri universi culturali, a partire da quello letterario, ma senza mai escludere la possibilità di incursioni in terreni tradizionalmente meno battuti. Nelle pagine introduttive, Alessandra Calanchi pone appunto l’attenzione sulla natura fortemente prismatica della scrittura finkiana. Attraverso variegati percorsi – «cinema e letteratura, la screwball e la sophisticated comedy, il film yiddish e gli ebrei nel cinema italiano, il New Deal, il melodramma, il cinema ‘ferrarese’ di Antonioni e di Bassani, l’onirismo, la fantascienza» (p. 11) –, gli interventi scelti in collaborazione con Paola Cristalli restituiscono un mosaico di intrecci che supera i confini fra le diverse discipline. Un mosaico che, come si osserva sempre nell’introduzione, sorprende se consideriamo che che molti di questi scritti risalgono a decenni in cui la fruizione filmica era limitata soltanto al cinema o alla televisione.

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«Un’immagine dialettica»: si apre così, nell’evocazione della stillstand benjaminiana, il volume Vedere, Pasolini (Ronzani, 2022) curato da Andrea Cortellessa e Silvia De Laude, trasposizione cartacea del numero 181 di Engramma del maggio 2021. Un volume che si aggiunge al coro dei «fescennini centenari» (p. 13) nel segno della visività o, meglio, della «fulgurazione figurativa»:[1]Vedere, Pasolini, dove Pasolini è oggetto del vedere, un vedere che si fa verbo, critica, ma anche soggetto, colui che vede, che si fa vista, immagine, luce. Una luce che squarcia le tenebre della «nuova preistoria»[2] nel tentativo costante di mostrare la realtà, il «cinema in natura»,[3] le diapositive luminose della vita al di là dell’oscurità del conformismo borghese e neocapitalista. È in questo senso che l’intera opera pasoliniana può essere considerata come un’‘immagine dialettica’, come un «montaggio»[4] continuo di materiali della realtà che si concretizza in ipostasi mobili, in immagini appunto, nelle quali convergono e si riattivano traiettorie culturali vicine e lontane, dal mito alla contemporaneità politica, dalla cultura figurativa seicentesca alla critica letteraria del Novecento. Ed è sempre in questo senso che Vedere, Pasolini può essere interpretato come la fotografia di un soggetto in movimento, come una rappresentazione attiva in cui le direzioni della poiesis pasoliniana convergono da tempi multipli, da prospettive plurime (e talvolta antinomiche), legate dal fil rouge della visività.

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Nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini la nutrita serie di pubblicazioni, di iniziative accademiche, di eventi artistici – tra mostre, spettacoli teatrali, reading – organizzati in Italia e non solo, ha confermato la vitalità della fortuna critica di un autore che, dal secondo Novecento in cui si colloca, evidentemente continua a intercettare il nostro orizzonte d’attesa. Ma la figura di Pasolini, in realtà, la sua indipendenza da ogni forma di potere precostituito, il suo esistere così fatalmente caratterizzato da un corpo in equilibrio tra arte e vita, procedono persino oltre la mera ricezione dell’opera di uno scrittore e si legano a doppio filo all’attrazione esercitata da una personalità affascinante, ‘eccedente’. Difficile conciliare l’analisi rigorosa di una produzione letteraria e, in progressione diacronica, dei contesti culturali nei quali essa si situa con i concetti imponderabili che ruotano intorno al carisma e alle esperienze personali di un autore. Eppure, il libro di Gian Carlo Ferretti Pasolini personaggio. Un grande autore tra scandalo, persecuzione e successo (Interlinea, 2022) riesce a unire le due istanze, giovandosi dello sguardo di un critico letterario – nonché studioso di lungo corso di Pasolini – che ha attraversato la seconda metà del Novecento e che, prima della sua scomparsa, avvenuta di recente, ha forse voluto fare un’ultima volta i conti con il poeta.

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«Non ha senso chiedersi se Montale o Zavattini o Pasolini siano veramente dei pittori, è chiaro che non lo sono. È invece interessante vedere quali siano il posto e la funzione della figurazione nel quadro delle loro attività preminenti. Quant’acqua porta al mulino della loro poesia o narrativa, o, magari, cinematografica?».[1] Così scriveva nel 1978 Giulio Carlo Argan nel catalogo della mostra Pier Paolo Pasolini. I disegni 1941/1975 che, a pochi anni dalla morte dello scrittore, ne riuniva per la prima volta i lavori grafici e pittorici. Oggi, a oltre quarant’anni di distanza, la mostra Pasolini pittore, allestita presso la Galleria d’Arte Moderna di Roma (29 ottobre 2022-16 aprile 2023), a cura di Silvana Cirillo, Claudio Crescentini e Federica Pirani, ha il merito di presentare nuovamente nella sua organicità il percorso compiuto da Pasolini come pittore autodidatta, e parallelamente di ricostruire i legami da lui intessuti con i maggiori artisti e studiosi dei suoi tempi, fra cui emergono con evidenza le figure di Roberto Longhi e di Fabio Mauri.

Di fronte alle pitture e ai disegni del poeta ora esposti negli spazi museali di via Francesco Crispi, prova di un lungo percorso artistico compiuto all’insegna del figurativismo, le domande poste da Argan nel 1978 risultano ancora attualissime, fra tutte: quale ruolo ha assunto l’arte moderna nella definizione dell’immaginario visivo di Pasolini? E perché gli scrittori, per quanto avanzato sia il loro gusto letterario, quando disegnano ostinatamente rifuggono dal non-figurativo? Le spiegazioni date dallo storico dell’arte vanno oltre le vicende che vedono Pasolini prendere una chiara posizione a favore del realismo nello scontro che dal 1948 opponeva i sostenitori di questo indirizzo politico-culturale ai difensori dell’astrattismo. Egli ne fa piuttosto una questione di metodo: il fatto è che, scrive Argan, la ricerca astratta vuole essere fondazione di linguaggio, mentre la grafica e la pittura, così come vengono intese da alcuni scrittori, si pongono come un esercizio utile a restituire consistenza visiva e peso di materia al codice linguistico. Per il critico d’arte, dunque, Pasolini utilizzando il disegno e la pittura con un intento narrativo non può che rivolgersi alla figurazione, funzionale a esplicitare visivamente qualcosa di «già verbalmente (e sia pure mentalmente) descritto».[2] E questo dipingere da poeta, come osservano al contempo Mario De Micheli e il pittore Giuseppe Zigania nello stesso catalogo del 1978, appare con evidenza anche allo spettatore che oggi si addentra nelle sale della mostra. Attraverso un chiaro e lucido allestimento, il percorso espositivo prende avvio da un primo nucleo di dipinti e disegni degli anni Quaranta, radunati attorno al tema della corporeità, propria e altrui. Questo soggetto, affrontato in ambito letterario e cinematografico da Pasolini, appare in questa sede ben messo a fuoco anche attraverso il medium della pittura e della grafica. Segue la presentazione di alcune opere – paesaggi, volti, composizioni – realizzate dall’autore durante il suo soggiorno nel paese materno di Casarsa della Delizia, in Friuli, luogo prima di vacanze estive, poi di rifugio durante gli anni della guerra, e infine residenza fissa del poeta sino al 1950.

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Non se ne avrà a male, spero, Francesco Muzzioli, se per iniziare prendo a prestito e a pretesto un passaggio da una sua recente recensione – ‘Il Sanguineti illustrato’, apparsa il 24 febbraio sul blog Critica integrale – per la precisione il luogo dove, dopo aver regalato ai commentatori futuri di Sanguineti un’informazione privata («Commentatori futuri, appuntatevelo: vi potrebbe servire»), aggiunge: «Neanche tanto futuri; perché di commentatori giovani del Sanguineti ce ne sono già vari, per fortuna. E tra essi Chiara Portesine». Rilancio: Portesine non è il futuro, bensì il solido presente. È già il presente perché con il suo lavoro prezioso sugli archivi, che l’ha condotta alla pubblicazione in due volumi delle Poesie edite e inedite di Corrado Costa (Argolibri, 2021) e di un saggio rivoluzionario sul rapporto – davvero una forma emblematica di angoscia dell’influenza – tra i massimi poeti italiani del secondo Novecento (‘Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto: storia di un tributo intermittente’, Italianistica, 1, 2018, pp. 257-282), poi arricchito e approfondito nel recente numero monografico del verri su Zanzotto (‘«Una febbriciattola di lieve paranoia». Varianti “novissime” nella Beltà’, il verri, 77, 2021, pp. 105-117), senza dimenticare un affondo interessante su Emilio Villa (‘«Tarocchi» o «variazioni»? La collaborazione tra Emilio Villa e Corrado Cagli’, Letteratura & Arte, 15, 2017, pp. 189-200), e l’imminente prefazione alla sospiratissima ristampa – la prima dopo la princeps del 1964 – de L’oblò di Adriano Spatola, Portesine ha donato al panorama degli studi sulla poesia della nuova avanguardia e dintorni una gran quantità di nuovo inestimabile materiale e insieme un approccio rigoroso, che sposa con naturalezza il filologico con l’ermeneutico, sebbene di solito si tratti di fratelli nemici o di separati in casa.

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J’ai pensé à Baudelaire, à Paris, à la terre,

à la vieille mélancolie, naguère anglicisée,

maintenant mondialisée. C’est surtout de la fréquentation

des villes énormes, c’est du croisement de leurs

innombrables rapports que naît cet idéal obsédant.

M. Deguy

 

A ciascuna forma di movimento corrisponde una specifica forma di conoscenza.

K. Schlögel

 

 

Manifesto Incerto. Sotto il cielo di Parigi con Nadja, André Breton, Walter Benjamin è il secondo dei nove tomi che compongono quella che è stata definita «l’impresa letteraria di una vita» (così si legge nello stesso risvolto di copertina) scritta e disegnata da Frédéric Pajak. In Italia il volume è stato tradotto da Nicolò Petruzzella e pubblicato nella primavera del 2021 da L’orma editore.

Difficile, e più probabilmente non necessario, è il tentativo di ricondurre l’opera di Pajak entro i confini di un genere prestabilito. Romanzo, anti-romanzo, autobiografia, biografia, memoir, lirica, saggio. A complicare la questione (e l’interpretazione) ci sono poi le immagini, la forma complessa dell’iconotesto. E allora graphic novel o meglio graphic essay?

Volendo mettere da parte gli intenti classificatori si può dire che Manifesto Incerto, e in particolare questo secondo episodio della serie, sia il racconto, la mappatura, del percorso di uno sguardo, quello del suo autore, il quale a sua volta si serve di altri sguardi che lo hanno preceduto per ri-costruire l’immagine di una città, Parigi, che forse non esiste più («Parigi è stata uccisa» si legge a pagina 128), una città che sembra ormai sopravvivere soltanto nella memoria, nella poesia, nelle crepe degli edifici di un tempo nostalgicamente perduto.

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Parrebbe databile all’ultimo decennio un’attenzione finalmente costante a un fenomeno invece assai più di lunga durata qual è il fototesto, sia in quanto oggetto di studio che come definizione, e più annosa la cosa che la parola, se è vero che la prima risale a Georges Rodenbach, Bruges-la-morte (1892), e la seconda a Wright Morris, The Inhabitants (1974). Più di ottant’anni. Il fatto è che per la resistenza teorica diffusa verso gli oggetti ibridi e non classificabili, si è dovuto attendere che il fototesto venisse derubricato da genere letterario a oggetto nella gamma dei mixed media.

Ora il fototesto riceve in Italia una sistemazione teorica in questo volume di Giuseppe Carrara, Storie a vista. Retorica e poetiche del fototesto (Mimesis, 2020), destinato a essere maneggiato a lungo dagli studiosi e dagli studenti, per la completezza e l’apertura dell’informazione sulle teorie, per l’originalità con cui affronta i nodi e propone (provvisorie) soluzioni e definizioni (la ‘retorica’ del sottotitolo), ma pensiamo soprattutto per l’efficacia con cui le teorie e i metodi servono alla lettura di testi disparati (le ‘poetiche’), con l’ambizione di designare un canone del fototesto ma più efficacemente – riconosce infine lo stesso autore – di tracciare percorsi. E testi si dice qui per comodità, non intendendo un ‘enunciato scritto’, perché deve abbandonarsi ormai l’idea gerarchica per cui l’immagine debba servire alla parola. Ed è anzi questo, poi, il dubbio: funzionerebbero i fototesti anche senza immagini? Come mai la parola letteraria ha bisogno delle immagini? Non ha più nel mondo in cui viviamo l’energia di produrre autonomamente immagini (le images, le immagini immateriali che si formano nella mente del lettore, di cui parla W.J.T. Mitchell), che sarebbe poi il mestiere della letteratura?

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