Non se ne avrà a male, spero, Francesco Muzzioli, se per iniziare prendo a prestito e a pretesto un passaggio da una sua recente recensione – ‘Il Sanguineti illustrato’, apparsa il 24 febbraio sul blog Critica integrale – per la precisione il luogo dove, dopo aver regalato ai commentatori futuri di Sanguineti un’informazione privata («Commentatori futuri, appuntatevelo: vi potrebbe servire»), aggiunge: «Neanche tanto futuri; perché di commentatori giovani del Sanguineti ce ne sono già vari, per fortuna. E tra essi Chiara Portesine». Rilancio: Portesine non è il futuro, bensì il solido presente. È già il presente perché con il suo lavoro prezioso sugli archivi, che l’ha condotta alla pubblicazione in due volumi delle Poesie edite e inedite di Corrado Costa (Argolibri, 2021) e di un saggio rivoluzionario sul rapporto – davvero una forma emblematica di angoscia dell’influenza – tra i massimi poeti italiani del secondo Novecento (‘Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto: storia di un tributo intermittente’, Italianistica, 1, 2018, pp. 257-282), poi arricchito e approfondito nel recente numero monografico del verri su Zanzotto (‘«Una febbriciattola di lieve paranoia». Varianti “novissime” nella Beltà’, il verri, 77, 2021, pp. 105-117), senza dimenticare un affondo interessante su Emilio Villa (‘«Tarocchi» o «variazioni»? La collaborazione tra Emilio Villa e Corrado Cagli’, Letteratura & Arte, 15, 2017, pp. 189-200), e l’imminente prefazione alla sospiratissima ristampa – la prima dopo la princeps del 1964 – de L’oblò di Adriano Spatola, Portesine ha donato al panorama degli studi sulla poesia della nuova avanguardia e dintorni una gran quantità di nuovo inestimabile materiale e insieme un approccio rigoroso, che sposa con naturalezza il filologico con l’ermeneutico, sebbene di solito si tratti di fratelli nemici o di separati in casa.
A tutto questo si è aggiunta appunto da qualche mese la monografia «Una specie di Biennale allargata». Il giuoco dell’ecfrasi nel secondo romanzo di Edoardo Sanguineti (Fabrizio Serra, 2021), la quale fa fare letteralmente un salto in avanti, e non piccolo, allo stato dell’arte della critica sanguinetiana nel suo insieme; addirittura potremmo dire alla comprensione dell’autore che fu il più studiato e autorevole tra i Novissimi. Salto divenuto in qualche misura di gruppo se è vero che, proprio mentre scrivo, è uscito un fascicolo monografico di Letteratura & Arte curato dalla stessa Portesine e altri, e dedicato al tema dell’ekphrasis moderna.
Sanguineti fu il più studiato ma ciò non implica che fu sempre il più compreso, né che tutta la sua opera lo fu. Il giuoco dell’Oca, in particolare, oggetto di questa monografia, ricevette attenzioni non solo minori di quanto meritasse, ma anche molto sottodimensionate tanto rispetto all’impegno profusovi dall’autore, quanto rispetto al momento storico-culturale in cui uscì, ossia il 1967, cioè forse l’ultimo anno di presenza indiscussa del Gruppo 63 sull’orizzonte della cultura italiana, prima che il Sessantotto venisse a sovvertire ogni cosa.
Sanguineti lo ripeté un po’ in ogni sede, che a quel libro aveva lavorato con la massima intenzione, e un po’ in ogni sede si crucciò che ciò non fosse stato colto. Soprattutto che i lettori, anche quelli criticamente impostati, professionalmente coatti all’attenzione, vocati o chiamati alla lettura al rallentatore e al microscopio, non avessero messo mano agli strumenti del mestiere. Cosa che, ora, Portesine fa, e facendola ci mostra come bisognava farla. Scardinando, prima di tutto, l’illusione pigra di un testo costruito con larga libertà associativa e fantastica a partire da pochi realia preesistenti, e riportandoci invece alle indicazioni autoriali di funzionamento e di utilizzo, copiosissime, proprio come sulla confezione di un gioco di società assai complesso e rigidamente normato:
Anche il paratesto che dovrebbe invitare a un utilizzo aleatorio del libro si disvela, insomma, un lucido organigramma in cui le azioni delle pedine vengono ricalcate dalle prescrizioni riprodotte sulla scatola del gioco reale. […]
A differenza dei veri e propri esperimenti combinatori, il tasso di casualità e di ‘autogestione’ dell’atto di lettura viene prepotentemente incrinato dal protagonismo deittico dell’autore, che gesticola incessantemente in direzione del lettore mostrando a dito il trucco ecfrastico che origina ciascuna casella (pp. 24, 25).
Non di solo ecfrasi si tratta, però, né solo di pittura. Il «trucco ecfrastico» è l’innesco per una più complessa operazione di illustrazione della cultura e dell’immaginario.
Oltre a edificare una pinacoteca enigmistica, Sanguineti consegna al lettore il proprio canone interdisciplinare, secondo un discrimine metapoetico (e non meramente combinatorio) dei materiali giustapposti sul tabellone (p. 62).
Illustrazione e canone di chi scrive, ovviamente, ma anche dei ‘tempi’ («noi che riceviamo la qualità dai tempi»: occorre ricordarselo sempre questo verso; era in Laborintus 1, all’inizio di tutto), tempi che scrivono, letteralmente, insieme allo scrivente, il quale al massimo li decifra.
L’importanza dello studio, dunque, è anche quella di fotografare con precisione una situazione molto circoscritta ma di grande fecondità, vivacissima specie sul versante delle tendenze artistiche, al trivio tra Nuova figurazione, New Dada e Pop Art. Dove si verifica, tra l’altro, come l’insoddisfazione che mosse il giovane Sanguineti, fin dai primi anni Cinquanta, rispetto alla condizione della poesia – quanto meno italiana – orientandolo verso le ricerche formali e teoriche, assai più avanzate, della musica contemporanea e delle arti figurative – e difatti, è noto, le prime dieci sezioni di Laborintus furono pubblicate nel 1951 su Numero, rivista fiorentina di pittura – pare si fosse prolungata e replicata rispetto alla situazione della prosa, proprio nel periodo segnato dal convegno palermitano del Gruppo sul romanzo sperimentale.
Stando alle ricerche di Portesine, la folla di presenza che abita e in senso stretto genera – nella forma dello stimolo a una attività creativamente ekphrastica – Il Giuoco de L’oca, è una folla di artisti e di immagini quasi esclusivamente contemporanee: Mario Ceroli, Michael Andrews, Valerio Adami, il Gruppo 58, Robert Rauschenberg, Enrico Baj, John Heartfield e Kurt Schwitters, Mimmo Rotella, Boris Lurie, Öyvind Fahlström, Allan Kaprow, Magdalo Mussio, più gli studi di Gillo Dorfles sulla pubblicità, e qualche outsider di varia natura: le edizioni di Jung (che già erano state utili per Laborintus e per Capriccio italiano), le stampe popolari, Hieronymus Bosch, e, non davvero ultima, l’immagine di Marilyn Monroe che mercurialmente si muove tra fotografie, rotocalchi, film, pittura. A ognuno e ognuna, un capitolo dedicato, con la ricostruzione implacabile, precisa fino al millimetro, di come l’imago qui si converta in verba, comprese le smarginature, i ritagli, gli errori – di solito artefatti, introdotti ironicamente – di lettura o interpretazione. L’operazione investigativa è mirabile e talvolta stupefacente, ma più utile ancora a me pare l’incremento di comprensione di una serie di fenomeni dell’epoca, epitomati dall’uomo-Sanguineti e dall’opera Giuoco.
Il Giuoco rappresenta quasi un’istantanea ritagliata dal continuum della vita interdisciplinare della Neoavanguardia, in cui il ‘travestimento’ di un manifesto di Rotella, ad esempio, si inserisce nello spazio tra una visita collettiva a una sua mostra e la discussione serale sugli sviluppi contemporanei del collage (p. 129).
E ancora (con un voluto anacronismo che preleva il celeberrimo sintagma di Postkarten 49 e lo retrocede a questi anni Sessanta, dove la poetica del «piccolo fatto vero» era ancora in latenza, ma già operativa, e riguardava, notazione assai giusta e ben più interessante, non il solo Sanguineti):
Giustapporre il già scritto (e il già visto) ‘trovato’ sulla superficie di un quotidiano esperito in forma di collage significava, in fondo, riprodurre in forma di paradossale realismo lo spaccato di un’avventura neoavanguardista costitutivamente fondata sull’assemblaggio di informazioni e contenuti “freschi di giornata” (p. 65).
Anche Gualberto Alvino, sul magazine online di Treccani, ha parlato senza remore di «capitale importanza» del saggio. Aggiungerei, in chiusa, che se la delusione fu tanta, da parte di Sanguineti, nel vedere non compreso il suo lavoro, tanto da abbandonare il cantiere del romanzo, forse oggi, dopo aver letto Portesine, comprendiamo meglio perché il terzo e ultimo pannello di quel trittico di prose fu Il giuoco del Satyricon, ossia la pseudo-traduzione da Petronio che chiudeva, con una sorta di colpo di coda inatteso, il cerchio: riprendendo quel Petronio di cui già Capriccio italiano era evidentemente debitore, e traducendolo con il già tipico stile del «sotto parlato oniroide», Sanguineti operò l’ultimo e più radicale dei suoi esercizi di ekphrasis, producendo un testo che fosse tutto ‘appoggiato’ su un testo – non su una immagine, stavolta – preesistente.