Frédéric Pajak, Manifesto Incerto. Sotto il cielo di Parigi con Nadja, André Breton, Walter Benjamin

di

     

J’ai pensé à Baudelaire, à Paris, à la terre,

à la vieille mélancolie, naguère anglicisée,

maintenant mondialisée. C’est surtout de la fréquentation

des villes énormes, c’est du croisement de leurs

innombrables rapports que naît cet idéal obsédant.

M. Deguy

 

A ciascuna forma di movimento corrisponde una specifica forma di conoscenza.

K. Schlögel

 

 

Manifesto Incerto. Sotto il cielo di Parigi con Nadja, André Breton, Walter Benjamin è il secondo dei nove tomi che compongono quella che è stata definita «l’impresa letteraria di una vita» (così si legge nello stesso risvolto di copertina) scritta e disegnata da Frédéric Pajak. In Italia il volume è stato tradotto da Nicolò Petruzzella e pubblicato nella primavera del 2021 da L’orma editore.

Difficile, e più probabilmente non necessario, è il tentativo di ricondurre l’opera di Pajak entro i confini di un genere prestabilito. Romanzo, anti-romanzo, autobiografia, biografia, memoir, lirica, saggio. A complicare la questione (e l’interpretazione) ci sono poi le immagini, la forma complessa dell’iconotesto. E allora graphic novel o meglio graphic essay?

Volendo mettere da parte gli intenti classificatori si può dire che Manifesto Incerto, e in particolare questo secondo episodio della serie, sia il racconto, la mappatura, del percorso di uno sguardo, quello del suo autore, il quale a sua volta si serve di altri sguardi che lo hanno preceduto per ri-costruire l’immagine di una città, Parigi, che forse non esiste più («Parigi è stata uccisa» si legge a pagina 128), una città che sembra ormai sopravvivere soltanto nella memoria, nella poesia, nelle crepe degli edifici di un tempo nostalgicamente perduto.

La narrazione è costruita come una flânerie verbo-visuale che coinvolge non soltanto la dimensione dello spazio ma anche quella del tempo, l’esterno come l’interno, attraverso uno scardinamento della linearità cronologica degli eventi riportati, combinando ricordi, citazioni e disegni, questi ultimi a loro volta non di rado costituiti da riproduzioni a china di immagini preesistenti. L’organizzazione del racconto, già complicata dal suo svolgersi attraverso due codici, ricalca, doppia, l’oggetto stesso del suo dire, ovvero il perdersi nella città. La specifica modalità scopica (il vagabondare del flâneur) adottata dal narratore e dai suoi personaggi ha una evidente ricaduta sulla forma della scrittura, attraverso un meccanismo, più o meno consapevole e ricercato, di omologia strutturale.[1] Scrittura e immagini creano così una sintassi in grado di restituire non solo la visione frammentaria e dinamica, insieme dispersiva e analitica, propria del penseur-promeneur, ma anche i bagliori analogici che queste passeggiate metropolitane sono grado di suscitare. Parigi, con le sue strade, le sue piazze, le sue architetture, è il «sussidio mnemotecnico»,[2] sorta di Baedeker del ricordo, dal quale scaturisce questo racconto-saggio fatto tanto di verba quanto di imagines.

Nella quasi totalità dei casi i due codici convivono all’interno dello spazio della pagina ma senza mescolanze o sconfinamenti di campo e tuttavia contribuendo in egual misura alla creazione dell’opera e dei suoi significati. Nonostante la scelta di un layout relativamente rigido, che vuole che le immagini siano sempre rinchiuse entro i confini di una cornice dalla quale il testo è programmaticamente escluso (esito, forse, di un processo creativo che, come dichiarato dallo stesso Pajak, scinde nettamente i due momenti della scrittura e del disegno),[3] i nessi tra i due media sono invece variabili e complessi. Dalla più esplicita referenzialità (si vedano ad esempio i ritratti), Pajak passa a criteri di ‘montaggio’ analogici di più difficile decodifica, fino alla scelta significativa di non inserire alcuna immagine proprio all’interno dell’unica sezione consacrata ad un pittore, Edward Hopper. La tristezza è un’arte di vivere non è che una lunga ecfrasi dedicata allo sguardo dell’artista americano; qui la matita di Pajak tace e la parola scritta invita il lettore a rievocare le opere in absentia, nella memoria.

Si consideri la suggestiva costruzione verbo-visuale col quale il libro si apre. Prima viene l’immagine: è la lapide, seminascosta dalla vegetazione, del poeta americano Ezra Pound, sepolto nel cimitero monumentale di San Michele, sull’omonima isola, nella laguna di Venezia. Il cammino di Pajak incomincia proprio da qui, nella città che Pound amò, della quale scrisse, e ove scelse di morire. Sotto l’immagine si legge la citazione di un altro poeta, Leonardo Sinisgalli, sul trascorrere del tempo. Il lettore-spettatore è chiamato così a decifrare questa combinazione mediale che ha la funzione di informarci sull’argomento dell’opera, assumendo pertanto valore di soglia, di vero e proprio proemio in forma iconotestuale: poiché proprio la città e la memoria sono i macro-temi portanti del libro.

I personaggi di Pajak, lui compreso, sono tutti degli erranti, sono tutti figli di Baudelaire, e come lui hanno vagato per Parigi, ne hanno cercato la verità per le strade e ne hanno attraversato le notti. Scorrere le pagine di Manifesto Incerto significa ripercorrere i passi del suo autore, il quale ripercorre a sua volta quelli di Benjamin, quelli di Breton con Nadja, quelli di Hohl e compagni, in un cammino tortuoso che riunisce, all’interno di una stessa architettura testuale, il passato col presente, il ricordo autobiografico con la citazione letteraria, la propria vita con la vita d’altri, l’esistenza individuale con la Storia.

La dispersione e la non-linearità dell’iconotesto trovano un corrispettivo nella figura del labirinto, una delle costanti tematiche, metaforiche e strutturali intorno alla quale Manifesto Incerto prende forma e si organizza, mediando, questa, tra le due forze opposte che attraversano la narrazione, centrifuga e centripeta. Essa inoltre ritorna con frequenza a proposito di Benjamin e della sua relazione con la capitale francese, relazione complessa che avrà esito, come è noto, in quell’opera incompiuta e frammentaria che sono i Passages.

Per molto tempo Benjamin è stato incapace di orientarsi nelle grandi città, di distinguere il nord dal sud. Alla fine ha fatto di necessità virtù, e ha imparato a perdersi fra le strade come in mezzo a una foresta. Parigi gli insegna l’«arte dello smarrirsi».
Quei vagabondaggi gli ricordano i labirinti che tracciava sulle carte assorbenti dei quaderni di scuola, e così si identifica con Teseo, perdutosi nel labirinto del Minotauro (pp. 65-66).
 

Pajak ha dichiarato in alcune interviste di sentirsi lontano da Benjamin sul piano intellettuale, di non condividerne molte delle idee, ma c’è una sezione del libro nella quale le loro fisionomie sembrano sovrapporsi tanto che quando l’autore scrive alcune righe a proposito del filosofo tedesco resta il dubbio che stia parlando anche di sé:

Affastellando pagine su pagine, da corpo a una sorta di mercatino delle pulci del pensiero, storie che rivitalizzano la Storia. Cerca nell’Ottocento le risposte agli enigmi del Novecento. Ma perché si rifugia nel passato? Per sfuggire al proprio tempo? […] Se non può vivere coi parigini di oggi, allora vivrà con quelli di ieri, fantasmi fuggevoli che ammantano di nostalgia la parte più profonda del suo animo. Probabilmente è proprio questa sua, parziale, emarginazione dalla vita parigina che lo porta ad immergervisi letterariamente (pp. 111-113).
 

Nel frattempo la regia delle immagini porta avanti una propria narrazione, la quale si interseca col dettato testuale abdicando la referenzialità altrove presente e contemporaneamente ampliandone la semantica. Scene di miseria contemporanea si susseguono secondo una successione quasi cinematografica: per quattro volte compare un uomo, o piuttosto una sagoma nera, riempita di buio, è un mendicante, un invisibile, e come tale ignorato dai passanti. Le immagini ci dicono allora quello che il testo tace, o che lascia solo in parte intuire, ossia che la comunione di Pajak con Benjamin avviene sul piano del riconoscimento di un’esperienza biografica comune, quella dell’emarginazione e della miseria, la quale li affratella a tutti coloro i quali la vita sembra aver ripudiato.

L’ultima sezione di questo libro proteiforme e intricato si intitola Avviso al lettore e inizia e finisce con un doppio ritratto grafico di Benjamin. Narra dei suoi ultimi anni a Parigi, arrestandosi al 1938, anno in cui, come Pajak stesso riporta nella pagina che chiude il volume, l’esule inoltrerà un sollecito al Ministro della Giustizia francese per ottenere quella cittadinanza che mai avrà. Mentre le parole riferiscono gli accadimenti della vita di Benjamin nel loro intreccio con quelli della Storia e coi nomi dei protagonisti della cultura del tempo, fluiscono una dopo l’altra immagini di una natura selvaggia che il bianco e nero di Pajak trasforma in quadri astratti, forse evocazione e anticipazione prolettica (rispetto ai fatti biografici ma non rispetto al testo che li omette) del tentativo di fuga di Benjamin poi tramutatosi in suicidio nella località di Portbou, in Catalogna.

Molte altre ancora potrebbero essere le piste critiche che questo Manifesto invita a seguire. Sia il lettore-spettatore che il critico en titre possono sceglierne una e percorrerla fino in fondo, o possono decidere di abbandonarsi allo smarrimento di una flânerie tutta personale nello spazio e nel tempo del testo, come nelle strade vecchie di una città. Omologia nell’omologia.

 


1 Cfr. M. Cometa, Letteratura e arti figurative: un catalogo, in Contemporanea: rivista di studi sulla letteratura e sulla comunicazione, 3, Serra Editore, Pisa, 2005, pp. 1-15.

2 W. Benjamin, Ombre corte. Scritti 1928-1929, a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 1993, p. 468.

3 Ci si riferisce qui ad un articolo di Christian Rosset apparso su Diacritik nel quale sono riportati alcuni frammenti di una conversazione radiofonica avuta nel 2015 con lo stesso Pajak in occasione dell’esposizione Les Cahiers dessinés a Halle St Pierre a Parigi <https://diacritik.com/2020/09/09/frederic-pajak-variations-intranquilles-manifeste-incertain-9/> [accessed 20.01.2022] e ad un’altra intervista di Matteo Moca per il Tascabile <https://www.iltascabile.com/letterature/frederic-pajak-manifesto/> [accessed 20.01.2022].