Immagini all’Opera. Il Museo Zeffirelli di Firenze*

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Il saggio è un primo stimolo alla riflessione sulle forme e le strategie della museologia d’opera per i musei del XXI secolo attraverso il caso studio del Museo Zeffirelli a Firenze. Esso ripercorre la nascita e gli obiettivi del patrimonio del regista, scenografo e costumista fiorentino, rimessi in ‘opera’ dal 2015 dalla Fondazione Zeffirelli Onlus e dal nascente Centro Internazionale per le Arti e lo Spettacolo realizzato all’interno del Complesso di San Firenze nella città natale. Archivio, museo e scuola, esso lavora oggi in maniera complementare alla trasmissione della sua opera divisa fra cinema, teatro e opera. Partendo dal riconoscimento dei rapporti legati alla cultura visuale dell’artista si analizzano qui le strategie espositive e le attività legate ai percorsi operistici.

This paper aims to stimulate a reflection on the museology of opera during the 21st century through the study case of the Zeffirelli Museum in Florence. The essay analyses the birth and the objectives of the heritage collected by the director, set and costume designer. They are reused since 2015 by the Fondazione Zeffirelli Onlus and the International Centre for the Arts and the Performing Arts, set up inside the Complesso di San Firenze in his hometown. As an integrated archive, museum, and school, it now works on the transmission of his heritage divided between cinema, theatre and opera. For this reason, the analysis starts from the recognition of the visual culture embedded inside the opera paths and exhibition activities of the intermedial museum.

La vita non è che un continuo passaggio di esperienze,

da una generazione all’altra: prima imparare e poi insegnare

a chi viene dopo di noi.

Franco Zeffirelli

1. Dai materiali d’archivio al museo intermediale

Messa in movimento, trasmissione e ricezione di un’esperienza molteplice sono i motivi guida espressi dal regista fiorentino Franco Zeffirelli a proposito della raccolta (durante la sua vita) e della destinazione di una serie di materiali legati alla propria attività e all’arte dello spettacolo in toto. Votandosi a questi principi, ha promosso con forza il riconoscimento di quest’insieme patrimoniale come ‘vivente’, non solo per l’azione di conoscenza storica che esercita nel presente verso il futuro ma, si legge tra le righe del suo pensiero, per la capacità di accogliere e far percepire i caratteri stessi della vita e delle arti.

Dal 2015 parte di questi materiali[1] sono gestiti e rimessi in opera a Firenze dalla Fondazione Zeffirelli Onlus, nata in quell’anno proprio con l’obiettivo di «promuovere la cultura e l’arte, attraverso la tutela e la valorizzazione di beni di interesse artistico e storico».[2] Sulla scorta del pensiero dell’artista, l’istituzione ha destinato i propri spazi all’incontro, lo studio e la produzione artistica attraverso il patrimonio zeffirelliano.

[…] conscio del valore del fondo documentario da lui raccolto e prodotto, Zeffirelli ha sempre voluto che il suo Archivio diventasse il nucleo di un centro di documentazione espressamente dedicato alle arti dello spettacolo, in cui gli studiosi, ma soprattutto gli addetti ai lavori e i giovani, potessero entrare in contatto diretto con materiali tanto preziosi.[3]

Così nella città natale dell’artista, all’interno del Complesso di San Firenze, nel corso del 2015 è stato istituito il CIAS - Centro Internazionale delle Arti dello Spettacolo,[4] che oggi ospita e anima al suo interno un archivio, una biblioteca, un museo, una sala musica da centocinquanta posti che funge anche da spazio di proiezione ed esposizione (nello splendido ex oratorio dei padri filippini caratterizzato da alcuni palchi laterali che ne fanno quasi un teatro), un bookshop, alcune aule dedicate alla didattica (ma tutti gli spazi sono riutilizzati in tal senso), laboratori e un’area ristorativa. In questi spazi si svolgono un insieme di attività formative, artistiche e di progettazione. Le diverse parti, che includono anche la direzione curatoriale, sono pensate come sezioni complementari di uno stesso corpo, sia per gli scambi tra biblioteca, archivio e museo (anche in termini di visite guidate dedicate), sia e soprattutto per gli ulteriori percorsi che fruitori e studiosi possono attivare autonomamente passando da una parte all’altra.[5]

Museo Zeffirelli a Firenze presso il Complesso di San Firenze, ph. Giovanna Santaera, settembre 2021

Il focus di questo saggio verte sulla sezione museale permanente, e in particolare sul racconto dell’attività operistica di Zeffirelli, per poter rispondere a uno dei quesiti di ricerca del progetto A.R.I.E. – Audience, Remediation, Iconography, Environment in Contemporary Opera[6] intorno alla musealizzazione dell’opera nel ventunesimo secolo.[7] In realtà nel museo, data la natura intermediale della produzione zeffirelliana, cinema, teatro, opera e letteratura costituiscono parti specifiche del percorso, amalgamandosi laddove possibile. Lo spazio espositivo rispecchia infatti le competenze multiple, talvolta intrecciate, di Zeffirelli, nonché la dimensione simbiotica delle sue attività di scenografo, costumista, attore e soprattutto regista. Quella ricercata nel museo non è solo una forma di collegamento tra le arti (a cui diede vita l’autore) quanto un potente sottofondo estetico e culturale di rimandi e connessioni, ‘rimesse in opera’ nei materiali in mostra.

Sebbene quindi possa essere riferito a diverse categorie museali, raccogliendo materiali e documenti appartenenti all’ambito del cinema, della scenografia, del teatro e dell’opera, questo luogo non è concepibile se non tramite una visione intermediale unica. Tale interrelazione non esclude che si possano comunque attraversare, senza tradirne il valore, i diversi percorsi, purché si tenga conto dell’imprescindibilità delle contaminazioni a cui ogni segmento allude.

Se si guarda in direzione di una prospettiva operistica, il Museo Zeffirelli si può collocare nell’alveo di quelle istituzioni che in Italia e all’estero[8] rimettono in essere procedimenti artistici, materiali, figure, luoghi, storia ed eredità dell’opera, tenendo conto dei suoi diversi contesti di produzione e ricezione nel corso del tempo. A tal proposito, Stephen Mould in Curating Opera. Reinventing the Past through Museums of Opera and Art ha sottolineato l’importanza di riconoscere le opera houses come musei d’arte quando queste sono in grado di valorizzare e comunicare la capacità dell’evento lirico di conservare storie, usi e tradizioni, e quando i curatori nel riallestire le programmazioni si appropriano della sensibilità drammaturgica dei registi per favorire il coinvolgimento immaginativo degli spettatori.

Il caso del Museo Zeffirelli si inquadra all’interno di questo asse, dal momento che i prodotti e i documenti in esso conservati rispecchiano lo stile e la pratica del ‘regista-drammaturgo’ che li ha concepiti in origine, ma ciò non toglie che restino altre questioni aperte. Ampliando le riflessioni di Mould, infatti, occorre ragionare su una doppia sfida: come prendersi cura della molteplicità dell’eredità operistica, che deve essere assunta quale unica forma di ‘autenticità’ rispetto all’idea di originale e di repertorio cristallizzato; e come assumere le differenti esperienze e percezioni degli utenti, riconoscendo ad esse un ruolo fondamentale. Il rischio da evitare è poi quello di diventare istituzioni avanguardistiche votate in maniera critica solo a nuove produzioni oppure istituzioni ‘mausoleo’ rivolte soltanto al passato.[9]

I musei d’opera contemporanei, dunque, sembrano dover e voler superare l’impasse di una musealizzazione impossibile o esclusivamente immaginaria, smarcandosi pertanto dal modello proposto da Lydia Goehr per compensare le inevitabili perdite degli spettacoli musicali, legate soprattutto alle componenti vocali e sonore.[10] Un sentiero certamente più fecondo è quello che assume la lezione novecentesca dell’opera come ‘museo delle sopravvivenze’ di immagini, tecniche, gesti, dinamiche, tutti elementi provenienti dall’intero processo compositivo e produttivo, e già in parte rielaborati tramite la ricezione spettatoriale.[11] In maniera innovativa, molte istituzioni museali adottano strategie simili alle tendenze curatoriali degli enti operistici, mettendo in risalto i tratti di persistenza e di innovazione dell’opera e di centralità dei suoi fruitori attraverso le attività di selezione e riprogrammazione dei materiali stessi.[12]

Alla luce di quanto fin qui rilevato, si propone un’analisi del Museo Zeffirelli improntata agli approcci della cultura visuale e materiale, ampliati verso l’osservazione dei dispositivi coinvolti nella progettazione museale.[13] Da questa prospettiva si intende analizzare non tanto l’appropriazione zeffirelliana di procedure e riferimenti provenienti da diverse arti e fonti, ma partire dai motivi drammaturgici delle produzioni (compresa la dimensione sonora) per esaminarne la ‘messa in opera’ nell’esposizione permanente e nelle attività collaterali. Si tenterà allora di verificare se e come è possibile in un museo operistico riattivare i procedimenti volti alla trasmissione, intesa non solo come ricezione ma anche come contatto, apprendimento, apertura a quel «continuo passaggio di esperienze» dell’arte di cui parlava Zeffirelli nei suoi intenti citati in esergo. È un modo per problematizzare ulteriormente, a partire dal suo pensiero, la valutazione delle modalità estetiche, mediali, produttive, sociali, politiche e culturali per la veicolazione di una sorta di «quality experience», come già fatto da Mary P. Wood a proposito della sua carriera e produzione,[14] o in alcuni recenti studi sull’eredità dell’opera, intensa proprio come insieme di esperienze collegate alle performance e ai ‘media operas’.[15]

 

2. Ingresso al museo: la ‘via dell’Opera’ di Zeffirelli

Preceduto da un piccolo ‘preludio’ nello scalone centrale, il Museo Zeffirelli è collocato al primo piano dell’edificio del Complesso di San Firenze. Esso è composto, fino a ora,[16] da un lungo corridoio che funge da ingresso e che è intitolato significativamente Via dell’Opera, formula che proviene da una foto di Zeffirelli immortalato all’inaugurazione del National Theatre di Tokyo. Complessivamente il museo è formato da circa ventotto sale, più alcuni spazi adibiti alla realizzazione di mostre temporanee. L’impianto è suddiviso in tre parti – opera, teatro e cinema – ma il percorso è unico; ciascuna sala è delimitata da porte aperte, secondo un procedimento che recupera l’idea del regista dell’attraversamento di ‘tre porte d’oro’.[17] Sin dall’inizio, ossia a partire dal preludio e dal primo corridoio che condensano atmosfere, temi e motivi dell’intero tragitto espositivo, ci si rende conto che i diversi ambiti artistici non sono separati in modo netto, e le ragioni di questa contiguità risalgono alla stessa esperienza lavorativa del regista fiorentino:

Nel corso della sua vita lunga e operosa, nei settant’anni di una carriera che si è svolta in tutti i campi delle arti dello spettacolo, Franco Zeffirelli ha accumulato una quantità notevolissima di materiali che hanno soddisfatto la sua curiosità e la sua sete di conoscenza, sono serviti a sostenere la sua ispirazione, hanno documentato le varie fasi delle sue creazioni. A questi materiali si sono aggiunti negli anni i frutti del suo lavoro di scenografo, arredatore, costumista, regista, scrittore.[18]

Il ruolo del ‘maestro’ nell’ideazione degli spazi e delle strategie di messa in forma è dichiarato nelle note iniziali del catalogo Museo Zeffirelli (edito nel 2019 dalla Fondazione), e sempre sua sarebbe la ‘cura’ dell’intero progetto. Non si può però non considerare la collaborazione di Pippo Zeffirelli (presidente della Fondazione), Carlo Centilavegna (set designer, docente del centro e curatore permanente del Museo) e Caterina D’Amico (direttrice del Museo). Quest’ultima, in particolare, è stata una storica studiosa della collezione Zeffirelli, nonché curatrice di sue precedenti esposizioni.[19] Tali eventi passati sono oggi alla base del progetto museale, come testimoniano alcune interviste realizzate in quelle occasioni e ora raccolte nel catalogo. Infine, si segnala che il progetto di allestimento architettonico e d’illuminazione (volto a garantire il rispetto dei colori dei materiali esposti e a rendere modulabili le luci delle sale) è a firma degli architetti Marco Paolieri e Fabio Valelà, i quali hanno contribuito all’adeguamento e alla valorizzazione dell’intero complesso.[20]

Museo Fondazione Zeffirelli, Firenze, Press Kit, Sala musica

L’andamento scelto per l’esposizione è di tipo modulare. In ogni sala, cioè, si ripete uno schema di base con la presentazione e l’accostamento di materiali preparatori, enormi modelli plastici delle scenografie, oggetti e foto di scena/set o scatti legati a protagonisti e collaboratori del regista. Tale successione, costantemente ripetuta con lievi variazioni, può generare alla lunga un po’ di affaticamento; tuttavia le varie parti sono inframezzate da qualche installazione video, una sala di proiezione e un’installazione d’ambiente in cui il visitatore può sedersi per il tempo desiderato.

A fine 2021, in linea con i principi di accessibilità della museologia contemporanea, è stato introdotto un interessante sistema di visite audioguidate che consentono, tramite il collegamento alla rete del museo e l’utilizzo del proprio smartphone, di ascoltare/leggere estratti dell’autobiografia di Zeffirelli[21] o di sue interviste, preparati dalla direttrice D’Amico e dalla responsabile dell’area della didattica Maria Alberti, e recitati da Alessandro Massini e Fabio Baronti nella versione italiana e da Scotty Wells e Stuart Brown in quella inglese (la traduzione francese, invece, si deve alla partecipazione degli studenti dell’Istituto di Cultura Francese).

L’uso della voce di Zeffirelli nei tracciati sonori delle audioguide[22] costituisce un ulteriore motivo di richiamo, laddove ciò che si espone non è soltanto la ‘biografia’ di un artista e del mondo da lui vissuto ma un racconto di fatto già ‘autobiografico’, che pone questioni sulle vicende umane e artistiche e sulla costruzione/circolazione dell’immagine del regista, a partire dai caratteri riflessi nella sua produzione, in un interessante incrocio di ‘autenticità’ e ‘artificio’.[23] In questa sede si proverà a richiamare alcuni di questi dati autobiografici (ripresi dal catalogo), per analizzare connessioni e rimandi tra gli oggetti esposti e le idee sottese, esplicitate talune volte attraverso i pannelli informativi presenti nell’esposizione.

L’ingresso al museo, come anticipato, è scandito da un preludio che dissemina alcuni indizi, accogliendo e invitando all’esplorazione. Prima dell’entrata del Palazzo, in particolare, è stato posto uno schermo che proietta alcune immagini della collezione, accanto a un richiamo alle attività in programma. Qui, inoltre, campeggia uno scatto fotografico di Zeffirelli colto in sala prove mentre allarga le braccia. A questa marcata ‘apertura’, che simbolicamente ‘proietta fuori’ il museo stesso, in fondo alla prima rampa della scala centrale fa da contraltare visivo un manichino anch’esso nella stessa posizione del regista. Tale installazione è realizzata usando un costume di scena della Turandot di Puccini diretta da Zeffirelli alla Royal Opera House di Moscat nell’ottobre del 2011, avente sullo sfondo una foto dello spettacolo. Questi oggetti collegano, seppur in maniera semplice, il racconto della vita dell’artista con il patrimonio esposto.

Prima di arrivare a questo livello, però, entrando sulla sinistra il visitatore scopre uno spazio d’allestimento con la riproduzione di un bozzetto di scena (rielaborato digitalmente e retroilluminato) del Don Giovanni del 1989 nella rappresentazione al Metropolitan Opera House di New York del 1990, con la firma e la data del regista sul muro e, al di sotto, un elegante divano d’arredo. Diversamente dall’esposizione descritta prima, questa rimanda a un’idea più sottile di invito alla ‘permanenza’, come emerge dal titolo inscritto nell’oggetto dal regista: ‘permanent set’. Si tratta di una delle variazioni scenografiche ottenute da Zeffirelli attraverso un’invenzione tecnica (ispirata alle forme e al teatro barocco), che consentiva di cambiare interamente la scena ai lati, senza interruzioni durante lo spettacolo. Il sistema di rientri architettonici usato per questo scopo mutava secondo l’andamento della musica, richiamando così anche il carattere ‘transitorio’ del Don Giovanni, storicamente situato fra il Settecento barocco e l’Ottocento neoclassico e romantico.[24] Questa seconda installazione, unita al fondale della scena caratterizzato da un ‘cielo infinito’, proietta l’entrata dei visitatori in un interno che si fa esterno, e che rinvia allo ‘sconfinamento’ immaginativo proprio del teatro. Simbolicamente, quindi, la scelta di questo elemento della collezione prepara il pubblico al tipo di ‘(im)permanenza’ che verrà raccontata.

Installazione all’ingresso del Museo Zeffirelli dedicata al Don Giovanni, ph. Giovanna Santaera, settembre 2021

Salendo lungo le scale per dirigersi verso il primo piano la parte dedicata a Turandot lascia il posto a enormi immagini dal set di Zeffirelli, foto e oggetti legati al cinema, a una nuova rielaborazione retroilluminata di un bozzetto del regista tratto dal Don Carlo rappresentato alla Scala nel 1992, una bacheca con tutti i premi cinematografici e non, e altre foto in compagnia di noti attori internazionali. Lo schizzo del Don Carlo appartiene a un’opera in cui Zeffirelli si era adeguato alle richieste di una scenografia imponente da parte della committenza francese, realizzando degli enormi elementi portanti nei quali, al di là della funzionalità scenica, è stata ravvisata la rappresentazione della ‘macchina del Potere’ del mondo dello spettacolo.[25] Prima di accedere all’esposizione permanente, dunque, si trovano già espressi alcuni motivi che saranno poi centrali: un andamento a montaggio alternato fra le diverse arti con i loro chiaroscuri; il racconto della costruzione dell’immagine di Zeffirelli anche attraverso la sua presenza visiva all’interno dei materiali della collezione – con il suo corpo, i suoi sguardi, i suoi gesti; e, infine, il richiamo agli ambienti artistici in cui operò in Italia e nel mondo.

Partendo da questo incipit, al di là delle possibili riflessioni sulle dinamiche di costruzione delle celebrity personas,[26] potremmo chiederci perché un museo dedicato a un singolo artista come Zeffirelli non è fine a sé stesso (pur garantendone la trasmissione dell’immagine), e quali sono gli scopi per cui l’istituzione agisce entro e fuori i limiti di questa (auto)narrazione. Per rispondere a tali quesiti è utile applicare al nostro oggetto d’analisi la riflessione proposta da Noily Beyler per il biopic Maria Callas Forever diretto da Zeffirelli nel 2002. Se le dinamiche del mondo dell’arte e della cultura tra Novecento e Ventunesimo secolo hanno spinto sempre più verso la mobilità sociale e la negoziazione della propria identità artistica dal livello locale a quello globale – cosa di cui Zeffirelli era ben consapevole, come dimostrano le sue opere autobiografiche, le sue collaborazioni con celebrità internazionali, l’uso che egli faceva dei media per promuovere la propria immagine –, la credenza del pubblico per questa operazione di racconto autoprodotto è garantita solo se si pongono delle questioni sull’articolazione del senso di autenticità delle storie narrate, di genere e legata al medium.[27] Ciò che conta, quindi, al di là dell’artificio e del mix tra fiction e non fiction (o autofiction in questo caso) è la finalità, soprattutto sul piano della produzione artistica; come testimoniava Masolino D’Amico nel 1993 rispetto all’esibizionismo nelle scenografie degli artisti:

Ora Zeffirelli, che pure come personaggio, e se volete, come esibizionista è secondo a pochi nella nostra età dominata dall’advertising, non ha mai disegnato in vita sua una sola scenografia che non fosse aderente al testo da rappresentare, o per lo meno, si capisce, alla sua idea registica di tale testo, a cui egli ha sempre sacrificato ogni narcisismo, a costo di sfidare coraggiosamente il luogo comune.[28]

Un ultimo discorso interessante riguarderebbe il rinvio tra l’architettura del Complesso di San Firenze ‒ con l’ulteriore rimando alla tradizione fiorentina ‒ e l’immagine di Zeffirelli, caratterizzati dalla riappropriazione e dal rinnovamento di uno stile classico, barocco e rinascimentale, spinto oltre i suoi confini ideali (di perfezione, elevatezza o eccesso) e pertanto capace di essere anche imperfetto, povero, vicino alla quotidianità.[29] Questa relazione fra estetica e cultura della rappresentazione fiorentina è esemplificata dall’immagine di copertina del catalogo del museo, in cui il regista è ripreso in posa nella cappella medicea, o in alcuni materiali esposti (come le immagini da lui filmate con camere quasi amatoriali in occasione dell’alluvione del 1966), che rompono o risemantizzano la vulgata manierista di Zeffirelli.

Per concludere la descrizione della prima parte del complesso, dopo il preludio dall’entrata fino al primo piano il vero ‘incipit’ è rappresentato dal corridoio de La via dell’Opera, che ritorna agli inizi della carriera del regista fiorentino, introducendo alcuni degli itinerari che verranno approfonditi in seguito. La sezione si apre con la formazione di Zeffirelli a Firenze, ricostruita attraverso l’esposizione del diploma elementare e di quello di maturità al liceo artistico; prosegue con i primi passi nel mondo dell’arte insieme a Visconti, passando, in maniera non cronologica, ad alcune foto di prove che lo mostrano intento a studiare o al lavoro con gli attori. Le esperienze all’estero sono testimoniate soprattutto da locandine e materiali legati alle produzioni filmiche internazionali, ma anche da scatti con alcune delle più grandi star dell’epoca, segno della diffusione dell’opera lirica zeffirelliana in tutto il mondo (Amsterdam, Londra, Tel Aviv, etc.). Questo storytelling visuale della parabola del regista si conclude con gli alti riconoscimenti conferitigli dal Senato della Repubblica, come Grande Ufficiale dalla Repubblica Italiana e Genio dell’Eccellenza Italiana. Da questi riferimenti alla ‘grandezza’ del personaggio-Zeffirelli si torna, subito dopo, agli inizi della sua carriera con le prime sperimentazioni per il Maggio Musicale Fiorentino.

Quello che si tenta di far emergere, quindi, è che lo scopo del museo non è tanto la celebrazione di una personalità artistica quanto di una ‘via dell’opera’ che esemplifica un’esistenza di lavoro – come del resto viene illustrato anche nell’introduzione del catalogo. Solo alla fine di questo percorso insieme ai sostenitori dell’iniziativa (fra cui le più alte cariche istituzionali del Paese e il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali), infatti, si trova una didascalia con una cronologia della vita e della produzione di Zeffirelli, in cui (anche in versione inglese) si legge:

Considerare i percorsi espressivi, evidenziare i loro campi di applicazione oppure ordinare cronologicamente diversi impegni sono modi diversi di raccontare la stessa, ricchissima storia. Ciascuna di queste scelte presenta dei vantaggi: nel primo caso si sottolinea la costanza dell’impegno nelle singole professioni, l’evoluzione dello stile, l’affinamento delle tecniche; nel secondo caso si mette in rilievo la mole di lavoro svolto in ciascun campo, le predilezioni nella scelta del repertorio, le collaborazioni ricorrenti; nell’ultimo caso si coprono le rispondenze, le interconnessioni, gli intimi legami tra produzioni solo apparentemente distanti.

Ed è a queste modalità che qui ricorriamo per l’analisi delle sezioni operistiche.

 

3. Performances e montaggi fra teatro, cinema e opera

Ripartiamo qui non dalla prima sala ma da La via dell’Opera, a dimostrazione della necessaria compenetrazione tra le varie parti. Alla fine di questo spazio, dopo le prime attività come scenografo a Firenze e come attore fra radio, cinema e teatro (richiamate da installazioni e relative didascalie), per ricordare le prove d’esordio in importanti spettacoli sono esposti alcuni materiali riguardanti le scenografie realizzate per Delitto e Castigo di Visconti, create a partire dai disegni e dai bozzetti di Salvador Dalì (esibiti insieme ai riferimenti per i coevi lavori cinematografici per Senso e Bellissima). Accanto ai materiali preparatori, per restituire storia e caratteri dello spettacolo, campeggiano la locandina e una foto di scena (su questi principi di montaggio diremo più avanti). Dai racconti di Zeffirelli si apprende che per la traduzione drammaturgica dei disegni di Dalì – soprattutto in rapporto all’esigenza di restituire un senso di astrazione del mondo intorno alla foresta – egli fece ricorso a tecniche apprese al Maggio Musicale Fiorentino, affiancando grandi scenografi d’opera che utilizzavano delle scene dipinte su veli. La capacità visuale espressa dai disegni e bozzetti di Dalì non bastava, però, se non era coniugata alla trasposizione del lavoro per la scena. Adoperò allora una serie di ‘trasparenti’ per sfruttare il risultato degli effetti di transizione sfumata prodotta dalla loro successione, ispirazione restituita con l’esposizione del disegno del velario di Dalì.[30] Questo espediente permette di evidenziare la forte stratificazione all’interno delle produzioni zeffirelliane, e per conseguenza nel corpo dell’esposizione, di dispositivi schermici e procedimenti visuali dinamici, oltre che il loro riversamento in ambiti diversi. Sulle trasparenze in scena ritornerà in tutta la sua produzione in maniera esplicita, a conferma di un certo modo di rielaborare la cultura visuale: si pensi ai materiali legati alla realizzazione delle Tre Sorelle di Cechov del 1952 (sala 28), in cui il passaggio da una realtà viva a una di ricordi rarefatti doveva «ricreare l’impressione di una vecchia foto di famiglia dimenticata in qualche cassetto».[31]

Con l’omaggio agli esordi viscontiani si segnala l’emergere di quella ‘scuola’ dedita a un senso di nuova «figuratività spettacolare»,[32] che innescherà il percorso della regia d’opera dal testo al palcoscenico, passando per la materialità messa in gioco. Questa propensione verso una relazione piena fra le arti ‒ legata all’inizio della sua esperienza artistica agli esordi operistici, all’affiancamento di Visconti e al contatto con professionisti di grande calibro ‒ sembra avere origini profonde già a partire dall’infanzia di Zeffirelli:

Fu proprio in quella campagna che scoprii il teatro. Quasi ogni settimana venivano a trovarci degli strani personaggi, molto amati da tutti. Allora grandi e piccini ci radunavamo attorno al fuoco e loro raccontavano storie: storie fantastiche, tragiche, classiche, cui mescolavano fatti autentici e notizie del giorno. Erano dei maestri degli effetti drammatici, e ricordo ancora come uno di loro mettesse una lanterna sul pavimento per lanciare, muovendosi opportunatamente, ombre e guizzi di luce sul muro. Niente a teatro è mai riuscito a colpirmi più delle magiche fantasie ricreate da quei cantastorie che ci portavano coi loro semplici racconti alla paura e alla compassione, alle lacrime e al riso.[33]

Potremmo dire che per tutta la vita il maestro si sia dedicato proprio a quella ricerca di effetti drammatici; stimolando l’immaginazione, non temendo di intrecciare codici e realtà diverse per produrre un impatto emotivo, lavorando in modo attento con diversi media. Secondo una testimonianza di Masolino D’Amico, infatti, in questo sta la vera ‘bellezza’ dei materiali della collezione relativi alla scenografia – in sintonia con la regia e con le altre componenti dell’opera: essi restituiscono il suo studio multimediale volto a trasmettere un senso del testo originario e a condurre lo spettatore all’interno dei mondi da lui creati.[34]

Un altro spunto di riflessione sulla cultura visuale espressa dal museo è dato dalla combinazione e dal montaggio di oggetti che rivelano l’intimo legame fra il lavoro del regista e un’idea ampia di performance attoriale, estesa al di là del palcoscenico fino a sconfinare nella quotidianità. A tal proposito, accanto a Visconti, Zeffirelli volle fermamente che all’inizio del percorso museale fosse posta anche un’area dedicata a Maria Callas, per il debito formativo che a queste figure doveva. Su di lei, dunque, si concentra la successiva e prima sala, realizzata grazie alla filantropa e collezionista d’arte russa Anna Opaleva. In riferimento alla loro lunga e feconda collaborazione artistica qui si possono osservare materiali preliminari e pubblicitari, foto di scena e alcuni oggetti legati alla Callas riferiti alle sei produzioni operistiche che i due realizzarono in Italia e all’estero tra la metà degli anni Cinquanta e Sessanta. A tal proposito si nota la carenza – segnalata dal museo stesso nelle didascalie – di materiali che riguardano gli spettacoli americani, elemento che denota quanto il patrimonio zeffirelliano sia tuttora disseminato nel mondo.[35] La successione degli allestimenti nell’esposizione di questa sala riassume la carriera di regista lirico di Zeffirelli, che spaziò dall’opera buffa (Il Turco in Italia) all’opera romantica (Tosca), fino a quella dai toni più drammatici (Lucia di Lammermoor, Norma, La Traviata). Tali allestimenti, inoltre, sintetizzano la parabola artistica della Callas, la quale nel 1964-65 tornerà per l’ultima volta sulle scene per uno spettacolo intero spinta proprio da Zeffirelli, che ripenserà la Norma appositamente per lei. Con l’esposizione (qui come in tutto il museo) di una selezione precisa di foto del regista durante le prove con i propri collaboratori, di materiali preparatori e di estratti dagli spettacoli si realizza un montaggio di immagini, gesti, pose e inclinazioni in cui si incarna l’effetto di durata delle performance passate, e insieme la traccia viva della cultura mediale che ancora rimane.[36] Alla Callas poi, venticinque anni dopo la sua morte, Zeffirelli dedicherà il film Maria Callas Forever, a cui il museo riserva una sezione a parte. Si tratta di un biopic che era stato originariamente proposto alla stessa cantante riutilizzando una vecchia registrazione della sua voce; la Callas, però, rifiutò questo espediente per la distanza temporale e la differente qualità che avrebbe avuto il suo timbro vocale. Venticinque anni più tardi, rielaborando questo episodio, Zeffirelli costruirà comunque il film a partire proprio dalle registrazioni della sua voce, senza quindi ricorrere a impossibili ‘ricostruzioni’ attraverso la performance canora di altre interpreti. L’artificio diegetico voleva (in maniera sicuramente problematica rispetto alle volontà della cantante) porre l’attenzione sulla vera eredità della Callas: la sua voce. Ecco perché nella sala a lei dedicata, seppur in una forma ulteriormente ‘mediata’, si proiettano su uno schermo (uno dei pochi del museo) brevi estratti delle performance zeffirelliane che l’hanno resa celebre. Accanto a queste modalità di racconto e ricostruzione dell’aura divistica della cantante va segnalato anche l’accostamento di materiali promozionali. Nella locandina della Tosca messa in scena in Francia, ad esempio, si nota la formula «représentation exceptionnelles», indice del senso di eccezionalità su cui si faceva leva nello ‘storytelling’ pubblicitario delle performance degli artisti annunciati, fra cui Callas e Zeffirelli.

Museo Zeffirelli, Sala 4: Zeffirelli e Maria Callas, ph. Giovanna Santaera, settembre 2021

Al centro della sala, per concludere questa sezione, è posto un rifacimento del suo costume[37] realizzato a partire dai materiali conservati ed esposti del Turco in Italia. Questo oggetto è stato creato coinvolgendo la costumista Elena Puliti e la sartoria di Massimo Poli grazie all’Associazione Donna di Firenze, che ogni anno dona a un museo della città un’opera restaurata (anche in altre occasioni le donazioni sono state legate al mondo dell’opera e alla sua iconografia, come per il Maggio Musicale Fiorentino).[38] Tali contributi diventano occasione per realizzare incontri culturali e aggregativi, generando una proficua interazione sociale a partire da un patrimonio culturale condiviso.

La successiva sala apre alla produzione lirica di Zeffirelli (mentre le due seguenti affrontano il rapporto con il teatro classico ‒ a partire da autori come Shakespeare ‒ e con quello contemporaneo). La centralità di questo spazio nell’economia generale del museo è segnalata da una didascalia/citazione dello stesso regista, secondo il quale l’Opera sarebbe «il praticello dell’Olimpo dove tutte le Muse si riuniscono tenendosi per mano».[39] In questa prima stanza (che anticipa quelle dedicate in maniera comparata a singole produzioni o a gruppi di opere) l’attenzione si concentra sui lavori degli esordi tra gli anni Quaranta e Cinquanta, soprattutto quelli del periodo senese del teatro delle operine[40] ancora legati a un’idea di scenografia pittorica e antiquaria.[41] Man mano che si procede nell’esposizione si nota un crescendo verso l’astrazione figurativa: è il caso, ad esempio, dei contributi alle messe in scena da Donizetti, con Lucia di Lammermoor, La figlia del reggimento e L’Elisir d’amore, e da Pergolesi, con Lo Frate Innamorato, opera riallestita per la Piccola Scala di Milano nel 1960 in cui Zeffirelli fu chiamato a sostituire Eduardo De Filippo in quindici giorni. Questo episodio lo spinse a usare materiali poveri quali la iuta, che grazie alla sua ‘trasparenza’ rese l’ambientazione napoletana dello spettacolo al tempo stesso realistica e immaginifica, ribaltando l’idea di ‘bellezza quasi manieristica’ che spesso era associata al suo lavoro.

Prima di proseguire apriamo una piccola parentesi sul sistema di didascalie del museo. Tradotti anche in inglese, si distinguono pannelli introduttivi, tematici e insegne più specifiche relative a gruppi di materiali o a singole opere. In ognuno di essi il testo, ben organizzato graficamente, presenta brevi introduzioni che stimolano l’interesse, riportando passi autobiografici, interviste e testimonianze, oppure rendendo esplicite alcune connessioni fra le opere. Per un pubblico più specializzato (ad esempio di studenti, ricercatori e artisti) questi testi sono incorporati all’interno di schede che si aprono con il nome dell’opera e del compositore originario, e che specificano tutti i dettagli della messa in scena a cui i materiali si riferiscono (direttore d’orchestra, interpreti, scenografie, costumi, regia, coreografie, etc.). In ogni indicazione, inoltre, sono presenti delle note numerate degli oggetti esposti con i caratteri tecnici essenziali e l’Atto, ossia la scena dell’opera a cui si riferiscono. Proprio grazie a questi pannelli (presenti pure nella sala dedicata alla lirica qui analizzata) anche un pubblico non addetto ai lavori può cogliere il passaggio di Zeffirelli dalla ‘semplice’ attività di scenografo e costumista a quella di regista, che egli effettuò mantenendo uno scambio costante tra le diverse competenze.[42]

Museo Zeffirelli, Sala: Zeffirelli. The art of entertainment, ph. Giovanna Santaera, settembre 2021

Dopo le prime tre sale un intermezzo conduce a una transizione dal teatro al cinema, condensata in una sala di proiezione finemente arredata; i fruitori, circondati dalle immagini fotografiche delle prove del regista, possono assistere qui alla visione del film Zeffirelli. The art of entertainment, prodotto dalla Zeffirelli S.r.l nata in seno al progetto di valorizzazione del patrimonio museale. Quello proposto è un format video che risponde all’idea di «visual history», intesa non solo come rievocazione della sua produzione teatrale e cinematografica ma anche come racconto della sua peculiare capacità di produrre immagini, incarnare visioni e costruire mondi simbolici per mezzo di tutti gli elementi artistici. Quasi in sovrapposizione rispetto al museo, nell’introduzione del film i materiali della collezione Zeffirelli sono animati digitalmente e inframezzati dall’uso di qualche scatto o video d’archivio, per segnalare anche qui un simbolico ‘ingresso’ nel teatro, nel cinema e nella vita dell’autore. L’uso e la successione di questi documenti non sono sempre logici, come dimostra un riferimento ai bozzetti per il progetto sull’Inferno di Dante, che vale come sorta di ‘discesa’ nelle viscere più profonde della produzione zeffirelliana. Dopo l’intro comincia la parte dedicata ai film e alle opere teatrali, che riproduce quel montaggio alternato su cui è costruita tutta l’esposizione: al di là delle specificità di ogni sezione, è interessante notare il recupero del principio compositivo utilizzato nel museo, secondo il quale – per ricostruire la profondità drammaturgica delle produzioni – si mixano insieme materiali preparatori, immagini da prove/set e testimonianze fotografiche e audiovisive sia teatrali che filmiche.

Nella parte relativa all’opera, su un sottofondo musicale di celebri cori e arie, scorrono le immagini di bozzetti, pitture, disegni, foto ed estratti dalle messe in scena filmate o dai film-opera del regista. Il montaggio segue un andamento a climax, che porta alla crescente fusione tra cinema, opera e teatro. Sul piano più strettamente narrativo si riconosce una scansione per temi, secondo incroci calibrati di scene clou di amore, potere e performance artistiche ricche di pathos, che da un lato puntano l’accento sulle forme di espressione degli affetti, delle emozioni e dei desideri e dall’altro sui segni di forza o di libertà sociale, politica e spirituale raccontati nelle sue produzioni.

L’intermezzo, quindi, funge da ‘condensato’ dell’intero museo e prepara emotivamente alla seconda parte dedicata alle produzioni. Più in generale potremmo dire, riprendendo la citazione inserita all’inizio del film, che l’obiettivo di questo spazio sta nella «Perception of ideas [that] leads to new ideas».[43]

 

4. Invito all’opera (nei musei)

L’intermezzo video Zeffirelli. The art of entertainment più che concludere l’esperienza di visita segna un nuovo inizio, volto a un ulteriore approfondimento della produzione zeffirelliana. Allo stesso modo, con questo saggio si vuole aprire un invito alla ricerca sulle possibilità espositive e sul ruolo dei musei per l’opera di oggi e di domani. Per questa ragione della terza e quarta parte del percorso (dedicate ai singoli lavori artistici e alle mostre temporanee) si presenta qui un riepilogo delle strategie adottate, rimandando a ulteriori focus l’analisi delle attività museali che promuovono la fruizione delle collezioni a livello didattico, in maniera partecipata e diffusa, anche attraverso la comunicazione online.

Nella terza parte le sale dedicate all’opera esplorano da un lato la preferenza di Zeffirelli verso alcuni compositori (su tutti Puccini e Verdi)[44] e alcune opere (tra cui spiccano senza dubbio Cavalleria Rusticana e Pagliacci); dall’altro descrivono invece, secondo un approccio comparato, tre allestimenti specifici: Turandot, Carmen e Don Giovanni. Nell’ottica di una costante integrazione fra linguaggi ed esperienze, trovano spazio anche delle sale riservate ai film-opera Otello (1982), Il Giovane Toscanini (1988), Callas Forever (2002), La Traviata (1982). Tale disposizione conferma l’andamento generale del museo e ribadisce la reciprocità fra le diverse pratiche artistiche del maestro. Oltre alla valorizzazione delle opere compiute, la fondazione ha provato a mettere in mostra anche documenti relativi alle varianti realizzative di alcuni progetti o alle idee mai realizzate, dando così importanza alla relazione di scarto tra finito e non finito.

Piccole parentesi d’intermezzo sono la sala che ricostruisce lo studio del regista e alcuni spazi dedicati ai suoi collaboratori, tra i quali spicca il costumista Piero Tosi.[45] All’interno della macro-sezione destinata alla produzione si apre il quarto spazio per mostre temporanee. Le strategie qui adottate suggeriscono nuovi format di allestimento votati a progetti multisensoriali e immersivi, per favorire un contatto più emotivo e olistico. L’itinerario, infine, si chiude a cerchio, riportando simbolicamente a quella Via dell’Opera che da ingresso si trasforma in un percorso di accompagnamento a ritroso nel racconto dell’esposizione: dalla fine alle origini senza cesure nette, facendosi dunque passaggio verso ulteriori ‘aperture’.

Museo Zeffirelli, Sala mostre temporanee, ph. Giovanna Santaera, settembre 2021

Dopo aver cercato di descrivere l’impianto e le modalità espositive di questo museo resta da sciogliere un’ultima questione: perché un’istituzione del genere? Già Luciano Alberti, a proposito della mostra del 1993, intuiva che il portato e il compito della collezione zeffirelliana andava ben oltre quello storico-retrospettivo, favorendo una lezione creativa in grado di essere spesa anche dagli artisti e dagli studiosi del futuro. Chi visita oggi gli spazi del museo ha modo di cogliere la complessità dell’arte operistica perché, come si è cercato di mostrare, il sistema espositivo punta a mettere in luce la valenza drammaturgica e interpretativa di tutte le sue componenti, compreso il lavoro materiale e la circuitazione delle produzioni dalla dimensione locale a quella globale. Per il futuro sarebbe interessante sviluppare (come già fatto ad esempio all’Opera Museum di Parma) non solo una prospettiva sulle diverse operazioni mediali messe in campo da Zeffirelli, ma anche un approfondimento sulle tecnologie per la scena di cui egli stesso parlava frequentemente, adottando un approccio legato agli studi su opera e tecnica.[46] Ciò consentirebbe un recupero dell’opera e delle sue rimediazioni intese come ‘macchine simboliche’ – anche nella loro componente vocale e sonora –, che nell’esposizione permanente deve ancora trovare uno spazio maggiore e una più pertinente formula espositiva.[47]

La storia delle opere prodotte dal regista può servire ad affrontare questioni non solo estetiche ma anche culturali, in relazione sia ai contenuti delle composizioni storiche sia alle messe in scena nei diversi paesi. Anche in quest’ottica, alla luce dei materiali conservati nell’archivio, sarebbe interessante approfondire il grado e l’intensità della ricezione da parte degli addetti ai lavori e dei pubblici che incontrarono i suoi spettacoli. Certo, servirebbe un approccio che non abbia timore di assumere una postura critica sia nei confronti di quelle dinamiche di potere richiamate da Zeffirelli, sia verso i ‘canoni di adeguamento’ in cui lo stesso regista era coinvolto (si pensi alle testimonianze zeffirelliane e gli escamotage drammaturgici per velare il corpo della cantante d’opera Joan Sutherland).[48] E, da ultimo, per integrare i discorsi legati alla dimensione affettiva delle strategie di messa in mostra sarebbe auspicabile approfondire l’ambivalenza di Zeffirelli nella negoziazione artistica di questioni legate al genere, all’orientamento sessuale e alla cultura di appartenenza, sempre più implicate nel giudizio drammaturgico e performativo.[49]

Nel chiudere queste note a margine di una visita di studio presso la Fondazione fiorentina si vuole porre l’accento sulla necessità di continuare a riflettere sulla pluralità delle ‘vie dell’opera’ come modello di nuova museologia, sensibile al cambiamento delle modalità di fruizione ma al contempo attenta a restituire valore alle tracce delle esperienze del passato.

 

*Questo articolo nasce nell’ambito del progetto di ricerca A.R.I.E. – Audience, Remediation, Iconography, Environment in Contemporary Opera (redatto all’interno del “PIAno di InCEntivi per la RIcerca di Ateneo - PIA.CE.RI. 2020/2022 linea 2) coordinato dalla Professoressa Stefania Rimini (Università degli Studi di Catania).


1 Parte delle collezioni di Zeffirelli che includevano elementi di arredamento, forniture, quadri e elementi di scena sono stati oggetto di vendita durante la sua vita, come testimoniato in alcune interviste e nel catalogo di un’asta di Sotheby. Cfr. N.D., Curiosità Teatrali E Collezioni Sommerse Di Franco Zeffirelli, Milano, Sotheby’s Italia, 2001.

2 Fondazione Franco Zeffirelli, Museo Zeffirelli, Firenze, Lorenzo de’ Medici Press, 2019, p. 7.

3 Ivi, p. 7.

4 N.D., ‘Zeffirelli e il progetto CIAS’, <https://www.fondazionefrancozeffirelli.com/franco-zeffirelli-e-il-progetto-cias/> [accessed 09 january 2022].

5 Non a caso l’archivio e la biblioteca sono presentati all’interno del catalogo dedicato al Museo Zeffirelli; cfr. Fondazione Franco Zeffirelli, Museo Zeffirelli.

6 Progetto del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania coordinato dalla Professoressa Stefania Rimini.

7 Il caso studio fa parte anche della ricerca dottorale sui musei del cinema in Italia e all’estero e la comunicazione del patrimonio cinematografico dell’autrice del saggio, ancora in corso al momento di pubblicazione di questo contributo, all’interno del corso di Dottorato in Scienze per il Patrimonio e la Produzione Culturale dell’Università degli Studi di Catania (tutor: Prof.ssa Stefania Rimini, Università di Catania; Prof.ssa Rinella Cere, Sheffield Hallam University, a.a. 2019-2022). In quest’ottica la parte cinematografica del museo sarà oggetto quindi di un nuovo approfondimento all’interno dell’elaborato finale.

8 Per l’Italia si ricordano almeno il Museo Teatrale alla Scala di Milano, il Museo dell’Archivio del Teatro San Carlo a Napoli, l’Opera Museum a Verona e l’Opera Museum della Casa della Musica di Parma. A livello internazionale invece si citano i casi del Bibliothèque-Musée de l’Opéra National de Paris, il Cantonese Opera Museum (che ha molto lavorato anche nell’ottica del patrimonio intangibile legato a quello operistico); cfr. Q. Guo, X. Li, ‘Integrated Conservation of the Cantonese Opera Art Museum and Intangible Cultural Heritage.’, The International Archives of Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, v. XL-5/W7, 2015, pp. 187-193), il Kunqu Opera Museum sempre nell’area dell’est-asiatico, e il Cairo Opera Museum.

9 Cfr. M. Stephen, Curating Opera: Reinventing the Past Through Museums of Opera and Art, London, Routledge, 2021.

10 Cfr. L. Goehr, The Imaginary Museum of Musical Works, Oxford, Clarendon, 1992.

11 Sull’evoluzione dell’idea di opera (houses) come museo (anche in prospettiva metariflessiva sulla produzione) si veda W. Gibbons, Building the Operatic Museum: Eighteenth-Century Opera in Fin-de-Siècle Paris, New York, University of Rochester Press, 2013; H. Wiebe, ‘The Rake’s Progress as Opera Museum’, The Opera Quarterly, v. 25, n. 1-2, 2009, pp. 6–27; D.T. Evans, ‘Opera Museum’, in Id., Phantasmagoria. Sociology of Opera, London, Routledge, 1999, pp. 52-67; T.W. Adorno, ‘Bourgeois Opera (1955)’, in D. Levin (a cura di), Opera Through Other Eyes, Stanford, Stanford University Press, 1993, p. 40; T.W. Adorno, ‘Opera and the Long-Playing Record’, traduzione a cura di T.Y. Levin, October, v. 55, winter 1990, pp. 62-66.

12 Per il primo Cfr. M. Stephen, Curating Opera: Reinventing the Past Through Museums of Opera and Art, London, Routledge, 2021; alcuni esperimenti hanno portato invece a riutilizzare addirittura lo spazio scenico del teatro d’opera come museo temporaneo, su questo cfr. K. M. Hartl, D. Meyer, D. Birnbau, Curtain: A Living Museum Space: the Vienna State Opera Safety Curtain = Vorhang: Ein Lebendiger Museumsraum: Der Eiserne Vorhang Der Wiener Staatsoper, Wien, Verlag fur Moderne Kunst, 2017.

13 Anche se ancora tutta da scrivere, soprattutto in merito ai dispositivi adottati e all’uso sociale delle ‘immagini’ prodotte, l’analisi del patrimonio e dei musei operistici da una prospettiva ampia di cultura visuale e materiale trova un’applicazione consistente di recente soprattutto per l’area dell’est asiatico e del medio oriente. Cfr. A. Liu, Divine Threads: The Visual and Material Culture of Cantonese Opera, Vancouver and Berkeley, MOA, 2019; J.T. Zeitlin, L. Yuhang, H. Jonathan, Performing Images: Opera in Chinese Visual Culture, Chicago, Smart Museum of Art, The University of Chicago, 2014; S. Zuhur, Images of Enchantment: Visual and Performing Arts of the Middle East, Cairo, The American University in Cairo Press, 1998.

14 Cfr. M. P. WOOD, ‘Delivering the Quality Experience: Franco Zeffirelli’, in L. HUBNER (a cura di), Valuing Films. Shifting Perception of Worth, Houndmills and New York, Palgrave Macmillan, 2011, pp. 183-197.

15 D. Symonds, P. Karantonis (a cura di), The Legacy of Opera. Reading Music Theatre as Experience and Performance, Amsterdam-New York, Rodopi, 2013.

16 La visita è avvenuta nel settembre 2021. A tal proposito però la ‘fotografia’ del museo intende ragionare più sulle dinamiche sottese che restituire un puntuale dettaglio cristallizzato. Per la vastità del patrimonio, infatti, e per esigenze di preservazione, alcuni degli elementi esposti possono variare nel corso del tempo e il percorso può essere modificato.

17 Cfr. la descrizione della collezione Zeffirelli sul sito della Fondazione: <https://www.fondazionefrancozeffirelli.com/la-collezione-zeffirelli/> [accessed 09 january 2022].

18 Fondazione Franco Zeffirelli, Museo Zeffirelli, p. 7.

19 Per le precedenti esposizioni della Collezione Zeffirelli cfr. C.D.C. D’Amico, Zeffirelli: Scenografie, Roma, Palazzo Ruspoli, 1° Marzo-23 Aprile 1993, Roma, Edizioni De Luca, 1993 (pubblicato in occasione della mostra a Palazzo Ruspoli); Id., Zeffirelli. L’arte dello spettacolo – Opere di pittura scenografica, Roma, Edizioni De Luca, 2001 (mostra a Palazzo Marino alla Scala a Milano dal 2 al 25 febbraio 2001, basata a sua volta sull’esposizione del 1993); Id., Zeffirelli. L’arte dello spettacolo, Roma, Edizioni De Luca, 2015 (catalogo della mostra tenutasi a Villa d’Este a Tivoli dal 15 maggio al 15 ottobre 2015).

21 La prima autobiografia del regista uscì in inglese e solo dopo molti anni in Italia. Cfr. F. Zeffirelli, Zeffirelli. Autobiografia [1987], Milano, Mondadori, 2008.

22 Non è possibile analizzare compiutamente l’impianto discorsivo delle audioguide perché la visita è avvenuta prima della loro introduzione, ma sarebbe certamente utile verificarne l’impatto e l’efficacia.

23 Una prospettiva simile sull’analisi della produzione si trova in M. Pursell, ‘Artifice and authenticity in Zeffirelli’s “Romeo and Juliet”’, Literature film quarterly, v. 14, n. 4, 1986, p. 173-178.

24 Cfr. Fondazione Franco Zeffirelli, Museo Zeffirelli, p. 162.

25 Cfr. Ivi, p. 134.

26 Per un resoconto aggiornato sullo studio delle celebrity personas e alcuni studi su Zeffirelli si veda P. D. Marshall, ‘Celebrity and Public Persona", Oxford Bibliographies Communication, <https://www.oxfordbibliographies.com/view/document/obo-9780199756841/obo-9780199756841-0159.xml> [accessed 9 january 2022]; M. P. Wood, ‘Sixty years a celebrity auteur: Franco Zeffirelli’, Celebrity Studies, v. 3, n. 2, 2012, pp, 138-149.

27 Cfr. Beyler, N., ‘The Anxiety of Authenticity in Dahan’s La Vie En Rose and Zeffirelli’s Callas Forever’, French Forum, v. 36, n. 2-3, 2011, pp. 221-238.

28 Fondazione Franco Zeffirelli, Museo Zeffirelli, p. 52.

29 Del valore del superamento dei limiti ‘classici’ Zeffirelli ne ha parlato in J. Tibbetts, ‘Breaking the Classical Barrier: Franco Zeffirelli Interviewed by John Tibbetts’, Literature film quarterly, v. 22, n. 2, 1994, pp. 136-140.

30 Fondazione Franco Zeffirelli, Museo Zeffirelli, p. 56.

31 Ivi, p. 62.

32 Ivi, pp. 97 e segg.

33 Ivi, pp. 12-13.

34 Ivi, p. 52.

35 A testimonianza dell’abbondanza dei riferimenti produttivi nel contesto americano è stato pubblicato C. Napoleone, Zeffirelli at the Met: One Thousand Five Hundred and Forty-Nine Performances (so Far), New York, Edizioni Polistampa, 2008.

36 Quest’idea amplia il ripensamento fra personaggi, interpreti, registi e tutti i componenti di un film, soprattutto le performance dei secondi, applicati alla lettura già di opere come Romeo e Giulietta di Zeffirelli in cui obiettivo del montaggio non è una semplice combinazione di elementi ma una selezione di immagini frutto di una orchestrazione, da qui l’estensione anche ai principi dell’opera. Cfr. C. Baron, ‘Acting Choices/Filmic Choices: Rethinking Montage and Performance’, Journal of Film and Video, v. 59, n. 2, summer 2007, pp. 32-40.

37 Per un approccio di cultura visuale al patrimonio dei costumi per l’opera Cfr. A.B. Bonds, Beijing Opera Costumes: The Visual Communication of Character and Culture. New York, Routledge, 2019. 

38 Cfr. M. Costanzo, ‘“Firenze Donna” dona il restauro di un disegno seicentesco al museo Horne’, La Nazione, 27 settembre 2019, <https://www.lanazione.it/cronaca/firenze-donna-dona-il-restauro-di-un-disegno-seicentesco-al-museo-horne-1.4805404> [accessed 09 january 2022].

39 Fondazione Franco Zeffirelli, Museo Zeffirelli, p. 17.

40 Ivi, p. 96.

41 Si pensi alla collaborazione in qualità di scenografo e costumista all’allestimento dell’Italiana in Algeri diretto dalla cugina della madre, soprano e docente dell’Accademia Musicale Chigiana Ines Alfani Tullini.

42 A Zeffirelli come regista e scenografo aveva dedicato un contributo il critico cinematografico Mario Verdone: cfr. M. Verdone, ‘Regie e scenografie di Franco Zeffirelli’, Terzoocchio, v. 26, n. 97, 2000, p. 41-42.

43 S. Lewitt, ‘Sentences on Conceptual Art’, New York, 0-9, 1969, pp. 3-5.

44 Di Puccini Zeffirelli metterà in scena nel corso della sua carriera capolavori del calibro di Madama Butterfly, Turandot, La Bohème, mentre di Verdi il regista sceglierà Falstaff, Otello, Don Carlo, La Traviata, Il Trovatore, Aida, che rappresentano senza dubbio alcuni tra gli investimenti più significativi per cogliere lo spessore della sua idea di scrittura scenica.

45 Anche questa parte sembra il frutto di una ricerca precedente da parte della direzione, cfr. C.D.C. D’Amico, Piero Tosi: costumi e scenografie, Milano, Electa, 2006.

46 Cfr. G. Kreuzer, Curtain, Gong, Steam. Wagnerian Technologies of Nineteenth-Century Opera, Oakland, University of California Press, 2018.

47 Jelena Novak ha parlato per esempio dell’Opera video-documentaria Three Tales di Kunst come opera-museo di ‘macchine simboliche’, date anche da un certo uso della componente vocale e sonora, non necessariamente umana. Cfr. J. Novak, ‘Postopera: Reinventing the Voice-Body’, Ashgate Interdisciplinary Studies in Opera, Surrey and Burlington, p. 69. Per un approccio mediale all’intera opera si veda C. Morris, ‘Too much music: the media of opera’, in N. Till (a cura di), The Cambridge Companion to Opera Studies, Cambridge, ebook version, position: 294,2 / 1071, Part II.4.

48 Fondazione Franco Zeffirelli, Museo Zeffirelli, pp. 22-23 e 114.

49 Sui primi temi si veda per es. M. J. Citron, ‘The Erotics of Masculinity in Zeffirelli’s Film Otello’, in P. Purvis, Masculinity in opera: gender, history, and new musicology, New York, Routledge, 2013, pp. 84-101.