Corti viaggi sentimentali con Agnès Varda*

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Nella forma breve, tra il film saggio e l’elaborazione poetica, dei cortometraggi realizzati da Agnès Varda, ritroviamo un dialogo con la collettività degli spettatori a partire da uno sguardo che rintraccia quanto si nasconde dietro il visibile, mettendo a nudo, per sovvertirli, i meccanismi di una rappresentazione di tipo mimetico e spesso stereotipata. Seguendo la lezione delle avanguardie, Varda osserva per rovesciare l’ottica, filtra soggettivamente la realtà per rendere la sua esperienza d’artista un’esperienza collettiva e usa spesso la sua voce per guidare lo spettatore in una visione emotiva e critica insieme, che potremmo anche definire, sulla scia di ormai antichi umoristi, sentimentale. In particolare, si propone qui l’analisi di Les dites cariatides (1984) e di Elsa la rose (1966), accomunati dal fatto che in essi una certa idea della donna (in architettura, in amore, in poesia, ma anche nella società) viene indagata e sottoposta a una visione insolita e straniata. Un percorso nella città, nel primo caso, che le riflessioni di Giuliana Bruno sul site-seeing come dispiegamento aptico della prassi e della visione cinematografica aiutano a comprendere in tutta la sua complessità. La messa in discussione, nel secondo, dello schema occidentale del rapporto tra il poeta e la sua musa, in cui l’eterno femminino sorregge l’ideale di sé maschile e la realtà della donna scompare dentro l’immagine poetica.

The poetic elaboration of short films by Agnès Varda and her personal interpretation of the essay film build a close dialogue with the audience, while subverting the canons of a mimetic and stereotyped representation. The lesson of the avant-gardes teaches her to reverse the perspective and to provide an unusual, even estranging vision of the represented world. In so doing, she uses her voice to guide the viewer through an emotional and critical experience that we could also define, in the wake of ancient humorists, sentimental. The paper focuses in particular on Les dites cariatides (1984) and Elsa la rose (1966), two short films in which a certain idea of woman (in architecture, love, poetry, but also in society) is investigated and represented in an unusual form. In the first case, we can experience a journey through the city of Paris that Giuliana Bruno’s reflections on site-seeing help to understand in all its complexity. In the second, we can question the western scheme of the relationship between the poet and his muse.

 

 

1. Visioni parigine: Panorama pendant l’ascension...

Come la conferenziera di viaggio Esther Lyons a cui fa riferimento Giuliana Bruno nel suo Atlante delle emozioni,[1] Agnès Varda è stata una voyageuse coraggiosa. L’atto di filmare ha significato per lei abitare lo spazio attraversando un «terreno aptico, emotivo».[2] Come altre registe, estensioni nel tempo delle conferenziere per immagini che le hanno precedute, anche Varda ha esplorato il mondo per conoscere e definire se stessa in quanto artista e donna: Parigi, ma anche città e luoghi (più o meno) lontani, hanno nutrito quei paysages avec figures che compongono il suo cinema e nei quali ha riscritto il suo fare esperienza del mondo.

Nel tempo, Varda è arrivata a ‘specchiarsi’ in senso proprio all’interno dei suoi film – come nel caso di Les glaneurs et la glaneuse (2001) e poi, più radicalmente, in Les plages d’Agnès (2008), in cui «lo stesso schermo finisce per funzionare da specchio mobile – superficie sulla quale la regista-attrice si presenta come l’altro da sé».[3] In realtà, è sempre stata dentro e fuori i suoi paesaggi, le fotografie e i fotogrammi realizzati: vuoi attraverso porzioni del suo corpo inquadrate (ad esempio in L’Opéra-Mouffe, 1954, e in Réponse de femmes, 1975), vuoi grazie ad un elemento centrale della sua relazione con gli spazi fisici e mentali che ha attraversato, cioè la voce, questo suono al tempo stesso corporeo e incorporeo, materiale e fantasmatico che spesso accompagna i suoi itinerari geografici e culturali dentro Parigi, oppure in lidi più lontani (Cuba, gli Stati Uniti).[4] Una voce in prima persona, a metà tra un raisonneur e un io umorista di letteraria memoria, che filtra l’esperienza del momento mettendola in prospettiva e facendola risuonare come dentro una cassa armonica.

La voce soggetto, infatti, media la traiettoria di uno sguardo che non è mai consueto, lineare, prevedibile. Mentre guarda, Varda lo sposta altrove o altrimenti: girando per le strade di Parigi abbandona la via maestra per perdersi nel mercato rionale di rue Mouffetard e per posare lo sguardo su ciò che, negli itinerari della grandeur parigina, resta ai margini: gli anziani, le donne alcoliste, i senzatetto. Qualcosa di molto simile a quanto Rebecca DeRoo ha ricostruito riguardo a Daguerréotypes (1974), un film, come dimostrano le carte d’archivio, impegnato politicamente, attento alla modernizzazione urbana in atto in quel periodo e all’influenza che questo processo stava avendo sulla vita quotidiana degli abitanti di alcuni quartieri di Parigi.[5] Qualche anno dopo, invece, l’artista sposta lo sguardo verso l’alto, fino alla sommità dei palazzi monumentali su cui sono collocate possenti cariatidi. A volte basta alzare gli occhi per scoprire particolari architettonici che altrimenti, nella frenesia quotidiana, ci sfuggono, come appunto avviene nel film su commissione Les dites cariatides (1984).

In questo lavoro Varda si colloca nel solco di una via maestra dell’arte e dell’estetica novecentesche, quella che parte dalle avanguardie storiche e che si sviluppa fino alle sperimentazioni degli ultimi decenni del secolo, in una coabitazione sempre più ambigua e complessa con le logiche dell’industria culturale e con le enormi trasformazioni delle società occidentali. È quella tecnica dello straniamento, del distanziamento critico e della messa a nudo del procedimento teorizzata dai formalisti russi e soprattutto da Viktor Šklovskij nell’Arte come procedimento, articolo-manifesto del 1917 poi incluso nel volume Una teoria della prosa (1929). Se è vero infatti che l’abitudine, argomenta Šklovskij, svuota le azioni e le esperienze della vita quotidiana, ridotte a puri riflessi meccanici, serve uno sguardo nuovo e diverso per restituire loro un senso, per farle vivere ancora. Perché ogni giorno «la vita scompare trasformandosi in nulla», una grigia superficie di segni che riconosciamo per abitudine, ma che non vediamo davvero: l’automatismo della percezione «si mangia gli oggetti, il vestito, il mobile, la moglie e la paura della guerra. […] Gli oggetti percepiti diverse volte, cominciano ad essere percepiti per “riconoscimento”: l’oggetto si trova dinanzi a noi, noi lo sappiamo, ma non lo vediamo».[6] È solo l’arte che può riscattare il mondo umano da questa degradazione, ma un’arte dinamica, creativa, consapevole di se stessa e dei suoi inevitabili artifici, che lavora intensamente la forma per farle sprigionare quello spessore e quel significato che la vita reale sembra avere perso: «ed ecco che per restituire il senso della vita, per “sentire” gli oggetti, per far sì che la pietra sia pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come “visione” e non come “riconoscimento”; procedimento dell’arte è il procedimento dello “straniamento” degli oggetti».[7]

È proprio quello che fa Varda – al tempo stesso fotografa, regista e cinescrittrice – quando filma le cariatidi che arredano, spesso non viste, la scenografia urbana di Parigi. Qui lo straniamento si traduce concretamente e visibilmente nelle inquadrature, nei movimenti di macchina, in figure e operazioni sulla forma – panoramiche verticali, contre-plongées, ingrandimenti di dettagli invisibili dal livello della strada – che offrono allo spettatore visuali oblique e stranianti, permettendogli davvero di vedere ciò che abitualmente sta sotto i suoi occhi, o sopra la sua testa. È appunto lo sguardo dell’artista che coglie qualcosa di nuovo e significativo nello sfondo anonimo della vita quotidiana, a partire dall’esistenza stessa di questi elementi architettonici così bizzarri. Come ha detto lei stessa descrivendo le fasi preparatorie del film, «nous qui avons pour métier de regarder, de faire voir ou d’informer, nous ne regardons jamais assez. Des cariatides, j’en connaissais une dizaine; j’en ai découvertes cinquante».[8]

 Les dites cariatides, 1984 Ciné-Tamaris Les dites cariatides, 1984 Ciné-Tamaris Les dites cariatides, 1984 Ciné-Tamaris

Viene in mente uno dei grandi flâneurs del primo Novecento, in un altro luogo classico dell’estetica modernista, cioè il giovane Stephen Dedalus che illustra ad un amico la teoria dell’epifania. Nello Stephen Hero, la prima stesura del Ritratto dell’artista da giovane su cui ha tanto insistito Giacomo Debenedetti,[9] Stephen spiega che un oggetto insignificante come l’orologio dell’ufficio della dogana di Dublino «era capace di comunicare un’epifania»: «Cranly interrogò con lo sguardo l’inscrutabile quadrante del Ballast Office con un’aria non meno inscrutabile. “Sì” disse Stephen. “Io gli passo davanti di tanto in tanto, me ne ricordo, mi riferisco ad esso, gli do un’occhiata: è soltanto un pezzo dell’arredamento di una strada di Dublino: poi tutto a un tratto ecco ch’io lo vedo, e lo ravviso per quello che è: un’epifania”».[10] Del resto, per tornare al cinema, è quello che aveva intuito Walter Benjamin rispetto alle tecniche del film e che, per quanto molto noto, vale la pena di riportare:

 

Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al rallentatore si dilata il movimento. E come l’ingrandimento non costituisce semplicemente chiarificazione di ciò che si vede comunque, benché indistintamente, poiché esso porta in luce formazioni strutturali della materia completamente nuove, così il rallentatore non fa apparire soltanto motivi del movimento già noti […]. Si capisce così che la natura [la realtà] che parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio.[11]

 

Tecniche come la panoramica (tra le prime ad essere sfruttate dagli operatori del cinématographe Lumière) rapidamente danno vita a un vero e proprio genere di vue metropolitana. Non è un caso che Les dites cariatides si apra con la visione in panoramica ascendente del corpo bronzeo di una cariatide che sorregge un lampione, quasi a citare una delle più celebri vedute dei Lumière, il Panorama pendant l’ascension de la Tour Eiffel, del 1897, dove il movimento verticale della macchina da presa collocata sull’ascensore sintetizza tutto: la modernità, il dinamismo, lo stupore e la prima meraviglia del cinema.[12]

Cosa ci fanno sui portoni di imponenti palazzi queste figure leggiadre di donne, spesso discinte se non proprio nude, che sembrano sostenere l’intero edificio? Com’è nata la tradizione di collocare queste strane statue a decorare, con la loro bellezza, gli stabili metropolitani? Flâneuse con la macchina da presa,[13] Varda ne ha parlato così:

 

Je me promenais dans Paris, je lisais et le thème s’est enrichi de lui-même quand j’ai remarqué que la plupart des cariatides de Paris datent des années 1860. Elle sont apparues sur le immeubles au cours de cette décennie culturellement prodigieuse, celle de Flaubert, Délacroix, Marx et Le Capitale, Offenbach et sa Belle Hélène… et sourtout Baudelaire qui me fascine. J’entends sa voix, ses poèmes habitent mes oreilles. L’association s’est faite comme ça et le film est devenu: les cariatides au moment des dernières années de Baudelaire.[14]

 

Les dites cariatides è un corto su commissione, come tanti realizzati da Varda. Occasioni, come lei stessa ha scritto, per rileggere poeti e rivedere bei film.[15] La proposta di filmare le cariatidi arrivò da Terry Wehn-Damisch per una serie intitolata Domino:

 

En Grèce où sont les originelles originales? Trop loin, trop cher. En 35 mm? Trop cher. On tourna en 16 mm à Paris les Cariatides Parisiennes et je réussis à lire des poèmes de Baudelaire en faisant caresser par la caméra les femmes-rêves de pierre. Je suis belle ô mortels.

 

Forse anche per la sua originaria passione per la storia dell’arte e per la fotografia, tante esperienze artistiche del secondo Ottocento hanno guidato il cammino artistico di Varda. La poesia e le riflessioni sull’arte di Baudelaire, cantore della modernità metropolitana, ricorrono spesso nei suoi percorsi audiovisivi. Les dites cariatides sembra davvero un’ode a Baudelaire e alla sua Parigi moderna, a partire dalla quale Varda crea un percorso nella rappresentazione del nudo femminile che attraversa la tradizione occidentale.[16] Come si diceva, il cortometraggio si apre con la visione in panoramica ascendente del corpo bronzeo di una cariatide: un corpo femminile leggiadro, esposto allo sguardo in una nudità armonica interrotta solo dal sottile panneggio che vuole dare l’illusione di coprire la zona pubica. Su questa inquadratura scorrono i titoli di testa. Nella sequenza di apertura, un uomo nudo è illuminato da un’altra cariatide. L’uomo entra progressivamente in campo mentre si dirige, di spalle, verso alcune strade parigine. La voce di Agnès Varda accompagna da subito le immagini, osservando come sia difficile vedere la nudità per le strade, fatta eccezione per quella delle statue, in pietra o in bronzo, e soprattutto delle cariatidi «che illuminano marciapiedi o decorano interi immobili con atteggiamento insieme grazioso e lascivo». La cariatide esprime una certa idea della donna in architettura: una bellezza decorativa, la grazia che sostiene il peso senza mostrare la forza corporea, senza sforzo.

 Les dites cariatides, 1984 Ciné-Tamaris Les dites cariatides, 1984 Ciné-Tamaris

Contrariamente a quanto avviene, invece, nel caso delle figure maschili che sorreggono altri immobili, atlanti con i muscoli possenti e in tensione.

 Les dites cariatides, 1984 Ciné-Tamaris

Le parole e le immagini di Varda portano così a riflettere su queste figure di pietra che raccontano la storia di una certa idea della donna, non solo in architettura ma nella società patriarcale e occidentale tutta:

 

J’ai remarqué que la statuaire de cette époque, comme la littérature, répétait les clichés. Aussi, les atlantes, qui sont des statues d’hommes porteurs sont représentés dans des positions marquant l’effort et la force… jusqu’à la contraction. Et les cariatides qui sont des statues de femmes porteuses semblent le faire avec charme, grâce et beauté! C’est rigolo car les immeubles ont le même poids pour tous. Et puis, j’ai observé aussi que sur deux cariatides, il y en a souvent l’une des deux plus nue que l’autre, celle de droite souvent, pourquoi?[17]

 

Dietro questi corpi di pietra si nascondono dunque i cliché di un’intera tradizione culturale che vuole la donna oggetto del desiderio, seducente ed eternamente bella, da ammirare come una dea o come un’immagine in cui specchiarsi. In apertura, a commentare le prime panoramiche sui corpi di pietra delle cariatidi, Varda pone i versi di Offenbach, in particolare il passo in cui la bella Elena si rivolge a Venere e le chiede perché la turba nella sua virtù: «Dis-moi, Vénus, quel plaisir trouves-tu, à faire ainsi cascader, cascader la vertu?». Varda però sceglie una voce maschile, quella di François Wertheimer,[18] che sembra rivolgersi a Venere, dea dell’amore, e, insieme, a tutte le donne. Così, i versi di Baudelaire rimandano al cliché dell’eterno femminino rivisitato, ri- e de-costruito, immerso nella visione di una contemporaneità che il poeta osserva senza veli, come i corpi spesso nudi delle cariatidi esposti sugli immobili. Il poeta de Les Fleurs du mal (1857) è un dandy ma anche un flâneur che non disdegna di mischiarsi alla folla della grande città, lasciandosi toccare dalla bellezza fuggitiva della passante senza nome. Anche il più grande dei poeti ha trascritto in immagini una certa idea della donna, celebrando una bellezza ammirata e odiata, salvifica e orrorifica come le donne che la incarnano, figure a metà tra le divinità dell’Olimpo e quelle ctonie, che vestono gli abiti effimeri ma seducenti delle mode contemporanee. La voce di Varda recita:

 

Les fleurs du mal
 
La Beauté
Je suis belle, ô mortels! comme un rêve de pierre,
Et mon sein, où chacun s’est meurtri tour à tour,
Est fait pour inspirer au poète un amour
Eternel et muet ainsi que la matière.
 
XLII
Je suis belle, et j’ordonne
Que pour l'amour de moi vous n’aimiez que le beau;
Je suis l’Ange gardien, la Muse et la Madone.

 

Varda chiude il cortometraggio raccontando come Baudelaire abbia abbandonato Apollonie Sabatier il giorno dopo averla finalmente posseduta.

Ripercorrendo a ritroso il cammino audiovisivo tracciato in Les dites cariatides, assumendo quello sguardo straniato che la regista propone innanzitutto raccontandoci la storia delle matrone di Karya fatte schiave dai persiani ed esposte al pubblico sguardo, questi corpi femminili decorativi nati come simbolo della vittoria di un popolo su un altro appaiono una chiara denuncia di una dinamica radicata nella cultura occidentale, in cui il corpo della donna è sempre un segno del discorso (in questo caso imperialista) maschile.[19] Se abbiamo alzato lo sguardo, se abbiamo ammirato la bellezza delle cariatidi,[20] dobbiamo ora elaborarne anche le ombre, il discorso politico che c’è dietro quell’antico segno e dietro l’architettura del Secondo Impero in cui sono apparse a Parigi. Con Baudelaire, dobbiamo vedere ‘i fiori del male’ ma, preferibilmente, oltre a vedere dobbiamo conoscere, fare esperienza collettiva della storia e di ciò che si nasconde dietro i segni del potere. Non essere vittime e carnefici, come in fondo anche il poeta, di una macchina del desiderio analizzata da Karl Marx in quegli stessi anni, che si fonda sulla moderna società borghese e capitalista. Anche se quello cantato dal poeta è un femminile sfaccettato, contraddittorio, estremo, la donna in Baudelaire, vista attraverso il filtro di Varda, sembra un altro emblema di quell’«atmosfera auratica» in cui Walter Benjamin vede immersa la cultura materiale dell’Ottocento, un «sogno» da cui bisogna (ancora) risvegliarsi.[21] Come la filosofia a cui fa riferimento il teorico in Su alcuni motivi in Baudelaire, Varda, straniando l’ottica rispetto alle belle cariatidi (architettura e potere) ma, in fin dei conti, anche rispetto all’amatissimo poeta (comunque uomo del suo tempo), ci invita a impossessarci «della “vera” esperienza, in contrasto con quella che si deposita nella vita regolata e denaturata delle masse civilizzate».[22]

 

2. Il volto di Elsa

Elsa la rose è un cortometraggio del 1966. Anche se non è stato raccolto da Varda tra i corti parigini nel cofanetto Varda tous courts, Parigi, in questo caso quella degli anni Venti, è in qualche modo uno dei personaggi principali, insieme al paysan de Paris Louis Aragon e a Elsa Triolet. Nei cortocircuiti del pensiero critico, bisogna anche ricordare che Walter Benjamin prende spunto proprio dalle riflessioni sul Passage dell’Opéra presenti in Le Paysan de Paris quando, nel 1927, inizia a lavorare al suo fondamentale studio incompiuto sui passages parigini. Come Varda cinquant’anni dopo nel caso di Daguerréotypes, Aragon celebra la magia quotidiana del passage, destinato a scomparire per via del progetto di ristrutturazione urbana del Barone Haussmann.

In Elsa la rose, però, Parigi è presente perché è stata la scena di un amore. Verso il 1965 Louis Aragon ed Elsa Triolet invitano i coniugi Demy per proporre un doppio progetto: Agnès dovrebbe realizzare il cortometraggio in cui lui racconta l’infanzia e l’adolescenza di Elsa, mentre Jacques filmare il racconto di lei sull’infanzia e l’adolescenza di Aragon. Vogliono raccontare, attraverso l’altro, ciò che ha preceduto il loro incontro. Elsa la rose viene realizzato nel 1966, in coproduzione con la Pathé, ma Louis quelque chose non fu mai realizzato, perché Demy aveva altri progetti (e forse, come racconta Varda, vedeva rischioso e vischioso questo racconto della vita di due coniugi scrittori fatto da due coniugi cineasti). Entrambi sono modesti quando parlano del proprio lavoro, però Varda sottolinea quanto Aragon fosse vanitoso: non a caso un motivo ricorrente nella sua poesia è quello dello specchio, e uno specchio a tre ante viene affittato per una delle scene più sofisticate e stranianti del cortometraggio.[23] La voce di Jean Ferrat, che ha messo in musica il poema Que serais-je sans toi, accompagna le immagini del poeta che si specchia nell’anta centrale dello specchio ma anche, in qualche modo, nell’occhio della macchina da presa che lo sta inquadrando. Il suo sguardo in macchina, che parte dal riflesso, proietta sullo spettatore un processo di rêverie di cui l’Elsa immaginata è la sostanza. La macchina da presa, attraverso uno zoom, si avvicina al volto riflesso del poeta mentre nel riquadro in alto compare una fotografia di Elsa sfocata, in cui non sono leggibili i contorni del volto dell’amata.

 Elsa la rose, 1965

Nell’inquadratura seguente c’è una fotografia di Elsa giovanissima, la quale si specchia a sua volta. La mdp compie lo stesso movimento verso il volto, ma in questa foto il riflesso della giovane Elsa non guarda la mdp, guarda se stessa: si guarda negli occhi e forse si vede, cosa che, pare dirci Varda, Aragon non fa perché, attraverso l’immagine che ha di una Elsa eternamente giovane e amata, continua a vedere se stesso.

 Elsa la rose, 1965

Poco più avanti, quando, contravvenendo alla consegna di Aragon, Varda racconta la Elsa successiva al loro incontro, la moglie della vita quotidiana ma anche l’artista e la scrittrice al lavoro nel suo studio, c’è un passaggio significativo da questo punto di vista, che è bello far raccontare alla regista: «il y a une scène-clé pour moi, quand j’ai filmé Aragon entrant dans le bureau d’Elsa: “Je te dérange?” Elle lui dit: “Mais non pas du tout, viens, tu peux t’asseoir, mais moi, quand je viens chez toi, tu me dis toujours: va-t-en, j’écris un poème à Elsa”». Elsa è sempre immaginata, mai reale. Per questo Aragon vuole raccontare, anche nel cortometraggio, la bambina e l’adolescente che non ha conosciuto e che può continuare a immaginare. Il cuore del soggetto, come ha scritto Varda, è proprio questo: «comment Aragon […] a transformé Elsa en personnage de légende qui inspire toutes ses œuvres».[24]

Le voci di Elsa la rose sono molte: quella di Aragon, quella di Elsa, quella di Varda (in pochissime occasioni), quella del cantante Jean Ferrat e quella dell’attore Michel Piccoli. Il cortometraggio si apre con un verso di Aragon che recita «je suis plein du silence assourdissant d’aimer», un silenzio necessario al ‘discorso amoroso’ (maschile), cioè il discorso «di qualcuno che parla dentro di sé, amorosamente, di fronte all’altro (l’oggetto amato), il quale invece non parla».[25] Agnès Varda, invece, fa parlare Elsa, le restituisce una voce che le consente di smarcarsi dal ruolo di oggetto del discorso amoroso, straniando la parola poetica di Aragon e l’idea che Aragon ha di lei come ‘eterno femminino’. Come per rompere questo discorso, per straniare ancora una volta lo spettatore, questa volta ricorrendo a una tecnica quasi brechtiana, Varda chiede a Piccoli di leggere le poesie. La voce stentorea di Aragon non rende quell’atmosfera di litania che, secondo lei, caratterizza i poemi dedicati a Elsa, che sono quasi come un rito religioso: «songeant à tout ce qui était incompréhensible dans les rituels et les litanies, j’ai demandé à Piccoli de lire ces poèmes à toute vitesse, au point d’être quasiment incompréhensible, avec des coups de frein sur certaines lignes, sur certains vers que je souhaitais qu’on entende et comprenne». Una vera e propria regia della parola poetica, dunque, che vuole farci entrare in contatto con il modo in cui Elsa percepisce quei versi che ha ispirato: «c’est ce rythme infernal des mots qui est le plus intéressant et original dans ce film: cette autre façon d’entendre ce que Aragon a écrit pour Elsa, et évidemment d’entendre l’effet que ça produisait sur une Elsa encore amoureuse qui essayait de faire la part des choses entre la littérature, la vie réelle et leur complicité».[26]

Il progetto su commissione cresce dunque nelle mani di Varda e prende una direzione autonoma e autoriale. La voce della regista si sente in particolare in due momenti, in entrambi i casi mentre dialoga con Elsa Triolet. Si tratta delle due sequenze in cui viene proposta allo spettatore una modalità documentaria al tempo stesso espositiva e partecipativa, per usare le categorie individuate da Nichols,[27] tanto attraverso l’intervista quanto attraverso la ripresa scarna, frontale. Questi momenti si pongono, nella tessitura discorsiva del testo, come luoghi della verità, e vengono sottolineati a livello sonoro anche dalla ripresa diretta all’aperto, in quello che immaginiamo essere il giardino di casa. Ma cosa chiede questa voce di donna artista (moglie di un cineasta) a un’altra donna artista (moglie di uno scrittore)? «Aragon dit toujours qu’il est une ombre à vos pieds…». Elsa risponde, infastidita e dolente, che il poeta non solo ha torto ma anche che le fa torto; è arrabbiata pure lei, come chi lo sente pronunciare questa frase vuota: sminuirsi in rapporto a lei in realtà ha l’effetto di sminuirla, perché non è credibile, perché è un atteggiamento paternalistico e perché, se fosse vero, non dovrebbe esserci bisogno di dirlo in continuazione.

Il secondo momento in cui le modalità espositiva e partecipativa si intrecciano è quello in cui Varda chiede a Elsa se essere celebrata in tanti poemi la fa sentire amata. La risposta non tarda ad arrivare, lucida e lapidaria come le precedenti e come tutti gli interventi che, nel corso del cortometraggio, Triolet fa, spesso dal fuori campo, smentendo le parole autoreferenziali di Aragon. No, non è la poesia che la fa sentire amata: è il resto, la vita.

  Elsa la rose, 1965

L’inquadratura è un primissimo piano. Come già all’inizio del film, quando a parlare di una Elsa sempre sfuggente era Aragon, la donna veste un cappello di pelliccia, che a lui ricorda quello che indossava la prima volta che l’ha incontrata. Qui, sul finale, malgrado la stessa situazione e la stessa inquadratura, il punto di vista è rovesciato, perché a parlare è Elsa e si percepisce che a guardarla, invece di Aragon, questa volta è Varda.[28]

In questi due cortometraggi di Varda troviamo molti motivi propri di tutto il suo cinema, insieme a un discorso femminile sulla donna che, nella sua cinécriture, prende forma e si chiarisce nel corso del tempo. Anche il corpo della donna, che la rappresentazione artistica vuole sempre giovane, florido, quel corpo già protagonista di Cléo de 5 à 7 (1962) che dialoga con i quadri di Baldung Grien sulla vanitas, con tema la morte e la fanciulla, viene sottratto o alla posa statuaria delle cariatidi, messa in movimento dal lavoro della macchina da presa, o alla condanna, nell’immagine ideale della poesia, dell’eterna giovinezza. Se Aragon voleva raccontare la sua Elsa sempre giovane da bambina e da adolescente, Varda fa emergere il disagio di questa imposizione e decide di filmare il volto di una Elsa «dans la pleine beauté de son troisième âge»:[29]

 

ELSA: Les lecteurs des ses poèmes ils s’attendent que j’ai vingt ans éternellement. Comme je ne peux pas satisfaire ce besoin de beauté, de jeunesse qu’il y a chez les lecteurs… et bien, je me sent coupable.

 

Evocando le origini del cinema ma anche le avanguardie Varda ci invita a un esercizio dello sguardo[30] che sia una vera e propria ginnastica dello spirito, perché dall’organo della vista la riflessione si estenda alla capacità critica e interpretativa di leggere la realtà circostante e le strutture dell’immaginario occidentale, legate, come spesso nei suoi film, a una certa idea della donna che bisogna decostruire.[31] Straniamento e disvelamento del dispositivo innescano un procedimento aptico e sentimentale, teso a costruire un soggetto e uno spettatore che osserva da una prospettiva sbilenca per vedere altro, per vedere ‘altrimenti’. Les dites cariatides si chiude con una panoramica ascensionale che dal volto della grande cariatide dell’angelo del 57 di rue Turbigo si innalza a scoprire i tetti affollati del ventre di Parigi, e non, come il panorama dei Lumière, la grandezza monumentale visibile dall’alto della Tour Eiffel.

Nel caso di Varda la visuale è sgombra e l’invito è ad aprire bene gli occhi per fare del guardare un vedere, nel solco della riflessione sull’Erfahrung, intesa come esperienza comunitaria mediata dalla voce della regista-narratrice.

 

* Tutte le immagini che accompagnano l'articolo sono fotogrammi dei film citati nel testo. Titolo e anno sono riportati nelle didascalie. Si ringrazia la Ciné-Tamaris per la gentile concessione delle immagini.


1 G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema [2002], Monza, Johan & Levi Editore, 2015, p. 21.

2 Ivi, p. 28.

3 Ivi, pp. 146-148.

4 Non è questa la sede per farlo perché è un altro l’obiettivo che mi sono posta, ma sarebbe interessante analizzare la dimensione odeporica del cinema di Varda, provando a definire come ella sia riuscita sempre ad assumere lo sguardo dell’altro. Lo ha fatto nei viaggi in paesi non occidentali ma lo ha fatto, in realtà, anche spostandosi in Francia e in Europa. Ciò è avvenuto, come nel caso di Roberto Rossellini ricostruito da Marco Dalla Gassa, facendo emergere uno ‘splendore del vero’ dovuto al fatto di mettersi in gioco sul versante dell’autorialità ma anche della scrittura del sé: cfr. M. Dalla Gassa, Orient (to) Express. Film di viaggio, etno-grafie, teoria d’autore, Milano-Udine, Mimesis, 2016, pp. 327-346.

5 «Archival research, however, uncovers previously unknown sources for Daguerréotypes, sources that illuminate the film’s engagement with contemporary politics, in particular, urban modernization and the transformation of everyday life that this entailed» (R. DeRoo, Agnès Varda between Film, Photography and Art, Berkeley, University of California Press, 2017, p. 86; ma cfr. tutto il capitolo 5, pp. 85-114).

6 V. Šklovskij, ‘’L’arte come procedimento [1917], in T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, Torino, Einaudi, 1968, pp. 82-83.

7 Ivi, p. 82.

8 A. Varda, Varda par Agnès, Paris, Cahiers du Cinéma, 1994, p. 266.

9 Cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento [1971], Milano, Garzanti, 1987, pp. 293-294.

10 J. Joyce, Le gesta di Stephen [1904-1905], Milano, SE, 1991, pp. 209-210.

11 W. Benjamin, ‘L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica’ [1935-1936], in Id., Aura e choc, Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti, A Somaini, Torino, Einaudi, 2012, pp. 42-43.

12 Come ricorda Antonio Somaini, Benjamin aveva del resto dedicato grande attenzione all’evoluzione dell’esperienza visiva a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e a tutti i media ottici come panorama, Kaiserpanorama, diorama, etc. Cfr. A. Somaini, ‘Introduzione’ alla sezione VII Architettura e città, in W. Benjamin, Aura e choc, p. 346. Sul nesso tra cinema e architettura nel cinema dei primi tempi si veda ancora G. Bruno, Atlante delle emozioni, pp. 27-42.

13 Le cineaste flâneuse andrebbero analizzate tutte più da vicino: cfr. il contributo in corso di stampa su Marina Spada di Chiara Tognolotti dal titolo Cartografie di emozioni. Luoghi e corpi del cinema di Marina Spada (Come l’ombra, 2006) che uscirà nel prossimo numero della rivista Cosmo, a cura di Cristina Jandelli e Chiara Simonigh.

14 A. Varda, Varda par Agnès, p. 266.

15 Ivi, p. 80.

16 Sul nudo in Varda c’è ancora molto da dire, ma si veda il recentissimo studio di Emma Wilson sul nudo reclinato come motivo ricorrente nel suo cinema: E. Wilson, The Reclining Nude. Agnès Varda, Catherine Breillat and Nan Goldin. Liverpool, Liverpool University Press, 2019. Cfr. anche il prezioso contributo della studiosa in questo speciale di Arabeschi.

17 A. Varda, Varda par Agnès, p. 266.

18 François Wertheimer è un artista poliedrico: musicista, cantante, attore, scrittore ha lavorato spesso con Agnès Varda nel corso del tempo, come interprete, ad esempio, in L’une chante, l’autre pas, ma anche in Les glaneurs et la glaneuse, per il quale scrive parte delle musiche. Per un approfondimento sulla presenza del riferimento all’operetta di Offenbach in questo film cfr. I. McNeil, ‘Ways of seeing in Agnès Varda’s Les dites cariatides (1984)’, in M.-C. Barnet (ed. by), Agnès Varda Unlimited. Image, Music, Media, Cambridge, Legenda, 2016, pp. 119-129 (ma si veda tutto il saggio: 109-125).

19 Penso al lavoro di Gayatri Chakavorty Spivak, che analizza anche Le Cygne di Baudelaire nei termini di una presenza della donna come segno, priva di una propria identità di soggetto: G.C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Roma, Meltemi, 2004, pp. 164-171.

20 Per la prossimità tra l’ideale di bellezza di Baudelaire e di Varda e, più in generale, per una lettura delle cariatidi come figure del tempo e espressione di una “certa idea della donna” tra fotografia (Francesca Woodman), riflessione teorico-critica (Marina Warner) e immagini in movimento (Varda) cfr. B. Seligardi, Lightfossil. Sentimento del tempo in fotografia e letteratura, Milano, Postmedia, 2002, pp. 31-56.

21 A. Somaini, Introduzione, pp. 345-348.

22 W. Benjamin, ‘Su alcuni motivi in Baudelaire’ [1939], in Id., Aura e choc, p. 164.

23 Tutto questo è raccontato da Agnès Varda in Varda par Agnès, p. 84.

24 A. Varda, Varda par Agnès, p. 84.

25 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso [1977], Torino, Einaudi, 2001, p. 5.

26 A. Varda, Varda par Agnès, p. 84.

27 Cfr. B. Nichols, Introduzione al documentario [2001], Milano, il Castoro, 2006.

28 Elsa la rose è dunque un film su Aragon e Elsa Triolet, ma anche sull’amore in generale. Il fatto che sia praticamente coevo all’ideazione e realizzazione di Le bonheur (1965) deve essere sottolineato e far riflettere.

29 A. Varda, Varda par Agnès, p. 84.

30 Beatrice Seligardi ha definito uno «sguardo allenato» quello che solo il flâneur può recuperare nello spazio metropolitano. Il riferimento è ancora al saggio di Walter Benjamin Su alcuni motivi in Baudelaire e alla condizione del poeta della vita moderna che non riesce più a farsi interprete della «complessità della realtà»: cfr. B. Seligardi, Ellissi dello sguardo. Pathosformel dell’inespressività femminile dalla cultura visuale alla letteratura, Milano, Morellini Editore, 2018, p. 30.

31 Anche Benezet, molto attenta nel suo studio a come Varda racconta e rappresenta la donna, conclude l’analisi del cortometraggio sottolineando come la regista si rifiuti di congelare Elsa Triolet nel ruolo della musa: cfr. D. Benezet, The cinéma of Agnès Varda. Resistance and Eclecticism, New York, Columbia University Press-Wallflower Press, 2014, pp. 112-116. Arte, donna, Parigi, volto: sono solo alcune delle voci che abbiamo raccolto, insieme a Luca Malavasi, per un volume dedicato ad Agnès Varda in uscita presso l’editore Scalpendi di Milano. Ringrazio, oltre al co-curatore, Delphine Benézet, Laura Busetta, Emanuele Crescimanno, Andreina Di Brino, Sandra Lischi, Giulia Lavarone, Beatrice Seligardi e Sara Tongiani per il proficuo dialogo e per i loro preziosi contributi. Un grazie speciale a Stefania Rimini e a Maria Rizzarelli che mi hanno fatto viaggiare, ancora una volta, nel cinema, nella letteratura e nell’arte con la profonda leggerezza di Agnès Varda.