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La lotta consiste nel fatto che il tiratore mira a se stesso – eppure non a se stesso – e così è insieme miratore e bersaglio, colui che colpisce e colui che è colpito.

E. Herrigel


 

Sono dodici le interviste che compongono il volume Vedere è tutto. Interviste e conversazioni (1951-1998), omaggio a Cartier-Bresson, edito recentemente da Contrasto a cura di Julie Jones e Clément Chéroux in occasione della più grande retrospettiva mai dedicata al fotografo francese dal Centre Pompidou di Parigi, curata dallo stesso Chéroux che ne dirige il Dipartimento di Fotografia e ancora per pochi giorni a Roma al Museo dell’Ara Pacis.

I testi abbracciano ben mezzo secolo di vita e di carriera dell’artista consentendo di rintracciare la sostanziale continuità, etica ed estetica, che ne ha guidato le scelte, scaturendo questa non tanto da una riflessione sistematica quanto da un’istintiva coerenza nei confronti dei propri princìpi, dalla fedeltà di uno sguardo a se stesso. Le parole di Bresson tuttavia ci restituiscono un’immagine di uomo e di artista niente affatto statica ed etichettabile, le cui scelte e i cui interessi appaiono come il frutto dell’entusiasmo di uno sguardo di volta in volta appagato dai diversi mezzi d’espressione visiva, uno sguardo spettatore e testimone di un mondo attraversato da grandi cambiamenti, i quali hanno inevitabilmente influenzato (in modo negativo secondo Bresson) sia il mestiere del fotografo sia la fruizione delle immagini da parte del pubblico.

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Leggere questo libro è stato prima di tutto un grande piacere. Un piacere degli occhi e delle mani. Gli occhi che attraversano le fotografie di Zoltan Fazekas; le mani che scorrono tra le pagine con la levità, la gaiezza, la forza che un ebook così costruito sa dare. Perché La regola di Korim è un vero libro digitale (Scrimm Edizioni, Catania 2014) e non la mera trasposizione elettronica di un volume cartaceo. No, questo libro non potrebbe essere analogico.

Non potrebbe esserlo per la misura delle immagini e per i loro dettagli; per la raffinatezza delle note a piè di pagina che scorrono nel loro angolo in maniera tanto funzionale quanto elegante; per le fotografie dentro la pagina, che si possono ingrandire ma anche semplicemente lasciare alla loro dimensione iniziale e osservare una dopo l’altra, non ‘in alternativa’ ma ‘accanto’ al testo scritto; per la possibilità di vedere in anteprima le pagine che compongono un intero capitolo; per l’estrema facilità con la quale si può sottolineare il testo, evidenziarlo, prendere appunti, scrivere note; per la funzione – utilissima – che permette di vedere raccolte in un’unica schermata o in singole ‘schede studio’ tutte le sottolineature e tutti gli appunti presi durante la lettura. Sì, è tutto quello che si fa con un libro stampato su carta ma anche di più, anche meglio e prima. L’eleganza del carattere, delle colonne e dei margini completa la bellezza di questo ‘oggetto’.

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Insondabile abisso / ove bellezza nasce da sconcezza, / da efferata dismisura la misura, / da disgrazia / la grazia.

G. Testori

 

«Io, critico – veramente – critico, mai fui; né, tanto meno, lo risulto e lo sono, adesso». Così dichiara Giovanni Testori in quella prefazione sui generis che introduce il pregiato libro edito da Franco Maria Ricci nel 1989 in riferimento alle «schede-poematiche» o «schede-versicoli», recentemente ripubblicate per i Classici Bompiani, che accompagnano le diverse raffigurazioni della Maddalena, dando vita a un singolare percorso, a un «maddalenesco tragitto», che si dispiega attraverso il dialogo tra immagini e parole.

Queste originali critiche in forma di poesia trovano posto nell’ultimo volume delle Opere (Vol. 3, Classici Bompiani, Milano, 2013) accanto agli scritti venuti alla luce tra il 1977 e il 1993, anno della morte dell’autore, fino ad oggi difficilmente reperibili, trattandosi di testi inediti o pubblicati soltanto in una prima edizione, come nel caso di quelli che introducono cataloghi d’arte, plaquettes, edizioni a tiratura limitata, e che qui ci interessano.

Testori non abbandona la forma del saggio, all’apparenza canonica, tuttavia non può fare a meno di trasformarla, per una sorta di necessità esistenziale, in un racconto-incontro di cui egli resta sempre, quantomeno, attore co-protagonista. Nella sua ricerca di umane consonanze non può sfuggire al bisogno di avere con l’opera e l’artista un contatto quasi carnale, un ‘corpo a corpo’, indispensabile per giungere ad una comprensione che sia davvero profonda, eppure, da critico, non è mai dimentico dei fatti concreti dell’arte, rifuggendo da astratte generalizzazioni, memore anche dell’insegnamento longhiano.

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The paper investigates the figure of René d’Harnoncourt as an illustrator of books dealing with Mexican culture (The Painted Pig and Mexicana. A Book of Pictures), prior the appointment as second Director of the Museum of Modern Art in New York. To better understand this particular activity, the author will outline his network during d’Harnoncourt mexican stay, followed by an analysis of both style and content of the books.

 

1. The illustrator who became Museum Director*

Count René d’Harnoncourt (Vienna 1901-Long Island 1968), diplomatic cultural mediator and insightful exhibition curator, is usually studied in his capacity of second Director of Museum of Modern Art in New York, therefore his activity as a book illustrator remains mostly unknown. This paper examines two books he illustrated between 1930 and 1931, in order to analyze and highlight this particular skill he maintained throughout his life. Indeed, even during his busy MoMA years, d’Harnoncourt continued sketching installation devices and views of installation devices for museum shows. Drawing was not a secondary activity, but rather the basis of his conception and practice of visualizing (and understanding) spatial and cultural phenomena.

D’Harnoncourt officially held the position of museum director, from 1949 to 1968, under the Rockfellers patronage. In fact he acted as close collaborator and counselor for the collection of so-called “primitive” art assembled by Nelson Aldrich Rockefeller (1908-1979). This collection represents the foundational core of the Museum of Primitive Art (1954-1974), which was then transferred to a proper wing at the Metropolitan Museum, and finally opened to the public in 1982.

The prolific exchange between the director and the collector has been recently traced thanks to a major show entitled The Nelson A. Rockefeller Vision: In Pursuit of the Best Arts of Africa, Oceania, and the Americas (October 8, 2013-October 5, 2014), which included a section devoted to the exhibition of d’Harnoncourt notebooks. In their structure, divided into Catalog and Desiderata, enriched with sketches, photographs, maps, and bibliography, these documents outline the development of the canon of primitive art in the US, and help to reconstruct the collecting interest in the City during the 1950s.

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Abstract: ITA | ENG

Nel maggio 1908 Hugo von Hofmannsthal intraprende un viaggio in Grecia alla scoperta del legame ideale che unisce la cultura classica e la modernità. In un primo momento l’esperienza si rivela deludente, poiché il poeta sembra fallire nel suo intento. Dal soggiorno in Grecia nascerà invece il racconto Augenblicke in Griechenland, la storia di un pellegrinaggio spirituale alla ricerca di un sapere culturale dimenticato, che culmina con l’ekphrasis delle statue esposte nel museo dell’Acropoli Ateniese. L’esperienza estetica delle opere d’arte antiche rappresenta qui il momento di epifania, che rende possibile l’incontro con l’Altro culturale della Grecia e al contempo fornisce l’ispirazione che inaugura l’atto poietico. Attraverso una complessa poetica dello sguardo, dunque, la scrittura di Hofmannsthal nasce sotto il segno dell’ekphrasis, quale atto di memoria scaturito dalla tensione tra archivio iconografico antico e letteratura. Essa inscrive al suo interno la costitutiva ambivalenza del discorso ecfrastico, in una costante oscillazione tra iconofilia e iconofobia, attrazione e ansia verso l’alterità testuale o culturale. Il superamento di tale ambivalenza, l’incontro con l’Altro antico, coincide quindi con la sintesi di verbale e visuale, che sprigiona la sua enargeia nell’atto performativo dello Zeigen, spingendo infine la scrittura oltre i propri confini e oltre la materialità stessa dell’immagine, a favore dell’epifania dell’essenza nel suo puro apparire.

In May 1908 Hugo von Hofmannsthal leaves for Greece in order to find out the ideal link bringing together ancient and modern culture. At first the poet is disappointed by his experience, as if he had missed his target. Instead, the stay in Greece will result in the short story Augenblicke in Griechenland, which tells about an inner pilgrimage in search of forgotten cultural knowledge, and culminates with the ekphrasis of the statues on display in the museum of the Athenian Acropolis. The aesthetic experience of the ancient works of art represents here the moment of epiphany, i.e. the encounter with cultural Other, and, at the same time, the moment of inspiration inaugurating the poietic act. Hofmannsthal’s writing, thanks to its complex poetics of the gaze, comes out as inherently ekphrastic, inasmuch as it represents an act of remembrance stemming from the tension between literature and ancient iconographic heritage. Moreover, it involves the inherent ambivalence of ekphrastic discourse, constantly oscillating between iconophilia and iconophobia, attraction and anxiety towards alterity, be this latter textual or cultural. The overcoming of the ambivalence, as encounter with the ancient Other, coincides with the synthesis of visual and verbal, that releases its enargeia with the performative act of Zeigen and pushes writing beyond its own limits as well as beyond the very materiality of image, allowing the epiphany of essence in its pure appearance.

 

Nel dicembre del 1907 il poeta Hugo von Hofmannsthal e il conte Harry Kessler, che si conoscono ormai da circa dieci anni, cominciano a progettare un viaggio in Grecia. Riguardo a questo viaggio Hofmannsthal commenterà più tardi che si è trattato dell’unico vero viaggio della sua vita, dal momento che, al confronto con esso, i viaggi in Italia, in Francia, e Inghilterra gli sembrano solo delle ‘passeggiate’ in diverse regioni di una stessa cultura.[1] Le aspettative dei due futuri compagni di viaggio vengono accresciute dalla lettura di alcune annotazioni dal diario di Gerhart Hauptmann, pubblicate nel gennaio 1908 sul Neuen Deutschen Rundschau con il titolo Aus einer Griechischen Reise.[2] Da quanto riporta Götz,[3] Kessler e Hofmannsthal pensavano alla Grecia come a un’Arcadia romantica,[4] sebbene il primo, al contrario del secondo, la conoscesse già. La partenza ha luogo nel maggio del 1908. Ai due amici si aggiunge anche il pittore francese Aristide Maillol, che Kessler proteggeva sin dal 1905.

Come spiega il conte Kessler in una lettera alla sorella, Hofmannsthal decise di interrompere il viaggio in Grecia anzitempo: «Hofmannsthal in Greece was a failure: il ne se retrouvait pas. He was almost always out of sorts, out of temper, or out of feeling with the surroundings. After ten days of much sufferings, he left us, to our mutual contentment […] he said he could not stand the barrenness of the country […]».[5] È probabile che Hofmannsthal fosse turbato dalla circostanza del ménage à trois creatosi in seguito alla decisione di Kessler di includere nel viaggio anche il pittore August Maillol.[6] La Grecia inoltre cominciava ad apparire al poeta «al momento del viaggio – anche come ambiente culturale – più lontana che vicina»,[7] tanto da giungere a dubitare di avere orientalizzato troppo la grecità nelle sue opere.[8] Da Kessler, infatti, si apprende che il poeta lamenta di avere perso la propria ‘fede’ nella grecità, dal momento che essa gli appare sfuggente, inafferrabile. Hofmannsthal aspira a una visione chiara della Grecia, ma tuttavia non riesce a ottenerla.[9]

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…in verità non siamo che immagini e somiglianze; artificio, simulacro, imitazione, copia, eco, invenzione, arte, falsità.

Max Aub

 

«Io sono un voyeur. Penso che qualsiasi fotografo sia un voyeur: che faccia fotografie erotiche o altro è comunque un voyeur. Si passa la vita a guardare attraverso un buco della serratura. Se un fotografo dice di non essere un voyeur è un idiota» (Newton, Grafis 1989). Non c’è risposta migliore, alla sfacciata provocazione di Helmut Newton, della mostra di Nan Goldin, che esibisce fin dal titolo l’idea che la fotografia consista innanzitutto nell’esercizio del guardare. Il recupero della dizione arcaica “scopophilia” (“amore per il guardare” ma anche “perversione sessuale”) intende ribadire la centralità del desiderio come traccia e forma della sua scrittura, da sempre votata al racconto per immagini delle zone più recondite del ‘sentire’ dei personaggi, figure di un eros instabile, pulsante, a tratti persino ‘indecente’ (si pensi alla potenza di The Ballad of Sexual Dependence).

Il progetto Scopophilia nasce per effetto di un sistematico e appassionato pellegrinaggio al Louvre: per molti mesi, ogni martedì – giorno di chiusura al pubblico – Goldin visita le stanze e fotografa, catturando attraverso l’obiettivo la cifra segreta dei grandi capolavori dell’arte. Il contatto ravvicinato con le opere rende possibile una straordinaria messa a fuoco di segni e dettagli, da cui scaturisce l’idea di accostare ai quadri e alle statue immagini vecchie e nuove del suo vivido catalogo di soggetti. L’esito di tale corpo a corpo è una rete di sorprendenti rime visuali, di citazioni, di pose, un sistema di somiglianze che toglie il fiato, per la forza inedita degli accostamenti, e rimette in discussione il concetto stesso di imitazione.

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«Quale rapporto intercorra tra la parola tipografica – quella poetica in particolare – e il gesto grafico del disegnatore, il colpo di pennello del pittore, il tratto di china del fumettista, il frame congelato del videoartista; in che modo questo rapporto si sia evoluto, modificato, arricchito nel tempo, […] sono questi, ci pare, i problemi fondamentali da cui partire per avviare una riflessione sul nesso arte-poesia […]». Così Riccardo Donati apre la Prefazione al volume Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione (Le Lettere, Firenze 2014), introducendoci nella trattazione, di ampio respiro, del rapporto tra poesia e arti della visione che è, nelle sue più differenti declinazioni, pur sempre una questione di designazione e assimilazione di codici differenti.

All’incrocio di arte della visione e arte dell’enunciazione si situa lo ‘sguardo’ del poeta che diviene parola-guida dei capitoli nei quali si analizzano le quattro differenti «forme del vedere arte in poesia» (p. 13) e i loro rappresentanti più significativi del Novecento italiano. Il lavoro di Donati instaura dialoghi, spesso inaspettati, tra poeti e autori non di rado distanti fra loro. È cioè sottesa a questa mappatura di sguardi novecenteschi la visione critica dello studioso che non teme di farsi ardita e fornire una chiave di lettura, tra le tante possibili, di una materia così eterogenea: ogni capitolo ha, dunque, la dichiarata natura di percorso, avventuroso ma costantemente guidato. Il pericolo del disorientamento è scongiurato dalle coordinate metodologiche e interpretative che Donati fornisce prima, per traghettarci, poi, lungo un viaggio che procede attraverso una scansione erudita e argomentativa in cui si chiamano in causa direttamente i testi offrendo, così, una ricognizione attenta e originale del panorama culturale considerato.

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Nouvelles histoires de fantômes è l’ultima mostra curata dallo storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman, in collaborazione con Arno Gisinger. Un essai visuel, secondo la definizione dello stesso autore, che ricompone nello spazio del Palais de Tokyo e attraverso il dispositivo dell’esposizione molti snodi cruciali del suo pensiero. Come per Atlas. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas? (Reina Sofia, 2010), e a distanza di oltre dieci anni dalla pubblicazione di L’Image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg (2002), la matrice centrale dell’intera operazione, la sua ‘cassetta degli attrezzi’, è l’Atlante della memoria di Warburg.

Centrale per la modalità di orientamento attraverso le immagini proposta dai pannelli del Bilderatlas warburghiano (Devant le temps. Histoire de l’art et anachronisme des images, 2000); per il tema delle Pathosformel e della loro trasmissione, che Didi-Huberman sviluppa in direzione di una riflessione critica costante sul presente, con il concetto di ‘sopravvivenza’ che si trasforma in quello di resistenza politica (Survivance des lucioles, 2009). E ancora, per le modalità attraverso cui le immagini vengono associate tra loro, con l’atlante e il montaggio individuati come temi-figure tra loro correlati e comuni a tutta una generazione di intellettuali tedeschi. È il caso ad esempio del Kriegsfibel di Bertold Brecht, il ‘sillabario’ composto nella forma di un atlante fotografico sul tema della guerra (Quand les images prennent position. L’Œil de l'histoire 1, 2009) che Didi-Huberman non a caso inserisce tra le proiezioni in mostra.

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«Quello che mi interessa – sostiene Paolo Gioli – è la formidabile capacità che la materia fotosensibile ha nel manomettere e immaginare, quasi sempre drammaticamente, ogni cosa tocchi. Prima dell’immagine c’è la materia».

Ridurre, sgretolare, trasformare la fotografia in materia fotografica, in qualcosa di malleabile per poi manipolarla: la metodologia di ricerca di Paolo Gioli percorre da sempre questo binario. La mostra Abuses. Il corpo delle immagini (Villa Pignatelli – Casa della fotografia, Napoli 12 aprile-1 giugno 2014, a cura di Giuliano Sergio), una selezione di oltre cento immagini dell’artista veneto, affronta alcuni dei temi attorno i quali ruota l’intero lavoro e il percorso artistico di Paolo Gioli: l’indagine sul corpo, in tutte le sue sfaccettature, e sulla natura morta.

In un’epoca nella quale la tecnologia ha reso difficile rintracciare la specificità del mezzo fotografico, avvicinando la fotografia stessa a quella «condizione postmediale» descritta da Rosalind Krauss, Paolo Gioli riesce a fermare l’istante sottraendolo all’effimero dell’esperienza ordinaria attraverso la costruzione di immagini fatte di innesti, suture e artifici.

L’artista oltrepassa, in tal modo, i confini strutturali dell’immagine restituendola all’osservatore in tutta la sua drammaticità. Quella di Gioli è un’operazione che oserei definire di archeologia visuale, caratterizzata dall’esplorazione incessante dell’intero universo dei processi fotografici proto-storici, storici e moderni: dal foro stenopeico, al classico procedimento positivo/negativo, al positivo diretto su diversi formati polaroid. La fotografia di Gioli (e le opere in mostra ne sono una prova) porta, dunque, alle estreme conseguenze l’intera parabola evolutiva di quella riproducibilità tecnica postulata da Benjamin, estremizzandone dinamiche e processi, e rendendo palesi i meccanismi ad essa interni e le difficoltà e incertezze da essa derivanti.

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