Insondabile abisso / ove bellezza nasce da sconcezza, / da efferata dismisura la misura, / da disgrazia / la grazia.
G. Testori
«Io, critico – veramente – critico, mai fui; né, tanto meno, lo risulto e lo sono, adesso». Così dichiara Giovanni Testori in quella prefazione sui generis che introduce il pregiato libro edito da Franco Maria Ricci nel 1989 in riferimento alle «schede-poematiche» o «schede-versicoli», recentemente ripubblicate per i Classici Bompiani, che accompagnano le diverse raffigurazioni della Maddalena, dando vita a un singolare percorso, a un «maddalenesco tragitto», che si dispiega attraverso il dialogo tra immagini e parole.
Queste originali critiche in forma di poesia trovano posto nell’ultimo volume delle Opere (Vol. 3, Classici Bompiani, Milano, 2013) accanto agli scritti venuti alla luce tra il 1977 e il 1993, anno della morte dell’autore, fino ad oggi difficilmente reperibili, trattandosi di testi inediti o pubblicati soltanto in una prima edizione, come nel caso di quelli che introducono cataloghi d’arte, plaquettes, edizioni a tiratura limitata, e che qui ci interessano.
Testori non abbandona la forma del saggio, all’apparenza canonica, tuttavia non può fare a meno di trasformarla, per una sorta di necessità esistenziale, in un racconto-incontro di cui egli resta sempre, quantomeno, attore co-protagonista. Nella sua ricerca di umane consonanze non può sfuggire al bisogno di avere con l’opera e l’artista un contatto quasi carnale, un ‘corpo a corpo’, indispensabile per giungere ad una comprensione che sia davvero profonda, eppure, da critico, non è mai dimentico dei fatti concreti dell’arte, rifuggendo da astratte generalizzazioni, memore anche dell’insegnamento longhiano.
Nel saggio del 1978 L’orafo fedele e disperato, che introduceva il catalogo della mostra Morlotti. “Teschi” 1974-1977, Testori interseca più livelli che alternano il ricordo biografico alla riflessione esistenziale, imbastendo una trama di reminiscenze letterarie e figurative, e tracciando le linee di una topografia sentimentale che accomuna il pittore e lo scrittore. Il teschio, oggetto che sin da bambino lo aveva affascinato (quasi una premonizione di quella sua futura e ininterrotta ‘conversazione con la morte’), è l’elemento che unifica i vari piani del testo. Esso infatti rimanda alla tradizione iconografica del memento mori, così diffusa in quel Seicento lombardo di cui sia Testori che Morlotti sono figli (pensiamo ai tanti teschi raffigurati nelle nature morte come nei ritratti) e allo stesso tempo consente di portare il discorso su un piano morale, in direzione di un esistenzialismo cristiano che intende la vita come un ‘essere-per-la-morte’, consapevole della vanità di ogni azione umana.
Ricordi di luoghi, di sapori, di suoni (quelli del dialetto della Valassina), di una Lombardia popolare evocata anche attraverso le citazioni manzoniane e le tele del Ceruti, costituiscono il saggio Variazioni sopra un canto (1992), inno ad un paesaggio dell’anima, dedicato, dice Testori, «alla giovinezza di Morlotti; e alla mia».
Cristo e il Samurai (1985) è invece il «racconto critico» che narra l’incontro col pittore giapponese Kei Mitsuchi. Nella sua pittura Testori ritrova il proprio tormento, quello del corpo, di un’antica, michelangiolesca bellezza, ormai perduta e disfatta, di un’innocenza irrecuperabile, della solitudine e dell’emarginazione, ma soprattutto in essa vede il manifestarsi di uno scandalo, che rimanda a quello originario e più grande del Cristo crocifisso. Questo scandalo Mitstuchi sembra riviverlo su di sé, divenendo egli stesso figura ‘cristica’ e unico, ossessivo, soggetto dei suoi quadri. A proposito di alcuni disegni Testori scrive: «la matita, più che disegnare, sembrava ferire, ustionare e bruciare la carta» mentre la materia di certi dipinti «si mostrava sublime e, insieme, repellente. V’era in quei quadri, qualcosa che attirava e, insieme, respingeva». Uno stesso urlo sembra uscire fuori dalle tele di Mitsuchi come dalle pagine testoriane (pensiamo a quello di Gino Riboldi di In Exitu): è un grido d’amore e disperazione ma anche un richiamo alla responsabilità dell’essere uomini.
Le poesie che compongono Maddalena (didascalie in versi) rappresentano il culmine di questo approccio critico eterodosso, improntato alla soggettività più estrema, tanto nei contenuti quanto nel linguaggio. Testori si accosta così vicino alle immagini della donna da farci, lo scrive lui stesso, il «lingua-in-bocca», da giacerci «sdraiato di fianco» «come dentro un letto». Attraverso queste figure delinea «un sunto, strozzatissimo, di storia dell’arte» che, partendo da quella «Sottilissima / bizantina ancóra» dipinta da Duccio, approda a quella di Cézanne che pare fatta di «Fango, / inchiostro, / bluastro sterco». Egli non si limita ad osservare e descrivere, ciò che gli preme è piuttosto renderle persone reali, esseri di carne con cui condividere la tragedia del peccato e del dolore, entrare in dialogo con loro. Anche qui il poeta-critico non si fa scrupolo di cedere al dato biografico, cosa in certi casi inevitabile, come a proposito dell’amato, e studiatissimo, Gaudenzio, né risparmia giudizi asprissimi nei confronti di quella Maddalena troppo mondana del Bachiacca che Cristo se lo è «messo / nella borsetta-Gucci».
Identiche istanze, etiche ed estetiche, sono presenti nelle poesie riunite da Raboni sotto il titolo Segno della gloria; si tratta di componimenti d’occasione scritti tra il 1985 e il 1992 dedicati però ad artisti contemporanei: i rappresentanti della nuova arte tedesca (Fetting, Rainer, Lüpertz, Albert) della cui fama in Italia fu promotore, e gli italiani come Morandi, Marini, Vitali, Gabai, Cucchi.
Insieme alle poesie del Segno della gloria ed alle Variazioni dedicate rispettivamente a Michelangelo e Caravaggio, i componimenti ispirati alla Maddalena si presentano come la prova definitiva, e forse più alta, del rifiuto testoriano nei confronti di un approccio puramente filologico e oggettivista, in favore di una scrittura critica che giunge ad adottare la forma poetica e a far proprie le radicali sperimentazioni linguistiche dell’ultima fase della sua opera creativa, nel solco di Verbò e di In Exitu, anch’essi compresi nel volume.
La parola di Testori, barocca, ambigua, contaminata, si fa materia. È parola che si contorce e si piega per meglio aderire al suo oggetto ma al contempo lo trascende per ricrearlo in altra forma, quella delle proprie ossessioni. È una scrittura che richiede fatica, inchioda il lettore e lo obbliga ad investire in essa una parte sé, ma alla quale senz’altro si perdona qualche forzatura.