L’ekphrasis come principio dell’atto poietico negli Augenblicke in Griechenland di Hugo von Hofmannsthal

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Nel maggio 1908 Hugo von Hofmannsthal intraprende un viaggio in Grecia alla scoperta del legame ideale che unisce la cultura classica e la modernità. In un primo momento l’esperienza si rivela deludente, poiché il poeta sembra fallire nel suo intento. Dal soggiorno in Grecia nascerà invece il racconto Augenblicke in Griechenland, la storia di un pellegrinaggio spirituale alla ricerca di un sapere culturale dimenticato, che culmina con l’ekphrasis delle statue esposte nel museo dell’Acropoli Ateniese. L’esperienza estetica delle opere d’arte antiche rappresenta qui il momento di epifania, che rende possibile l’incontro con l’Altro culturale della Grecia e al contempo fornisce l’ispirazione che inaugura l’atto poietico. Attraverso una complessa poetica dello sguardo, dunque, la scrittura di Hofmannsthal nasce sotto il segno dell’ekphrasis, quale atto di memoria scaturito dalla tensione tra archivio iconografico antico e letteratura. Essa inscrive al suo interno la costitutiva ambivalenza del discorso ecfrastico, in una costante oscillazione tra iconofilia e iconofobia, attrazione e ansia verso l’alterità testuale o culturale. Il superamento di tale ambivalenza, l’incontro con l’Altro antico, coincide quindi con la sintesi di verbale e visuale, che sprigiona la sua enargeia nell’atto performativo dello Zeigen, spingendo infine la scrittura oltre i propri confini e oltre la materialità stessa dell’immagine, a favore dell’epifania dell’essenza nel suo puro apparire.

In May 1908 Hugo von Hofmannsthal leaves for Greece in order to find out the ideal link bringing together ancient and modern culture. At first the poet is disappointed by his experience, as if he had missed his target. Instead, the stay in Greece will result in the short story Augenblicke in Griechenland, which tells about an inner pilgrimage in search of forgotten cultural knowledge, and culminates with the ekphrasis of the statues on display in the museum of the Athenian Acropolis. The aesthetic experience of the ancient works of art represents here the moment of epiphany, i.e. the encounter with cultural Other, and, at the same time, the moment of inspiration inaugurating the poietic act. Hofmannsthal’s writing, thanks to its complex poetics of the gaze, comes out as inherently ekphrastic, inasmuch as it represents an act of remembrance stemming from the tension between literature and ancient iconographic heritage. Moreover, it involves the inherent ambivalence of ekphrastic discourse, constantly oscillating between iconophilia and iconophobia, attraction and anxiety towards alterity, be this latter textual or cultural. The overcoming of the ambivalence, as encounter with the ancient Other, coincides with the synthesis of visual and verbal, that releases its enargeia with the performative act of Zeigen and pushes writing beyond its own limits as well as beyond the very materiality of image, allowing the epiphany of essence in its pure appearance.

 

Nel dicembre del 1907 il poeta Hugo von Hofmannsthal e il conte Harry Kessler, che si conoscono ormai da circa dieci anni, cominciano a progettare un viaggio in Grecia. Riguardo a questo viaggio Hofmannsthal commenterà più tardi che si è trattato dell’unico vero viaggio della sua vita, dal momento che, al confronto con esso, i viaggi in Italia, in Francia, e Inghilterra gli sembrano solo delle ‘passeggiate’ in diverse regioni di una stessa cultura.[1] Le aspettative dei due futuri compagni di viaggio vengono accresciute dalla lettura di alcune annotazioni dal diario di Gerhart Hauptmann, pubblicate nel gennaio 1908 sul Neuen Deutschen Rundschau con il titolo Aus einer Griechischen Reise.[2] Da quanto riporta Götz,[3] Kessler e Hofmannsthal pensavano alla Grecia come a un’Arcadia romantica,[4] sebbene il primo, al contrario del secondo, la conoscesse già. La partenza ha luogo nel maggio del 1908. Ai due amici si aggiunge anche il pittore francese Aristide Maillol, che Kessler proteggeva sin dal 1905.

Come spiega il conte Kessler in una lettera alla sorella, Hofmannsthal decise di interrompere il viaggio in Grecia anzitempo: «Hofmannsthal in Greece was a failure: il ne se retrouvait pas. He was almost always out of sorts, out of temper, or out of feeling with the surroundings. After ten days of much sufferings, he left us, to our mutual contentment […] he said he could not stand the barrenness of the country […]».[5] È probabile che Hofmannsthal fosse turbato dalla circostanza del ménage à trois creatosi in seguito alla decisione di Kessler di includere nel viaggio anche il pittore August Maillol.[6] La Grecia inoltre cominciava ad apparire al poeta «al momento del viaggio – anche come ambiente culturale – più lontana che vicina»,[7] tanto da giungere a dubitare di avere orientalizzato troppo la grecità nelle sue opere.[8] Da Kessler, infatti, si apprende che il poeta lamenta di avere perso la propria ‘fede’ nella grecità, dal momento che essa gli appare sfuggente, inafferrabile. Hofmannsthal aspira a una visione chiara della Grecia, ma tuttavia non riesce a ottenerla.[9]

La travagliata esperienza di quel viaggio più tardi costituì la base per i tre capitoli degli Augenblicke in Griechenland, il cui processo di scrittura fu altrettanto lungo e complesso.[10] La prima parte fu scritta immediatamente dopo la partenza di Hofmannsthal dalla Grecia, e fu pubblicata nel giugno del 1908 sulla rivista berlinese Morgen con il titolo Ritt nach Phokis. Das kloster des Heiligen Lukas; la seconda parte, Der Wanderer, pianificata già dal 1909, fu completata solo nel 1912 e venne poi pubblicata nel 1917 insieme alla terza e ultima parte del testo, intitolata Die Statuen, nel III volume dei Prosaischen Schriften. Come si vede, dal dato biografico alle vicissitudini della pubblicazione del racconto, tutto testimonia della particolare difficoltà del rapporto tra il poeta, la cultura e il paesaggio greci.

Con il viaggio in Grecia, Hofmannsthal intende partire alla scoperta dell’Altro antico. In particolare, si tratta di comprendere il «valore della cultura classica nell’orizzonte della modernità»,[11] confrontandosi con le sorgenti stesse della memoria culturale della civiltà occidentale. Altrove, tuttavia, lo stesso Hofmannsthal afferma: «Die Reise nach Griechenland ist von allen Reisen, die wir unternahmen, die geistigste».[12] Il viaggio finisce per diventare una sorta di pellegrinaggio spirituale: il viaggiatore, infatti, prima di poter giungere all’incontro con l’Altro dell’antichità, deve inoltrarsi nelle profondità del proprio io, alla ricerca di un sapere culturale rimosso. Sarà proprio a partire dal rimosso, attraverso lo stimolo fornito dall’esperienza estetica, dalla visione delle opere d’arte antiche, che questo sapere dimenticato potrà tornare in superficie e farsi ispirazione per la scrittura.

La scrittura di Hofmannsthal negli Augenblicke in Griechenland si presenta allora quale atto di memoria, che scaturisce essenzialmente dalla tensione tra archivio iconografico dell’antichità e letteratura: una scrittura immaginale che fa dell’atto performativo dello Zeigen del discorso ecfrastico il mezzo attraverso il quale si innesca l’atto poietico.[13]

Negli Augenblicke in Griechenland la costitutiva ambivalenza dell’ékphrasis, che inscrive al suo interno il problematico rapporto con l’Altro,[14] si riflette nell’atteggiamento del soggetto nei confronti dell’Alterità della cultura antica:[15] un atteggiamento che alterna ammirazione e ansia, iconofilia e iconofobia. Il superamento dell’ambivalenza, che consente di accedere all’essenza dell’Antico eliminando ogni senso di estraneità, presuppone dunque allo stesso tempo lo scopo precipuo del discorso ecfrastico: il superamento dell’alterità costitutiva del rapporto immagine-testo.[16]

L’ambivalenza iniziale è già presente nel doppio senso degli Augen-blicke del titolo, che possono interpretarsi sia come ‘momento’, sia come ‘sguardi’: è proprio attraverso lo sguardo, ovvero attraverso l’esperienza estetica, che la vera essenza delle cose si rende accessibile al poeta. Da qui il riferimento al ‘momento pregnante’, quel momento di epifania in cui proprio l’esperienza estetica della visione fornisce l’ispirazione che inaugura l’atto poietico, quale scrittura che nasce sotto forma di ekphrasis.

In questo contesto è possibile rileggere gli Augenblicke in Griechenland come una vera e propria poetica degli sguardi, il cui discorso ecfrastico si esplica lungo tutto il testo: sebbene il frammento ecfrastico vero e proprio si trovi solo alla fine, tutto il testo prepara il lettore al superamento dell’Alterità che esso realizza.

Nella prima parte il poeta-viaggiatore tenta, attraverso il proprio sguardo, di costruire una topografia del paesaggio naturale greco. All’inizio il paesaggio è desolato: «mit der Öde von Jahrtausenden und nichts als einer raschelnden Eidechse überm Weg und einem kreisenden Sperber hoch oben in der Luft».[17] La vegetazione diviene sempre più rigogliosa man mano che i viaggiatori si avvicinano al chiostro del monastero, al quale sono diretti, e il paesaggio acquista poi tratti idilliaci. Come sottolinea Brandstetter,[18] il viaggiatore legge il paesaggio alla ricerca delle tracce dell’antichità cui si sono sovrapposte le «strutture di potere cristiano patriarcali». La via verso Delfi coincide con la ricerca di un sapere rimosso: «Man blickt ihre Jahrhunderte hinab wie in eine Zisterne, und in Traumtiefen unten liegt das Unerreichliche. Aber hier ist es nah. […] hier ist das Arkadien vieler Träume, und es ist kein Traum».[19]

Il viaggio in Grecia, dunque, si configura sempre più come un viaggio interiore, in cui il narratore non si limita a descrivere ciò che vede, ma, come nota Gerke, «con i pensieri lascia vagare anche la fantasia, amplificando l’impressione visiva fino a trasformarla in un’immagine visionaria, oppure ponendo davanti al proprio occhio interiore ciò che non è più direttamente visibile».[20] Per Hofmannsthal l’incontro con l’Altro antico può aversi solo attraverso l’incontro con un «sapere culturale dimenticato»:[21] la memoria come atto poietico nasce da una sorta di moto autoriflessivo che, pur partendo dalla percezione (visiva) del mondo, si rivolge poi all’interno del soggetto, alla ricerca di un elemento inconscio, rimosso, che può riemergere solo in una forma visionaria.

Nella seconda parte, intitolata Der Wanderer, il focus della narrazione si sposta dagli elementi del paesaggio naturale alla figura umana. Dopo aver lasciato il convento, i due viaggiatori si rimettono in cammino e, conversando tra loro, rievocano i visi e i gesti di vecchi amici comuni. È proprio la «Tiefe und gleichsam zeitlose Einsamkeit, […] das körperlose Erhabene der Umgebung»,[22] a dislocare nuovamente i due viaggiatori nella dimensione atemporale dell’Arcadia classica, consentendo ai ricordi di affiorare come se fossero parte integrante del presente dei personaggi.[23] Le impressioni suscitate dall’ambiente, infatti, potenziano la fantasia dei due viaggiatori, al punto che «jedes Wort, von einem ausgesprochen, den Geist des andern mit sich fortriß und er mit Händen zu greifen wähnte, was dem andern vorschwebte».[24] Il riferimento al tatto suggerisce qui la rimozione del limite dell’individualità tra i due attori del dialogo, dal momento che ciascuno sembra poter ‘toccare’, attraverso le parole, le immagini e i ricordi che si formano nella mente dell’altro. Come spiega Brandstetter «il toccare e l’esperienza sensibile sono legati all’atto di oltrepassare la soglia che esiste all’interno del soggetto stesso e scatena una crisi della percezione».[25]

Le visioni dei due viaggiatori appaiono poi come dotate di vita propria e, in pieno cortocircuito percettivo, i personaggi non riescono più a distinguere se le figure da loro evocate siano «die Regungen des eigenen Innern […] oder die jener andern, deren Gesichter uns anblickten».[26] Secondo una modalità tipica del discorso ecfrastico, quella della prosopopea, le apparizioni vengono animate attraverso la descrizione e sembrano in un certo senso a propria volta ‘toccare’ con il loro sguardo i due viaggiatori: è proprio per mezzo del chiasma dello sguardo che si abolisce il confine tra il sé e l’Altro in maniera ancora più radicale – questa volta istituendo un ‘contatto’ proprio con l’immagine scaturita dall’atto di memoria.

Un’ultima potente apparizione chiude infine la sequenza dei ricordi. I viaggiatori evocano una figura nei cui tratti è riconoscibile Rimbaud, il poeta voyant. In particolare il narratore ricorda il viaggio del poeta francese, il quale, ammalatosi gravemente, rientra in Francia dopo lunghe peregrinazioni, avviandosi risoluto verso il proprio destino di morte.[27] Rimbaud viene descritto essenzialmente come un uomo estremamente solitario, refrattario a qualsiasi offerta d’aiuto e segnato da un rifiuto per la propria stessa opera, che a Hofmannsthal sembra una condanna a morte autoinflitta. Infatti, se il poeta voyant di Rimbaud è per se stesso un autre – dal momento che, come il legno che si trasforma in violino per emettere dei suoni, egli deve farsi puro «strumento per la voce dell’Eterno»[28] – allora rinnegare la propria poesia significa anche negare la possibilità del soggetto di aprirsi al confronto con l’alterità e di conseguenza la possibilità di accedere alle sfere più profonde del senso.

L’apparizione di Rimbaud è seguita poi da un incontro reale, quello con il legatore di Lauffen am Salzach. La figura del viandante solitario e sofferente mostra evidenti analogie con quella del poeta francese, per via dell’atteggiamento con il quale entrambi affrontano il viaggio e la malattia, che sembrano destinarli a una condanna inappellabile. Dopo essersi accomiatati dal viandante solitario, i due viaggiatori riprendono il cammino, percorrendo in senso contrario la strada già percorsa dall’uomo. Il narratore, fermatosi a bere a una fonte, si rende improvvisamente conto che anche il viandante doveva aver bevuto la stessa acqua e sente un’improvvisa unione con lo straniero incontrato per la via. Come nota Götz,[29] l’atto di abbeverarsi alla stessa fonte si fa metafora del fatto che un percorso di vita comune è impossibile, mentre strade divergenti possono incrociarsi solo per un momento. Il narratore comincia dunque a interrogarsi sulla propria identità: decifrando le linee dei volti evocati nel ricordo, a cui si aggiunge infine quello del legatore di Laufen-am-Salzach, egli si trasforma in una soggettività dai confini più ampi e diviene partecipe di una solitudine esistenziale che non riguarda più il singolo individuo, ma è propria della condizione umana. Attraverso tale superamento della soglia del sé, questi due ultimi incontri – uno dei quali avviene nella memoria e l’altro nella realtà – rappresentano un ulteriore passo che avvicina il narratore al suo incontro con l’Altro dell’antichità. La topografia del paesaggio e la fisiognomica del volto – e, in seguito, anche la tanto ricercata essenza dell’Antico – sembrano offrirsi, anche se fuggevolmente, alla lettura del viaggiatore, ma solo attraverso uno specifico modus di ricezione, la Pathosformel della commozione.[30]

Tuttavia, è solo nella terza parte del testo, intitolata Die Statuen, che il soggetto, con la visione delle statue arcaiche femminili nel museo dell’Acropoli, è finalmente in grado di superare la soglia che lo separa dall’Antico e di assistere all’epifania che restituisce il senso sul piano della visibilità.

Giunto sull’Acropoli di Atene il viaggiatore è deluso dall’irrimediabile ‘passato’ delle vestigia dell’antica civiltà: il ricordo del viandante solitario, e con esso l’idea della morte, dell’irrimediabilità della fine, gli impediscono di sentirsi parte del continuum della tradizione storica e culturale, come anche del mito.[31] Anzi, è proprio il tentativo razionale di forzare il ricordo che cattura il viaggiatore in una spirale di visioni indistinte ed effimere, tra le quali perfino il fantasma di Platone scivola via come uno spirito fluttuante. Anche il successivo tentativo di leggere il Filottete di Sofocle fallisce: pur se i versi sembrano offrirsi chiaramente alla comprensione razionale, una coltre verdognola si frappone tra l’uomo e il ‘tutto’, che appare adesso irrimediabilmente fallace ed estraneo. È proprio l’incapacità di abbandonarsi alle suggestioni dell’ambiente a provocare nel viaggiatore la dolorosa esperienza di un’intensificata estraneità.

Significativamente, oltrepassando la ‘soglia’ della stanza del museo in cui sono esposte le statue, il viaggiatore può finalmente esperire l’incontro con l’Altro antico.

 Cariatidi dell’Eretteo dell’Acropoli nel museo Archeologico di Atene © Tilemahos Efthimiadis – This file is licensed under the Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic license

Nel suo passaggio ecfrastico, Hofmannsthal fa attraversare al viaggiatore tutte e tre le fasi per mezzo delle quali si realizza la fascinazione della «rappresentazione verbale di una rappresentazione visuale»:[32]

In diesem Augenblick geschah mir etwas: ein namenloses Erschrecken: es kam nicht von außen, sondern irgendwoher aus unmeßbaren Fernen eines inneren Abgrundes: es war wie ein Blitz: den Raum, wie er war, viereckig, mit den getünchten Wänden und den Statuen, die dastanden, erfüllte im Augenblick viel stärkeres Licht, als wirklich da war: die Augen der Statuen waren plötzlich auf mich gerichtet und in ihren Gesichtern vollzog sich ein völlig unsägliches Lächeln. Der eigentliche Inhalt dieses Augenblickes aber war in mir dies: ich verstand dieses Lächeln, weil ich wußte: ich sehe dies nicht zum erstenmal. Auf irgendwelche Weise, in irgendwelcher Welt bin ich vor diesen gestanden, habe ich mit diesen irgendwelche Gemeinschaft gepflogen, und seitdem habe alles in mir auf einen solchen Schrecken gewartet, und so furchtbar mußte ich mich in mir berühren, um wieder zu werden, der ich war.[33]

A un primo sguardo/momento il viaggiatore sembra dominato dalla «paura ecfrastica».[34] Si tratta di un «terrore senza nome» che investe l’io narrante nel momento in cui ha percezione reale che «la differenza tra il verbale e la rappresentazione visuale possa collassare e il desiderio figurativo, immaginario, dell’ekphrasis possa realizzarsi letteralmente e concretamente. È il momento in cui, in estetica, la differenza tra la mediazione verbale e visuale diviene un imperativo morale […]».[35] In modo inquietante, le statue prendono vita attraverso l’ekphrasis. Se nella relazione sociale tradizionalmente messa in scena nel discorso ecfrastico l’opera d’arte si configura come l’oggetto guardato, passivo e dunque femminilizzato, in questo caso la paura ecfrastica nasce proprio dal fatto che le statue appropriandosi dello sguardo trasformano l’istanza ‘guardante’ – tipicamente maschile – da soggetto attivo in oggetto passivo. Di qui quell’indicibile sorriso, cui Hofmannsthal fa riferimento anche nel suo testo Sulla pittura inglese moderna[36] a proposito dell’immagine della Gioconda, che, attraverso le famose descrizioni di Oscar Wilde e Sigmund Freud riportate nell’opera sul Rinascimento di Walter Pater,[37] diviene l’archetipo della femme fatale della letteratura decadente. Il chiasma dello sguardo viene dunque percepito come una promiscuità pericolosa e si tenta, attraverso la paura ecfrastica, di «regolare i confini [tra arte visiva e verbale] attraverso rigide distinzioni tra sensi, modalità di rappresentazione e oggetti propri a ognuno».[38]

 Cariatide dell'Eretteo dell’Acropoli di Atene (particolare) © by Yair Haklai – This file is licensed under the Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported license

Passato questo primo istante, tuttavia, il viaggiatore attraversa la fase dell’«indifferenza ecfrastica»,[39] in cui le statue, manifestandosi nuovamente nella loro materialità oggettuale, tornano ad essere delle figure estranee, confermando la comune «percezione intuitiva che l’ékphrasis sia impossibile».[40]

Statuen sind um mich, fünf, jetzt erst wird mir ihre Zahl bewußt, fremd stehen sie vor mir, schwer und steinern, mit schiefgestellten Augen. […] Stehe ich nicht vor dem Fremdesten vom Fremden? Blickt hier nicht aus fünf jungfräulichen Mienen das ewige Grausen des Chaos? [41]

Eppure la percezione della bellezza di quelle figure di pietra riporta il viaggiatore al rapimento iniziale. L’io si dispone nuovamente a una modalità di ricezione improntata alla Pathosformel della ‘commozione’: l’epifania dell’alterità, suscitata dall’esperienza estetica e espressa attraverso i tòpoi della visione del divino, scaturisce dall’interiorità del sé, sotto forma di un sapere culturale rimosso che riaffiora. Il viaggiatore attraversa qui la fase della «speranza ecfrastica», in cui «l’impossibilità dell’ekphrasis viene superata attraverso l’immaginazione o la metafora […] lo straniamento della divisione immagine/testo viene oltrepassato e al suo posto sorge una forma unitaria, sintetica, un’icona verbale».[42]

Wie schön sind sie! Ihre Körper sind mir überzeugender als mein eigener. Es ist in dieser geformten Materie eine tiefsinnigere Belehrung, als ich je von meinen Gliedern empfangen habe. Es ist eine Intention in ihr, so stark, daß sie auch mich spannt. […] Sie ist auf einer Reise, sie landet in diesem Augenblick, will sie mich mitnehmen? Woher sonst diese Ahnung einer Abreise auch in mir, dieses rhythmische Weiterwerden der Atmosphäre, […] dieser lautlose Tumult – der mich bedroht oder dem ich gebiete? Es ist, antworte ich mir unfehlbar wie ein Träumender, es ist das Geheimnis der Unendlichkeit in diesen Gewändern. Nicht nur dies Gekräuselte, von den Schultern bis unters Knie Hinunterrieselnde, nein, die ganze Oberfläche ist Gewand und webender Schleier, offenbares Geheimnis. […] Empfing ich nicht unsichtbare Glieder, die ich traumhaft unwissend bewege? Empfing ich sie nicht, um mit nichtirdischen Händen aufzuheben den Schleier, einzutreten in den ewigen lebenden Tempel?[43]

Attraverso la funzione prosopopeica della descrizione, nel momento dell’epifania dell’Altro antico, la staticità della scultura si trasforma in un dinamismo che, come nota ancora Brandstetter,[44] da una parte, in quanto movimento ritmico che scaturisce dal sé, allude al Körperbild[45] danzante, dall’altra, in quanto movimento intenzionale, allude all’immagine del viaggio – un viaggio che comporta non solo la possibilità del superamento dell’alterità dell’Antico, ma anche e soprattutto il definitivo passaggio oltre la soglia del sé.

Proprio la coscienza dell’esistenza di una ‘soglia’ da superare, infatti, è ciò che sta alla base della frustrante esperienza dell’impossibilità di accedere all’Altro antico: finché il viaggiatore si pone in una posizione di dominio razionale rispetto alla cultura greca arcaica l’alterità dell’Antico appare irriducibile, in tal modo ponendosi da ostacolo «alla lettura dell’arte greca come archetipo dell’idea di cultura occidentale».[46] Soprattutto nel momento della paura ecfrastica, dunque, l’alterità del mondo antico si manifesta in una sensazione di estraneità a livello culturale, che potrà superarsi solo previa abolizione della dissociazione del piano verbale da quello visuale.

Le dinamiche del discorso ecfrastico, con il passaggio attraverso le tre fasi della paura, dell’indifferenza e della speranza, espongono dunque le strutture sociali che soggiacciono alla rappresentazione, nella forma di attività e relazioni «di potere/conoscenza/desiderio – una rappresentazione di qualcosa che viene fatto a qualcosa, con qualcosa, da qualcuno, per qualcuno»[47] che avrebbe come obiettivo ideale il superamento delle relazioni di alterità tra parola e immagine, attivo e passivo, maschile e femminile, antico e moderno.

In questo contesto, l’elemento del velo drappeggiato sul corpo delle statue «non è più il segno dei confini del celato e del manifesto, del soggetto e dell’oggetto, ma diviene esso stesso il segno della visione, il simbolo della trasparenza, include al tempo stesso la ‘superficie’ e lo strato profondo».[48] Il panneggio della veste, dunque, rappresenta non solo la cifra del corpo in movimento – secondo una prospettiva warburghiana – [49] ma anche un vero e proprio invito al superamento della soglia attraverso il contatto di una mano ‘ultraterrena’, che in ultima analisi viene a coincidere con lo sguardo del viaggiatore/narratore

 Cariatide dell’Eretteo dell’Acropoli di Atene – ©Yair Haklai – This file is licensed under the Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported license

In tal modo il viaggiatore può giungere a concepire l’identità tra il proprio corpo e quello delle statue, inteso quale Körperbild della memoria culturale. Già nel Gespräch über Gedichte,[50] Hofmannsthal aveva evidenziato come il simbolico rappresentasse per lui il fondamento stesso della poesia: attraverso lo scambio simbolico, infatti, si compie il «passaggio istantaneo in un’altra esistenza».[51]

Il viaggio alla ricerca dell’Altro antico, dunque, diviene allo stesso tempo un viaggio nelle profondità del sé, che, come si è detto, si compie in ultima analisi attraverso l’adozione della Pathosformel della commozione come modus di ricezione, ovvero attraverso la trasposizione in immagine di un moto dell’animo, che finisce per fare dubitare al viaggiatore «Mag sein, es sind diese Statuen, wovon meine Seele ihre Richtung empfängt».[52]

In altri testi di Hofmannsthal più o meno contemporanei agli Augenblicke in Griechenland è possibile rintracciare una simile poetica dello sguardo, che culmina sempre nell’esperienza estetica della visione, sia in relazione a immagini di natura endogena, come avviene nella novella allegorica Glück am Weg,[53] sia in relazione ad opere d’arte figurative, come avviene nei Briefe des Zurückgekehrten.[54] Entrambi i testi sono caratterizzati da un’analoga dinamica, che da una dolorosa o deludente esperienza reale del soggetto, attraverso la mediazione delle immagini, conduce a una sorta di realizzazione che ha luogo infine con l’atto poietico della scrittura.[55]

Come ha chiarito Renner,[56] Hofmannsthal riflette spesso nelle sue prose giovanili sul modo in cui il proprio vissuto sembra quasi prefigurato nelle opere d’arte e conclude che, attraverso l’esperienza estetica dell’opera d’arte, si può ottenere una sorta di potenziamento della vita stessa. In tal modo la scrittura di Hofmannsthal si inserisce nel dibattito sulla «deconcettualizzazione»[57] non solo delle arti, ma anche del mondo fenomenico, che si diffonde già a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo. Come spiega Schneider,[58] infatti, sulla scorta delle teorie scientifiche dell’epoca sulla coscienza dell’essere umano la metariflessione artistica è costretta a confrontarsi con la fine di una presunta congruenza tra il piano del visibile e il piano del verbale, laddove le immagini vengono ascritte a una sfera totalmente autonoma rispetto a quella del pensiero linguistico razionale, ovvero alla sfera dell’intuizione. In effetti, attorno alla svolta di secolo, l’emancipazione della visione dalle strutture del pensiero concettuale sembra sottrarre il mondo fenomenico alla comprensione e disperderlo in una quantità incoerente di dati sensibili. È proprio attraverso una riflessione dell’arte intorno al proprio medium – sia attraverso la pratica, che attraverso la teoria artistica – che si tenta quindi di ricostruire il senso profondo dell’esperienza.

Nelle prose di Hofmannsthal, tale ricostruzione passa attraverso lo stimolo dell’esperienza estetica e si concretizza in un atto poietico che sembra spingere il linguaggio verbale oltre i propri stessi limiti.

In questo senso la prosa di Hofmannsthal diviene «scrittura dell’invisibile»:[59] si tratta essenzialmente di una scrittura metaforica, iconica e sintagmatica, in cui, attraverso il superamento del piano della percezione reale, «il rappresentato accede a un livello di presenza estetica che vanifica la materialità stessa dell’immagine a favore della manifestazione dell’essere nel suo semplice apparire».[60]

Se è vero, dunque, che l’esperienza estetica dell’opera d’arte è alla base dell’atto poietico hoffmansthaliano, si può dedurre che la prosa di Hofmannsthal nasce essenzialmente sotto il segno dell’ekphrasis. Anzi, nella misura in cui la scrittura rivela la propria natura ecfrastica, il suo obiettivo appare essere quella sintesi tra visuale e verbale che sprigiona la sua enargeia nella ricezione empatica e, conseguentemente, nell’atto creativo.

Tuttavia, come sottolinea Grazia Pulvirenti, in questo percorso che va dall’immagine reale alla restituzione, attraverso il verbale, di un’immagine interiore, anche nella scrittura di Hofmannsthal si manifesta il «paradosso alla base di ogni processo di creazione di immagini: il rendere visibile nell’immagine ciò che non è generato da alcuna percezione sensoriale del mondo esterno».[61]

In tal modo sembra chiarirsi la natura nozionale[62] del discorso ecfrastico hofmannsthaliano, come anche la sua portata erosiva nei confronti dell’immagine stessa da cui trae spunto, dal momento che anche un frammento di ekphrasis mimetica come quello contenuto nell’ultima parte degli Augenblicke in Griechenland in realtà ‘mostra’ al lettore un’immagine che è stata prima introiettata ed elaborata dall’individualità del poeta e che quindi non coincide più con l’immagine di partenza, ma vi si sovrappone e, in certa misura, la nega nel suo valore rappresentativo profondo.

 

 


1 Cfr. la lettera dell’11 maggio 1908 a Marie von Thurn und Taxis, citata in W. Volke, ‘Unterwegs mit Hofmannsthal. Berlin-Griechenland-Venedig: Aus Harry Graf Kesslers Tagebüchern und aus Briefen Kesslers-und Hofmannstahls’, in Hofmannsthal-Blätter, 35/36,1987, pp. 50-104, qui p. 85.

2 Cfr. G. Hauptmann, ‘Aus einer griechischen Reise’, Die neue Rundschau, 19, in Freie Bühne, vol. I, 1908, pp. 6-30.

3 Cfr. B. Götz, Erinnerung schöner Tage: die Reise-Essays Hugo von Hofmannsthals, Würzburg, Königshausen & Neumann, 1992, p. 68.

4 A tal proposito Kessler scrive a Hofmannsthal, nella lettera del 24 febbraio 1908: «Ritt durch das ferne romantische Land, mondscheinhelle Berge, Gebirgsbäche und Quell Nymphen, nächtliche Lagerfeuer, an denen über Homer und die Schönheit diskutiert wird. Welcher Frühling!». Cfr. W. Volke, ‘Unterwegs mit Hofmannsthal’, p. 52.

5 «Hofmannsthal in Grecia è stato un fallimento: il ne se retrouvait pas. Era sempre giù di corda, di cattivo umore o si sentiva fuori posto nell'ambiente. Dopo dieci giorni di tanto patimento, ci siamo lasciati, per la nostra gioia reciproca […]. Ha detto che non sopportava l’aridità della campagna […]» (cfr. H. v. Hofmannsthal, H. Kessler, Briefwechsel 1898-1929, a cura di H. Burger, Frankfurt a. M., Insel Verlag, 1968, p. 512). Tutte le citazioni nel saggio sono tradotte dall’autrice.

6 Cfr. B. Götz, Erinnerung schöner Tage, pp. 69-74.

7 W. Volke, ‘Unterwegs mit Hofmannsthal’, p. 52.

8 Cfr. ivi, p. 72.

9 Ibidem.

10 Cfr. B. Götz, Erinnerung schöner Tage, pp. 74-75.

11 G. Brandstetter, Tanz-Lektüren, Körperbilder und Raumfiguren der Avantgarde, Frankfurt a. M., Fischer Taschenbuch Verlag, 1995, p. 98.

12 «Il viaggio in Grecia fu, tra tutti i viaggi da noi compiuti, il più spirituale» (H. v. Hofmannsthal, ‘Griechenland’, in Id., Erzählungen, Erfundene Gespräche und Briefe, Frankfurt a. M., Fischer Taschenbuch Verlag, 1979, pp. 629-640).

13 Il momento aurorale delle riflessioni di Hofmannsthal sul rapporto parola-immagine si può rintracciare nel noto testo del 1902, Ein Brief, in cui l’autore esperisce l’inadeguatezza del linguaggio razionale dei concetti e risolve la propria Schreibblockade con un superamento dell’orizzonte linguistico, attraverso lo strumento di una “scrittura dell’immaginario”. Per un approfondimento sulla tematica si rimanda a G. Pulvirenti, La farfalla accecata, strutture dell'immaginario nell'opera di Hugo von Hofmannsthal, Milano, Bruno Mondadori, 2008.

14 Cfr. W.J. T. Mitchell, ‘Ekphrasis and the Other’, in Id. Picture Theory. Essays on Verbal and Visual Representation, Chicago, University of Chicago Press, 1994, pp. 151-182.

15 Per una ricognizione sulle modalità in cui la cultura tedesca ha sviluppato il suo rapporto con l’Antico attraverso la scrittura ecfrastica cfr. M. Cometa, Parole che dipingono, Roma, Meltemi, 2004.

16 Cfr. W.J. T. Mitchell, ‘Ekphrasis and the Other’, p. 162.

17 «Della desolazione di millenni e null’altro che il fruscio di una lucertola sulla via e uno sparviero roteante, alto nell’aria» (H. v. Hofmannsthal, Augenblicke in Griechenland, Im Verlag der Arche, Zürich, 1949, p. 7).

18 G. Brandstetter, Tanz-Lektüren, p. 98.

19 «Lo sguardo passa sui secoli come su di una cisterna e in una profondità di sogno dorme, laggiù, l’irraggiungibile. […] Qui è l’Arcadia di molti sogni e non è un sogno» (H. v. Hofmannsthal, Augenblicke in Griechenland, p. 19).

20 E.O. Gerke, Der Essay als Kunstform bei Hugo von Hofmannsthal, Lübeck, Matthiesen, 1970, p. 148.

21 G. Brandstetter, Tanz-Lektüren, p. 98.

22 «Profonda solitudine quasi senza tempo, […] la nobiltà incorporea dell’ambiente» (H. v. Hofmannsthal, Augenblicke in Griechenland, p. 26).

23 Cfr. B. Götz, Erinnerung schöner Tage, p. 82.

24 «Ogni parola pronunciata dall’uno trascinava con sé lo spirito dell’altro, ed egli immaginava di poter afferrare con le mani ciò che l’altro evocava» (H. v. Hofmannsthal, Augenblicke in Griechenland, p. 27).

25 G. Brandstetter, Tanz-Lektüren, p. 99.

26 «I moti del proprio animo, o dell’animo di quegli altri, i cui volti ci fissavano» (H. v. Hofmannsthal, Augenblicke in Griechenland, p. 27).

27 Un’accurata descrizione delle vicende biografiche di Rimbaud cui Hofmannsthal fa riferimento si trova in B. Götz, Erinnerung schöner Tage, pp. 84-87.

28 E. Starkie, Arthur Rimbaud, A biography, New York, New Directions, 1968, pp. 95-103.

29 Cfr. B. Götz, Erinnerung schöner Tage, p. 90.

30 Cfr. G. Brandstetter, Tanz-Lektüren, p. 99.

31 Cfr. B. Götz, Erinnerung schöner Tage, p. 94.

32 W.J. T. Mitchell, ‘Ekphrasis and the Other’, p. 152.

33 «In questo momento mi accadde qualcosa: un terrore senza nome; non veniva dall’esterno, ma da qualche parte nella lontananza incommensurabile di una profondità interiore; fu come un lampo: una luce molto più forte di quella che c’era in realtà in un istante riempì lo spazio, così com’era, quadrato, con le pareti intonacate e le statue che se ne stavano lì. Gli occhi delle statue all’improvviso erano rivolti a me e sul loro viso si disegnò un sorriso totalmente indicibile. Ma dentro di me il vero significato di quel momento fu questo: io comprendevo quel sorriso, perché lo sapevo: “io non lo vedo per la prima volta” […] In qualche altro modo, in qualche altro mondo, mi sono già trovato davanti a ciò, ho coltivato con ciò una qualche comunanza e da quel momento tutto in me si aspettava un tale terrore, e così paurosamente mi dovetti toccare, per tornare ad essere quel che ero» (H. v. Hofmannsthal, Augenblicke in Griechenland, p. 57).

34 W.J. T. Mitchell, ‘Ekphrasis and the Other’, pp. 152-153.

35 Ivi, p. 154.

36 Cfr. H. v. Hofmannsthal, ‘Über moderne englische Malerei. Rückblick auf die internationale Ausstellung Wien 1894’, in B. Schoeller (a cura di), Gesammelte Werke in zehn einzelbänden, Reden und Aufsätze I, Frankfurt a.M., Fischer Taschenbuch Verlag, 1979, pp. 546–552.

37 W. Pater, The Renaissance. Studies in Art and Poetry (1873), London/New York, Macmillan&Co, 1901.

38 W.J. T. Mitchell, ‘Ekphrasis and the Other’, p. 155.

39 Ivi, p. 152.

40 Ibidem.

41 «Ho attorno delle statue, cinque, solo adesso riesco a contarle, mi stanno dinanzi estranee, grevi e di pietra, con occhi obliqui […] Non sto forse dinnanzi alla più estranea delle estraneità? Da questi cinque volti verginali non occhieggia forse l’eterno orrore del caos?» (H. v. Hofmannsthal, Augenblicke in Griechenland, p. 57).

42 W.J. T. Mitchell, ‘Ekphrasis and the Other’, p. 154.

43 «Ma quanto sono belle! I loro corpi mi persuadono più del mio. In questa materia scolpita vi è una lezione più profonda di quella che ho appreso dai miei stessi arti. Vi è un'intenzione in essa, così forte che tende anche me. […] Essa è in viaggio, approda in questo istante, vuole portarmi con sé? […] da dove, altrimenti, proverrebbe questo presagio di una partenza anche in me, questo ritmico dilatarsi dell’atmosfera, […] – che mi minaccia o che io domino? Vi è, mi risposi, infallibile come in sogno, vi è il segreto dell’infinito in queste vesti. Non solo questa arricciata, che ricade drappeggiante dalle spalle fino a sotto le ginocchia, no: l’intera superficie è veste e velo mobile, segreto manifesto. Quella cortina, che allo stesso modo sventola leggera, non è forse una parte di me in movimento? Non avverto forse degli arti invisibili, che io muovo inconsapevolmente, come in sogno? Non ho forse la sensazione di sollevare il velo con mani non terrestri, di entrare nel tempio della vita eterna?» (H. v. Hofmannsthal, Augenblicke in Griechenland, pp. 59-60).

44 Cfr. G. Brandstetter, Tanz-Lektüren, pp. 107-108.

45 Il concetto di Körperbild [immagine del corpo] è un prezioso strumento interpretativo della relazione tra verbale e visuale introdotto da Gabriele Brandstetter. Come chiarisce la studiosa: «Per mezzo della formula del Körperbild è possibile collegare la questione della presenza fisica e della rappresentazione del corpo in movimento quale segno mutevole – che si colloca in prima istanza nell’ambito simbolico del non verbale e del non-discorsivo – con la ricerca del testo letterario e della scrittura: come sistema semiotico che cerca di evocare il presente della corporeità nel differimento della rappresentazione. Le immagini del corpo – in qualità di griglia di lettura tipologicamente orientata – rendono pertanto possibile la mediazione tra la messa in scena e la discorsività» (ivi, p. 26).

46 Ivi, p. 113.

47 W.J. T. Mitchell, ‘Ekphrasis and the Other’, p. 180.

48 G. Brandstetter, Tanz-Lektüren, p. 285.

49 Cfr. A. Warburg, Botticelli [1893], trad. it. di E. Cantimori, Milano, Abscondita, 2003.

50 Cfr. H. v. Hofmannsthal, ‘Das Gespräch über Gedichte’, in Id., Ausgewälte Werke in zwei Bänden, vol. II, a cura di Rudolf Hirsch, Frankfurt a. M., Fischer Verlag, 1966, pp. 365-378.

51 G. Brandstetter, Tanz-Lektüren, p. 107.

52 «Può darsi che siano queste statue a dirigere la mia anima» (H. v. Hofmannsthal, Augenblicke in Griechenland, p. 60).

53 H. v. Hofmannsthal, ‘Das Glück am Weg’, in id., Sämtliche Werke, Kritische Ausgabe, vol. XXVIII (Erzählungen), a cura di Ellen Ritter, Frankfurt a. M., Fischer Verlag, 1975, pp. 7-11.

54 H. v. Hofmannsthal, ‘Briefe des Zurückgekehrten’, ivi, vol. XXXI (Erfundene Gespräche und Briefe), pp. 151-174.

55 Per un’analisi approfondita dei due testi cfr. U. Renner, ‘Das Erlebnis des Sehens. Zu Hofmannsthals produktiver Rezeption bildender Kunst’, in Id., B. Schmid (a cura di): Hugo von Hofmannsthal. Freudschaft und Begegnungen mit deutschen Zeitgenossen, Würzburg, Königshausen und Neumann, 1991, pp. 285-305.

56 U. Renner, ‘Das Erlebnis des Sehens’, p. 291.

57 Cfr. S. Schneider, ‘Utopie Bild. Formen der Ikonisierung in der Kunstliteratur um 1900’, in J. Fohrmann, A. Schütte, W. Voßkamp (a cura di), Medien der Präsenz - Museum, Bildung und Wissenschaft im 19. Jahrhundert, Köln, DuMont Verlag, 2001, p. 185.

58 Ibidem.

59 G. Pulvirenti, La farfalla accecata, p.160.

60 Ivi, p. 26.

61 Ivi, p. 152.

62 Per la distinzione tra ekphrasis mimetica e nozionale cfr. M. Cometa, La scrittura delle immagini, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012.