Non mi veniva di fotografare gli uomini, i politici. Mi venivano male, sfocati, brutti. Nelle fotografie avevo bisogno di fotografare le donne, perché fotografavo me stessa.
Il titolo di questa riflessione prende in prestito la didascalia che accompagna una fotografia scattata da Letizia Battaglia, nel 1978, in una casa del quartiere Kalsa di Palermo [fig. 1]. La foto – di certo una delle più famose tra le molte realizzate dalla fotografa recentemente scomparsa – ci mostra una donna distesa sul letto insieme ai suoi due bambini: i tre trascorrono lì le loro giornate. Molto poco dell’ambiente circostante trova posto nello spazio fotografico: ad occupare l’inquadratura sono, infatti, la donna e i bambini uniti dalle povere coperte a loro disposizione, un unico corpo a tre teste fatto di carne (s)formata dalla miseria. È la didascalia a suggerirci, invece, l’interpretazione del contesto, lavorando come indice informativo di geo-localizzazione: «In questa casa non ci sono né luce né acqua». Ciò che questa fotografia immediatamente ci restituisce è, insomma, la visione di una «grande tragedia» – così come la definì la stessa Battaglia durante una delle nostre lunghe chiacchierate, ma anche nel senso di «corpo tragico» della fotografia (Grazioli 1998) – ovvero quello di una donna il cui destino è già tutto racchiuso nell’unica postura concessa dall’inabitabilità della casa in cui è costretta a vivere –.