Dentro la girandola di visioni del Festival del cinema ritrovato c’è spazio per un intimo, misurato omaggio a Pupi Avati, organizzato da Andrea Maioli in forma di viaggio fotografico (Sala d’Ercole, Palazzo d’Accursio, 22 giugno-14 agosto 2014). L’invenzione del curatore consiste nell’aver sovrapposto ricordi autobiografici e ragioni di poetica, temi visivi ricorrenti e immagini intime, in una serie di nove stazioni che offrono al visitatore frammenti di un discorso amoroso sulla vita e sull’arte. Al centro di ognuna si trova un racconto visuale affidato a frames tratti da alcuni dei film più celebri e scatti di famiglia, montati senza soluzione di continuità a sottolineare la permeabilità dell’immaginario del regista da sempre votato alla contaminazione tra dettagli privati e invenzioni fantastiche.

Il modo attraverso cui l’esperienza di Avati viene messa in quadro sembra essere l’oscillazione nostalgica fra pathos e memoria, «l’imperfetto dell’obiettivo» (Scianna, Autoritratto di un fotografo). Luoghi, volti, oggetti, riti migrano dal reale al set, in un andirivieni di finzioni e verità, per poi depositarsi in piccole costellazioni di senso, che Maioli assembra secondo traiettorie non lineari. Ogni passaggio conserva la gioiosa casualità del quotidiano e il meticoloso artigianato della fabbrica di celluloide; cinema e vita coesistono – l’uno accanto all’altra, l’uno dentro l’altra – nel breve spazio di un puzzle di sguardi, capace di generare istanti di grande efficacia evocativa

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«Quello che mi interessa – sostiene Paolo Gioli – è la formidabile capacità che la materia fotosensibile ha nel manomettere e immaginare, quasi sempre drammaticamente, ogni cosa tocchi. Prima dell’immagine c’è la materia».

Ridurre, sgretolare, trasformare la fotografia in materia fotografica, in qualcosa di malleabile per poi manipolarla: la metodologia di ricerca di Paolo Gioli percorre da sempre questo binario. La mostra Abuses. Il corpo delle immagini (Villa Pignatelli – Casa della fotografia, Napoli 12 aprile-1 giugno 2014, a cura di Giuliano Sergio), una selezione di oltre cento immagini dell’artista veneto, affronta alcuni dei temi attorno i quali ruota l’intero lavoro e il percorso artistico di Paolo Gioli: l’indagine sul corpo, in tutte le sue sfaccettature, e sulla natura morta.

In un’epoca nella quale la tecnologia ha reso difficile rintracciare la specificità del mezzo fotografico, avvicinando la fotografia stessa a quella «condizione postmediale» descritta da Rosalind Krauss, Paolo Gioli riesce a fermare l’istante sottraendolo all’effimero dell’esperienza ordinaria attraverso la costruzione di immagini fatte di innesti, suture e artifici.

L’artista oltrepassa, in tal modo, i confini strutturali dell’immagine restituendola all’osservatore in tutta la sua drammaticità. Quella di Gioli è un’operazione che oserei definire di archeologia visuale, caratterizzata dall’esplorazione incessante dell’intero universo dei processi fotografici proto-storici, storici e moderni: dal foro stenopeico, al classico procedimento positivo/negativo, al positivo diretto su diversi formati polaroid. La fotografia di Gioli (e le opere in mostra ne sono una prova) porta, dunque, alle estreme conseguenze l’intera parabola evolutiva di quella riproducibilità tecnica postulata da Benjamin, estremizzandone dinamiche e processi, e rendendo palesi i meccanismi ad essa interni e le difficoltà e incertezze da essa derivanti.

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Il 3 e 4 dicembre 2013 si è svolto presso l’Università degli Studi di Milano il convegno internazionale «Corpi in pietra», organizzato dal Dipartimento di Filosofia in collaborazione con il Centre International de Philosophie di Parigi e l’Università degli Studi di Bergamo e patrocinato dalla Società Italiana d’Estetica. I partecipanti all’incontro, volto a esplorare il tema della monumentalizzazione del corpo (con particolare ma non esclusivo riguardo ai cinema studies), hanno delineato e approfondito la questione dell’animazione dell’inanimato affrontando di volta in volta specifici casi di studio.

La prima sessione dei lavori, presieduta da Andrea Pinotti, è stata aperta dall’intervento di Filippo Fimiani (Università degli Studi di Salerno) intitolato La carne impossibile. Immagine, immaginario, medium. Prendendo le mosse dal celebre saggio di Maurice Blanchot, Les deux versions de l’imaginaire, Fimiani ha incentrato la sua presentazione sulle relazioni tra immagine, maschera funeraria e fotografia, relazioni che coinvolgono diversi discorsi e statuti – antropologici, semiotici, ontologici, mediali – e che sintetizzano un dialogo più che ventennale con la fenomenologia e con la sua ricezione francese (Sartre e Lévinas in testa).

All’intervento di Fimiani è seguito quello di Barbara Le Maître (Université Sorbonne Nouvelle Paris 3), De Jack Torrance en corps fossile, dedicato all’evoluzione teorica della nozione di «fossile» esemplificata attraverso l’analisi concreta di alcuni passaggi chiave di Shining. Nella sua relazione Does Materiality Matter? The cinematic body between the monumental, the mechanical and the ephemeral, Vinzenz Hediger (Goethe-Universität Frankfurt) ha delineato un percorso di natura squisitamente teoretica sui concetti di medium e di cinematic body (il corpo rappresentato e quello esperito tramite empatia), con particolare riferimento alle osservazioni sviluppate da Vivian Sobchack e Christiane Voss.

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Carmelo Bene disprezzava l’immagine. La deprecava. Lo afferma chiaramente nella propria autobiografia e ovunque abbia avuto modo di pronunciarsi sull’arte in senso stretto e sulle arti in senso lato. Deprecava l’immagine fissa – fotografia o dipinto che fosse –, come replica virtuale, e ancor più quella in movimento, quella cinematografica, che esasperava, nel suo essere evento già dato in modo univoco e filmato una volta per tutte, l’impossibilità della percezione d’una differenza, di un intervento da parte di chi guarda, limitandosi alla mediocrità della rappresentazione. Un’iconoclastia, quella di Bene, condotta appunto in nome di quella nozione che nell’estetica, e in generale nella speculazione del ’900, ha dato esiti decisivi (basti pensare a due autori come Deleuze e Derrida e alla correlata nozione di simulacro, centrale nell’opera di Klossowski), segnando in qualche modo quest’epoca del pensiero occidentale: quella di differenza. L’inefficienza dell’immagine artistica starebbe, dunque, proprio nel suo farsi rappresentazione di qualcosa, nel suo tentare d’essere testimonianza o copia d’un modello, nel suo essere mera «virtualità scontata» di una realtà. Eccezioni a questo discorso sono, per Bene, quei rari esempi (come Bacon in pittura e Bernini nella scultura) che nella storia dell’arte avrebbero superato l’arte stessa rendendosi capaci di «eccedere l’opera nella differenza», ossia di scavalcare ogni idea di identità, di unità, di rappresentazione, e perfino di dialettica e di conciliazione. E questa è stata esattamente la linea guida di tutta l’attività dell’artista salentino, del suo modo di fare e disfare il teatro e l’arte in genere.

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The story Lichen by Alice Munro revolves around the description of a photograph. The revelation of the photographed subject is prepared with great suspense: a women’s torso with open legs and genitals in view, which recalls the famous painting, L’origine du Monde, made by Gustave Courbet in 1866 for the Turkish ambassador Khalil Bey and lately owned by Jacques Lacan. The photograph is the fetish object which David, a mature man reluctant to accept ageing, shows to his ex wife Stella, in search for provocation and perhaps a liberation from his obsession with young lovers that he keeps on changing. Stella does not see in the picture the body fragment of a provocative young woman but the fur of a poor animal without its head, or more poignantly a bush of lichen. The photograph left in Stella’s house fades because of the sunlight coming through the window and when she later finds it again a full metamorphosis seems to have occurred: it has become a grey spot, with no recognizable outlines, a bush of lichen. Her words have come true. The photograph works as the trigger of the plot and reflects the desire dynamics between women and men, but it conveys also the faith in writing as a way of seeing through, of seeing more. Perfectly disguised in the plot of the novel, L’origine du Monde is the core of the narrative interplay Munro builds up between desire, words, imagination, reality and the essence of a work of art.

Tengo le fotografie non per quello che mostrano ma per quello che vi è nascosto

Margaret Laurence, I rabdomanti

Nel racconto Lichen, incluso nella raccolta The Progress of Love,[1] Alice Munro mette in scena un repertorio di personaggi e di dinamiche relazionali piuttosto tipico della sua produzione narrativa: una coppia di ex coniugi, Stella e David, lei vitale anche se non più attraente d’aspetto, lui impegnato a ricacciare lo scorrere degli anni con fidanzate effimere e sempre più giovani; un vecchio padre ricoverato in una casa di cura; Catherine, una delle vittime dell’insaziabile quanto disperato istinto predatorio di David; sullo sfondo, chiamata in causa attraverso una fotografia, che ne ritrae solo il pube, e una telefonata alla quale non risponde, Dina, la studentessa con cui David vorrebbe sostituire la non più giovanissima Catherine.[2]

L’ambientazione rurale, lungo le rive di un lago, completa il quadro di questa middle station of life canadese con la quale Alice Munro ci ha da tempo familiarizzato, attraverso una produzione di racconti che costituisce un vasto insieme di variazioni sui temi del rapporto femminile/maschile, dell’autodeterminazione verso l’ethos comunitario, delle apparenze rispetto alle verità individuali, delle mistificazioni-rivelazioni della memoria.[3] I personaggi e le situazioni raccontate da Munro nel loro essere ordinarie, nel loro essere scelte non perché eccezionali ma comuni, in che cosa ripongono la capacità di attrazione e di coinvolgimento per il lettore, al di là di una generica immedesimazione in vite caratterizzate, come quelle di molte donne del ceto medio occidentale da almeno due secoli a questa parte da un matrimonio o da un mancato matrimonio, da una parabola di emancipazione, da un tradimento, da un segreto legato a un’eredità, a un torto fatto o subito? Con quali mezzi, di trama e di stile, la scrittrice riesce a sviluppare empatia e interesse?

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Jean Douchet’s reflections on the concept of the «privileged instant» and Deleuze’s thesis that «the close-up is the face» are the starting points of this paper, which focuses on the relationship between photography and cinema in Ingmar Bergman’s films. In particular, the author points out how Swedish director’s concentration on facial close-ups led to the definition of complex forms of temporality arising from the friction, juxtaposition, and interaction between the photographic image and the filmic one. Within the mesh of mediating forms which characterize Bergman’s cinema, the photographic image – as both memory and document – assumes different forms that are often in contrast with each other: first, it works as a mark of reality in its phenomenological dimension. Later, it becomes a threshold giving access to a form of cinema that reworks out new ways of representing temporality in film. By relying on the methodological instruments offered by the philosophy of Henri Bergson (with particular reference to the concepts of «duration and simultaneity») and on Gilles Deleuze’s reflections on the time-image, the paper surveys the multilayered and multi-medial nature of Bergman’s works: the plurality of chronological time matches the self and its changeable incarnations, in which the individual is progressively and inevitably annihilated.

Per un’immagine dell’assenza

Tra i numerosi esempi di messa in scena dello sguardo offerti dalla filmografia di Ingmar Bergman scegliamo un caso particolare, presente all’interno di un film densamente stratificato come L’ora del lupo (Vargtimmen, 1968), in cui la dimensione metalinguistica, nel racconto ambiguo e sospeso tra realismo e allucinazione della crisi del pittore Johan Borg, si apre verso le possibilità del fantastico e della messa in scena di una pluralità di tempi. Il regista ci presenta un’inquadratura che riprende la moglie di quest’ultimo intenta ad osservare il ritratto di Veronica Vogler, che in passato fu l’amante del marito.

Con una dissolvenza incrociata, Bergman nega allo spettatore la possibilità di vedere la figura di quella donna che è la costante presenza costitutiva del film. Così, il ritratto che concretizza nel presente il passato è annullato e con esso è annullato quel tempo che poteva conservarvisi.

Questa inquadratura pone in essere uno dei tratti costitutivi del film, cioè quella complessa dialettica tra l’immagine-rappresentazione e l’assenza del soggetto rappresentato e, nel definire i tratti di pertinenza di questo rapporto, assegna al tempo una rilevanza peculiare, dal momento che l’immagine si pone come sostituto di un soggetto legato alla dimensione di un passato che viene evocato tanto da assorbire completamente il presente e trasfigurarlo in una dimensione allucinatoria. Il costante legame che Johan Borg intrattiene con il passato crea un corto circuito temporale in cui coesiste una molteplicità di tempi (passato-presente, ma anche il tempo mentale della memoria e del desiderio) legati alla necessità psicologica di colmare un’assenza. L’immagine del simulacro, il ritratto di cui ci viene negata la visione, rappresenta allora un grumo di significato in cui si condensa la potenzialità propria dell’immagine, connotata dalla potenza evocativa e dalla capacità di essere attraversata da una pluralità di tempi diversi.

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Nel 1967 il regista jugoslavo Aleksandar Petrović presenta il film Skupljaći perja (Ho incontrato anche zingari felici) in cui, attraverso un mix di realismo e fantasticherie, viene raccontata con grande forza visiva l’epopea dei Rom. Qualche tempo prima, nel 1962, anche un giovane fotografo cecoslovacco, Josef Koudelka, si mette sulle tracce dei gitani e, dopo cinque anni di ‘pedinamenti’ tra le umide periferie dell’Est europeo, proprio nel 1967 trova il coraggio di esporre alcune foto nel foyer di un teatro di Praga, vincendo così la miopia del regime. È questo l’inizio di una esaltante histoire de l’œil, capace di durare, con alterne fortune, fino ai giorni nostri, perché – come scrive Franz-Olivier Giesbert – «quand c’est un œil d’artiste qui l’a prise, la photo ne vieillit jamais. Elle parle à toutes les générations, comme un tableau de Titien ou une sculture de Rodin».

L’incontro con gli zingari è un vero turning point nel destino del giovane ingegnere aeronautico con la passione per la fotografia e la musica. Di fronte alla disarmante fotogenia di quei gruppi di famiglie così eterogenei, Koudelka comincia a mettere in posa sguardi, riti, corpi e oggetti, testimoni di una stravagante joie de vivre. Già dai primi scatti emerge una rara capacità di ‘ascolto’ dell’altro; il suo obiettivo, infatti, partecipa con empatia al dialogo silenzioso con personaggi e cose che, pur abitando un tempo instabile, non si ritraggono, anzi precipitano con grazia dentro il grandangolo. Oltre la tecnica, ad entrare in gioco in questo intreccio di occhi e di grigi sono le ragioni stesse dell’esistenza, come riconosce Koudelka: «mi hanno cambiato la vita, debbo a loro se ho lasciato la Cecoslovacchia e se ho conosciuto Cartier-Bresson». Proprio grazie ad una borsa di studio per fotografare gli zingari in Camargue, nel 1970 il reporter trentaduenne lascia il proprio paese, ancora stordito dall’invasione sovietica, per cercare altrove quella profondità di sguardo e di racconto che in patria rischiava di pagare a caro prezzo. Da lì a poco la conoscenza di Cartier-Bresson e l’ingresso nella mitica agenzia Magnum Photos avrebbero impresso una nuova direzione al suo percorso; la prima, luminosa scintilla resta comunque per sempre consegnata ai lampi in bianco e nero ‘catturati’ nei campi nomadi di mezza Europa.

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