Le ceneri del tempo. Istanti privilegiati e dissoluzione della temporalità soggettiva nel cinema di Ingmar Bergman

di

     

Jean Douchet’s reflections on the concept of the «privileged instant» and Deleuze’s thesis that «the close-up is the face» are the starting points of this paper, which focuses on the relationship between photography and cinema in Ingmar Bergman’s films. In particular, the author points out how Swedish director’s concentration on facial close-ups led to the definition of complex forms of temporality arising from the friction, juxtaposition, and interaction between the photographic image and the filmic one. Within the mesh of mediating forms which characterize Bergman’s cinema, the photographic image – as both memory and document – assumes different forms that are often in contrast with each other: first, it works as a mark of reality in its phenomenological dimension. Later, it becomes a threshold giving access to a form of cinema that reworks out new ways of representing temporality in film. By relying on the methodological instruments offered by the philosophy of Henri Bergson (with particular reference to the concepts of «duration and simultaneity») and on Gilles Deleuze’s reflections on the time-image, the paper surveys the multilayered and multi-medial nature of Bergman’s works: the plurality of chronological time matches the self and its changeable incarnations, in which the individual is progressively and inevitably annihilated.

Per un’immagine dell’assenza

Tra i numerosi esempi di messa in scena dello sguardo offerti dalla filmografia di Ingmar Bergman scegliamo un caso particolare, presente all’interno di un film densamente stratificato come L’ora del lupo (Vargtimmen, 1968), in cui la dimensione metalinguistica, nel racconto ambiguo e sospeso tra realismo e allucinazione della crisi del pittore Johan Borg, si apre verso le possibilità del fantastico e della messa in scena di una pluralità di tempi. Il regista ci presenta un’inquadratura che riprende la moglie di quest’ultimo intenta ad osservare il ritratto di Veronica Vogler, che in passato fu l’amante del marito.

Con una dissolvenza incrociata, Bergman nega allo spettatore la possibilità di vedere la figura di quella donna che è la costante presenza costitutiva del film. Così, il ritratto che concretizza nel presente il passato è annullato e con esso è annullato quel tempo che poteva conservarvisi.

L’immagine dell’assenza: Alma Borg osserva il ritratto di Veronica Vogler

Questa inquadratura pone in essere uno dei tratti costitutivi del film, cioè quella complessa dialettica tra l’immagine-rappresentazione e l’assenza del soggetto rappresentato e, nel definire i tratti di pertinenza di questo rapporto, assegna al tempo una rilevanza peculiare, dal momento che l’immagine si pone come sostituto di un soggetto legato alla dimensione di un passato che viene evocato tanto da assorbire completamente il presente e trasfigurarlo in una dimensione allucinatoria. Il costante legame che Johan Borg intrattiene con il passato crea un corto circuito temporale in cui coesiste una molteplicità di tempi (passato-presente, ma anche il tempo mentale della memoria e del desiderio) legati alla necessità psicologica di colmare un’assenza. L’immagine del simulacro, il ritratto di cui ci viene negata la visione, rappresenta allora un grumo di significato in cui si condensa la potenzialità propria dell’immagine, connotata dalla potenza evocativa e dalla capacità di essere attraversata da una pluralità di tempi diversi.

Il presente contributo vuole isolare un preciso momento della riflessione compiuta da Bergman sulla dimensione temporale dell’immagine, lavorando sul confronto tra cinema e fotografia, e individuando altresì in quest’ultima una delle possibilità teoriche di discussione intorno al rapporto tra cinema, primo piano del volto e tempo. Posta all’interno dell’intreccio di forme mediali che nutrono il cinema bergmaniano, l’immagine fotografica – con il suo problematico valore memoriale e documentale – assume forme diverse, spesso in contrasto reciproco. L’immagine analogica, dapprima indice di una dimensione fenomenologica di appartenenza al reale, nel corso degli anni diviene il luogo in cui si ‘incarna’ una temporalità indefinita, costantemente in bilico tra la concretezza della finitudine e l’astrazione del corpo, sospesa tra la dimensione del realismo e la tentazione di suggerire una realtà altra e capace di porsi di là della dimensione dell’esperienza fenomenologica e percettiva. Una dialettica che conduce il bianco e nero della pellicola piuttosto nei territori della memoria, del sogno, del desiderio e della ricerca di ciò che si è affettivamente perduto. Infine, così come utilizzata da Bergman, l’immagine fotografica, correlandosi con le specificità proprie dell’immagine cinematografica, rende esplicite alcune delle questioni aperte dalla riflessione sulla natura del tempo indagate da Henri Bergson e mutuate dalla filosofia del cinema come intesa da Gilles Deleuze.

Dimensione temporale e flussi di memoria

La riflessione di Henri Bergson sulla natura del tempo prende le mosse dall’analisi della teoria della relatività ristretta proposta da Albert Einstein. In Durata e simultaneità (1922), discutendone i presupposti e gli esiti, il filosofo si oppone all’idea proposta dal fisico svizzero-tedesco della crisi dell’unità e indivisibilità del tempo. Bergson ammette che la proposta einsteniana risulti vera e produttiva per quel che riguarda un approccio fisico e scientifico, cioè la necessità di misurare in modo certo e univoco il reale. Ma per Bergson il tempo va analizzato nella sua concretezza, la quale risiede non tanto nella misurabilità, quanto piuttosto nella durata. Per Bergson,

se la teoria della Relatività mette in questione la struttura del tempo e l’esperienza del tempo, rivelando e dimostrando che, in effetti non può essere concepito un tempo unico, questa medesima teoria non può accontentarsi di riconoscere che sta parlando di una propria idea, di un proprio concetto di tempo, di una dimensione della temporalità fra altre (o fra tante), ma ha la necessità di ritenere che quel tempo di cui parla (e di cui confuta l’unicità) sia un tempo che, proprio per la sua molteplicità, non ne ammette altri.[1]

Se c’è ambiguità nel rapporto di Bergson con la teoria del tempo formulata da Einstein, questa consiste nella matrice spiritualista che informa il pensiero bersgoniano e che, opponendosi in maniera critica alla scienza, sostiene che non è (né mai lo sarà) possibile attraverso una procedura scientifica dare conto in maniera completa ed esaustiva della temporalità oggettiva, ovvero spaziale, misurabile e simbolica. Fatto ancora più importante, Bergson parla di un’impossibilità relativa al concetto oggettivo di tempo: la questione del tempo come carattere psicologico o storico-evolutivo non viene accennata. Ci sembra, questa, una distinzione di fondamentale importanza, in quanto da una parte afferma l’esistenza di temporalità altre rispetto a quella oggettiva, sostenendo al contempo la problematicità di quest’ultima. Bergson non nega la misurabilità del tempo e la possibilità che la scienza offre di dare misure precise e corrette dello stesso; ciò che egli nega – o, per lo meno problematizza – è la possibilità che la scienza ha di dire cosa sia ciò che ha misurato.[2]

Il filosofo oppone dunque l’artificialità del sistema di misurazione con la naturalezza dell’esperienza del tempo. La durata si esperisce come memoria, la quale è intesa non come memoria distinta dal passato, ma come memoria interna al cambiamento stesso. Quella della memoria interna al cambiamento stesso è una qualità che si può percepire nei film di Bergman, quando il dato memoriale non richiama solo la dimensione del passato, ma lo distende nel presente attualizzandolo. Per dirla con le parole di Bergson, la memoria che attiva la dimensione temporale del passato nel cinema di Bergman prolunga «il prima nel dopo e impedisce loro di essere puri istanti che appaiono e scompaiono in un presente che rinascerebbe incessantemente».[3]

Nella concezione temporale di Bergson, il dato memoriale risulta indispensabile ed è anteposto anche alla oggettività scientifica della misurazione del tempo. A questo si aggiunge l’introduzione del concetto di simultaneità, con il quale rende esplicita la difficoltà di un approccio oggettivo alla misurazione del tempo e il legame del medesimo con la dimensione mentale e corporale del soggetto. A livello esperienziale, il filosofo individua due tipologie di flussi temporali, che danno luogo a due categorie del tempo: i flussi contemporanei e i flussi simultanei. Bergson definisce contemporanei

due flussi che per la coscienza sono uno o due indifferentemente, perché la mia coscienza, se sceglie di prodursi in un atto indiviso di attenzione, li percepisce insieme come un unico fluire, mentre se preferisce ripartire la sua attenzione li distingue invece perfettamente, riuscendo poi a fare anche le due cose insieme, qualora decida di ripartire la sua attenzione senza tuttavia tagliarla in due. Chiamo «simultanee» due percezioni istantanee che sono colte con un unico e identico atto della mente, salva restando la possibilità se scegliere se coglierne una oppure due.[4]

La definizione di queste due tipologie di flussi temporali risulta particolarmente adatta ad approcciare il cinema bergmaniano, soprattutto quando esso è proteso alla resa dell’istantaneità, cioè quando ricerca nello svolgimento del flusso del tempo quel punto di emersione dell’istantaneità del reale che preme per emergere e che rischia costantemente di mantenersi celato. Bergman realizza un cinema in cui, nella durata dei flussi temporali (siano essi svolti in una direttrice lineare verso il futuro oppure verso il passato), cerca di fare emergere una singola individualità istantanea, che si configura come una cristallizzazione del tempo. Il primo piano e lo sguardo in macchina sono le figure stilistiche che veicolano questa ricerca dell’istante pregnante che si astrae dal flusso temporale e che percettivamente rende possibile l’acquisizione della dimensione psicologico-corporale del soggetto e della sua temporalità interna.

La definizione deleuziana di immagine-affezione intesa come una delle tre articolazioni dell’immagine-movimento,[5] secondo cui essa «è il primo piano, e il primo piano è il volto»,[6] coglie perfettamente la natura astrattiva di questo tipo di immagine. Per Deleuze

il primo piano non strappa affatto il suo oggetto a un insieme di cui farebbe parte, di cui sarebbe una parte; ma, in modo del tutto diverso, lo astrae da ogni coordinata spazio-temporale, cioè lo eleva allo stato di Entità. Il primo piano non è un ingrandimento e, se implica un cambiamento di dimensione, è un cambiamento assoluto.[7]

Confrontandosi con il primo piano del volto Bergman cerca proprio la creazione di quell’Entità temporale evocata dal filosofo francese. Di più, egli si sforza di renderla come un’entità temporale che vive nella precisione di un istante sospeso, incastonato nel corpo temporale del film che la contiene. Si tratta di un istante che non cede all’insistere del presente e si colloca in quel problematico raffronto tra il tempo definito dal dato memoriale e l’oggettività di un tempo misurabile, che pare possedere una natura di subordinazione rispetto al primo.

Questa stretta interdipendenza che lega il tempo cronologico con il tempo vissuto è alla base delle sperimentazioni di Bergman sul tempo. I suoi film sono il tentativo di mettere in crisi il modello oggettivo di tempo misurato rifacendosi ad un sistema di riferimento univoco. Per certi versi, nel cinema bergmaniano si assiste alla messa in scena dell’ambiguità del rapporto tra Bergson e Einstein, in quanto il regista ha cura di costruire un mondo che è disseminato da tracce dell’oggettività del tempo e della sua spietata ineluttabilità. Come nota Aumont, nella sua analisi delle figure di Morte che si sono sedimentate nell’universo filmico del regista svedese, il tempo è concepito come una potente ed astratta immagine della Morte.[8] E anche questa oggettività specifica può essere legata ad una concezione strettamente bergsoniana, soprattutto per la dimensione antropocentrica che esprime. Bergman si concentra sull’Uomo e sul suo essere-nel-mondo e quindi le durate e i livelli temporali che il suo cinema manifesta sono strettamente correlate ad una dimensione tangibilmente individuale, secondo la concezione bergsoniana per cui

non c’è dubbio che la nostra coscienza senta di durare, che la nostra percezione faccia parte della nostra coscienza e che nella nostra percezione entri qualche cosa del nostro corpo e della materia che ci circonda.[9]

Concorde con Bergson, Deleuze cerca sia di risolvere lo scarto tra soggetto e oggetto, tra coscienza e oggetto di coscienza, sia di definire i tratti di un’immanenza nella quale materia, coscienza e movimento risultano inseparabili e si determinano l’un l’altro. A partire dall’indistinguibilità tra immagine e cosa, nella lettura deleuziana il cinema non solo si confronta direttamente con il reale, ma è esso stesso il reale. Il cinema è reale perché la coscienza delle cose è presente nella loro superficie: non è un dato trascendente, quanto una possibilità immanente che il cinema riesce ad estrarre e a rendere evidente. Questa concezione della realtà definisce anche la categoria del tempo. Partendo dagli assunti propri di Bergson, Deleuze individua nel reale tre livelli contemporanei: l’attuale, il virtuale e l’immanente. Per entrambi i filosofi, tutte le immagini sono situate sul piano dell’immanenza (piano temporale in cui passato, presente e futuro coesistono) e possono essere ordinate in vari modi. Le immagini presenti sul piano dell’immanenza esistono in quanto tali e sono ciò che sono: non rimandano dunque a nessun livello di trascendente. Il reale così concepito può possedere una pluralità di livelli, così come può essere portatore di una complessità infinità di tempi. Tale complessità gli deriva dalle possibilità tecniche insite nel mezzo.

L’introduzione del concetto di immagine-tempo sarà fondativo nell’analisi che Deleuze propone del cinema della modernità e si configura come un modello paradigmatico con il quale confrontare il cinema di Bergman. Riferendosi alle immagini cinematografiche, il filosofo francese non oppone la coppia reale-irreale, ma introduce la coppia attuale-virtuale. Questa coppia non funziona però per opposizione, ma lavora a partire dalle reciproche determinazioni che i due concetti creano l’uno nei confronto dell’altro. Entrambi i termini afferiscono al reale, con la sola distinzione che l’attuale è il presente. Un presente che, in cortocircuito temporale, è però sempre circondato dagli spettri della virtualità. Come avviene nei film di Bergman, quando il ricordo attiva dei flussi di memoria e si passa dall’attuale alla creazione di circuiti di memoria che insistono sul presente a partire dal passato. La complessità dei circuiti temporali che legano tra loro sul piano dell’immanenza presente e passato devono però trovare un modello di messa in scena in cui incarnarsi: nel cinema di Bergman, questo modello è costituito dalle modalità di rappresentazione del volto umano, che amplifica la propria dimensione di astrazione spaziale per incarnare un possibilità di esperienza temporale.

Istante, volto, primo piano

Nella sua recensione di Prigione (Fängelse, 1949), Jean Douchet propone un’analisi del film che partendo da una dimensione di tipo etico rinviene nella poetica di Bergman la volontà di rispondere alla questione del perché della presenza dell’inferno che regna sulla terra.[10] I personaggi di questo film, costruito su un rapporto matalinguistico realtà-finzione che permette di creare una strutturazione plurale del tempo cinematografico, sono assorbiti dal flusso del tempo della loro esistenza e cercano, a partire dalla presa di coscienza della freddezza e della crudeltà del mondo che li circonda, la possibilità di vivere nonostante tutto un momento di gioia e di pace. Il tempo, sospeso tra la coscienza dell’inevitabilità del fallimento esistenziale che scaturisce nell’annientamento della morte e la possibilità fugace della gioia, rappresenta un «istante privilegiato», una momentanea interruzione dello scorrere del dolore, e cristallizzandosi in una dimensione istantanea sottrae chi la vive al fluire cronologico.

Nella sua analisi, Douchet adotta un approccio di estrema produttività nel confronto con il cinema bergmaniano, evocando la dimensione dello sguardo e correlandola al volto. Da questo punto di vista, possiamo cogliere una sintonia tra la messa in scena del volto del personaggio che guarda – la morente Birgitta-Carolina di Prigione – e la riflessione godardiana secondo la quale Bergman è il «cineasta dell’istante».[11] La pratica del regista svedese dimostra non solo la volontà di utilizzare il mezzo cinematografico in virtù della costitutiva capacità di ‘lavorare’ il tempo, ma anche e soprattutto la possibilità di sottoporlo ad una metamorfosi continua che lo coglie qualitativamente e lo svolge quantitativamente attraverso l’acquisizione, la padronanza e la risignificazione di strutture narrative convenzionali e collaudate, come la scelta di una dimensione spaziale che pertiene alle pratiche di messa in scena e al piano. Per esempio il flashback è il dispositivo di lavoro sul tempo caratteristico di gran parte del primo cinema bergmaniano. Quella del passato che insiste – spesso dominandolo – sul presente costituisce il primo livello della riflessione sulle possibilità del cinema come mezzo di analisi del tempo e di ciò che è intrinsecamente legato ad esso: la memoria e il ricordo. Successivamente Bergman arricchisce e amplifica le possibilità del flashback, spostandosi verso la dimensione del sogno, intesa non in opposizione al reale ma in modo consustanziale ad esso. Il film di svolta è Il posto delle fragole (Smultronstället, 1957), rispetto al quale Fereydoun Hoveyda ha notato che «l’abandon des ‘retour en arrière’ pour l’utilisation systématique du rêve constitue sans doute l’audace la plus apparent du film. […] Bergman se dirige résolument vers une sorte d’intériorisation de la connaissance du héros, méthode seulement effleurée par lui auparavant».[12] Un’altra modalità utilizzata da Bergman per far percepire il tempo è quella di insistere sul corpo attraverso un processo di disvelamento che spesso si accompagna a forme monologanti in cui il personaggio è posto di fronte allo specchio della propria o altrui coscienza. Uno specchio non solo metaforico, in quanto esso diventa l’oggetto tangibile e privilegiato in cui i personaggi riflettono se stessi e riflettono su se stessi. Lo specchio è lo strumento che sottrae il volto dal corpo e lo isola. Permette cioè di scegliere, del corpo, ciò che ne rappresenta la cifra identitaria, l’unicità, isolandola e insistendovi: il volto bergmaniano si fa allora spazio sensoriale di cui e su cui la macchina da presa registra il trascorrere degli istanti.[13]

Il volto come rivelazione della coscienza

Jacques Aumont suggerisce come la maturità di Ingmar Bergman coincida con l’invenzione di forme capaci di mettere in scena il processo di possessione e astrazione del volto, che cessa di rimandare a una dimensione puramente fisica e incarna un livello ulteriore di alterità dell’essere. Partendo dall’assunto deleuziano per cui «il primo piano è il volto», la creazione bergmaniana consiste nella messa a punto di quello che lo studioso francese definisce «iper-primo piano».[14] Nell’uso bergmaniano del primo piano per quel che concerne la prima fase della sua carriera è evidente la lezione di Balázs, quella per cui l’inquadratura del volto «non ha senso fuori dall’esattezza fisica, materiale, del “particolare”. […] Da questi primi piani nasce quello stato d’animo teneramente affettuoso che è proprio di chi vuol scoprire la segreta intimità di una “piccola vita”».[15] Partendo da quest’assunto di base, il lavoro del cineasta svedese è caratterizzato da un progressivo allontanamento dalle forme psicologizzanti di rappresentazione del volto umano, per pervenire a una nuova possibilità di messa in scena della spazialità relativa al corpo attoriale, in grado di operare anche sulla dimensione temporale.

In quanto immagine per propria natura fissa, la fotografia, quando inserita nello scorrere di un flusso di immagini che creano il movimento e con esso il tempo, vede amplificata la propria natura ambigua. Graham Clarke, analizzando una fotografia di Olivia Parker (Bosc, 1977), sottolinea come si tratti di un

saggio sulla capacità della foto di svelare e nascondere a un tempo i propri significati. Da un certo punto di vista, ci domanda non solo cosa e come guardiamo, ma in che modo una foto codifica il «reale». In altre parole, chiede che cosa è una foto. […] L’immagine di Parker suggerisce, essenzialmente, che la foto, lungi dall’esse un’immagine banale o speculare del mondo, è una forma di rappresentazione dai mille inganni. In quanto oggetto proclama la propria presenza, ma resiste a qualsiasi definizione.[16]

Bergman individua nella fotografia sì un referente con la dimensione del reale legato a un concreto, preciso istante capace di testimoniare l’effettivo accadere di qualcosa in un dato momento del tempo (la fotografia come testimonianza), ma pone altresì in essere la problematicità di un mezzo che, dialogando con una dimensione temporale che afferisce al passato, risulta caratterizzato da una forte componente memoriale, capace di distorcere sensibilmente il dato fenomenologico di quell’allora-là (la fotografia come ricordo e forma di presa di possesso). Non si tratta solo di un momento privilegiato che permette allo sguardo, e con esso alla memoria, di ritornare più e più volte sul soggetto fotografato,[17] ma anche di

un mondo ermeticamente chiuso, nel quale introduciamo significato, un complesso gioco di presenza e assenza […]. Barthes, per citarlo ancora una volta, insiste sul fatto che quando guardiamo una foto stiamo sempre vedendo qualcosa di non più esistente. Il momento è passato, la foto riproduce quel che abbiamo perduto e in un certo senso è indizio del profondo bisogno psicologico di registrare, trattenere e classificare il mondo delle nostre azioni. Se la foto è ‘scrivere con la luce’, è anche la nostra firma su quel mondo. Non è tanto la fotografia a ‘sfuggirci’, quanto il mondo che potremmo catturare sulla pellicola.[18]

Nel cinema bergmaniano la fotografia si innesta dunque in una duplice tensione: oggetto testimoniale conservato, scrutato e amato come immagine possibile e sostitutiva del desiderio di un corpo/volto lontano e/o perduto, ma anche – proprio in virtù della sua caratteristica di feticcio legato a doppio filo ad una dimensione di altrove spaziale e temporale – incarnazione di una dimensione sfrangiata e legata all’arbitrarietà individuale del tempo.

La fotografia come immagine sostitutiva

Si pone dunque come una possibile soglia, attraverso la quale penetrare all’interno di un cinema che conduce a un complesso lavoro di riformulazione delle possibilità di rappresentazione della temporalità del cinema.

La fotografia bergmaniana: quel che resta del tempo

Parte del cinema di Bergman si pone nel punto di congiunzione tra fotografia e cinema, cioè quel momento di slittamento che André Bazin ha individuato nel perfezionamento apportato dal mezzo-cinema all’oggettività fotografica.[19]

Nel saggio Ontologia dell’immagine cinematografica, Bazin traccia una sintetica ma pregnante evoluzione del concetto di realismo dell’immagine, che viene intesa come strumento per esorcizzare lo scorrere del tempo e, in definitiva, la morte.[20]

L’attribuzione del potere di esorcizzare il tempo, che viene assegnato alle arti plastiche (nella fattispecie all’immagine foto-cinematografica), non è solo una delle colonne del pensiero baziniano, ma è la direttrice che, sommata all’idea di cinema come «finestra aperta sul mondo», permette di giungere a una concezione del realismo cinematografico che rifiuta la banalità della riproduzione meccanica del mezzo. È anche una riflessione sul rapporto tra istantaneità e durata, cioè il rapporto che viene ad instaurarsi tra l’immagine fotografica e l’immagine cinematografica. Tenendo come punto di riferimento la premessa per cui la fotografia «non crea l’eternità, come l’arte, ma imbalsama il tempo, lo sottrae solamente alla sua corruzione»,[21] non possiamo non notare come Ingmar Bergman si ponga in maniera costante in rapporto di interrogazione con l’immagine fotografica. Essa non è trattata separatamente dall’immagine filmica, non è percepita come un’alterità ontologica nel tessuto proprio del film. È invece struttura consunstanziale inserita nel flusso temporale; ma è un’immagine allusiva, che pur aderendo al testo audiovisivo di cui fa parte, lo forza, lo disarticola, lo apre verso una dimensione altra, ulteriore. Secondo Susan Sontag

la fotografia è un’arte elegiaca, un’arte crepuscolare. Quasi tutti i suoi soggetti, per il solo fatto di essere fotografati, sono tinti di pathos. Anche un soggetto brutto o ridicolo può diventare commovente, se nobilitato dall’azione del fotografo. E un bel soggetto può suscitare sentimenti melanconici, se è invecchiato o si è deteriorato o non esiste più. Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e cogliendolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo.[22]

L’immagine fotografica per Bergman è innanzitutto un’immagine legata in modo molto stretto alla dimensione del ricordo: è immagine-memoria che introduce, nel momento in cui appare nel tessuto temporale dei film, una rottura del flusso cronologico e una moltiplicazione dell’articolazione temporale. Definisce cioè un nuovo livello del tempo che però, a differenza del tempo del ricordo o del sogno, sposta l’asse temporale all’indietro e lo blocca: non vi è uno scorrere parallelo di tempi, ma uno scarto tra il flusso del tempo proprio dell’immagine cinematografica e il tempo istantaneo e immobile dell’immagine fotografica. Così facendo, l’immagine fotografica rende esplicita la dimensione temporale propria del cinema e diventa il centro intorno al quale si addensano virtualità e attualità proprie dell’immagine cinematografica: bloccando in sé lo scorrere del flusso del tempo, rende evidente lo scorrere del tempo proprio di ciò che la circonda. Certe soluzioni stilistiche bergmaniane – pensiamo all’uso del ritratto fotografico ne Il posto delle fragole o in Luci d’inverno (Nattvardsgästerna, 1963) – nascono proprio dall’esigenza di inserire, all’interno di un flusso, una ben precisa e delimitata fetta di tempo. Così, la fotografia della moglie morta del pastore Tomas Ericsson in Luci d’inverno non è solo lo strumento che attiva il ricordo della persona assente, ma diventa una cristallizzazione del tempo passato che si inserisce nel presente, creando una fatturazione del flusso temporale. È dallo scontro tra l’immobilità del tempo della fotografia (ovvero il passato cristallizzato, fermo, ‘morto’) e la dinamicità del presente che nasce il dramma del pastore: incapace di scegliere la dimensione temporale in cui situarsi, ondeggia continuamente tra la certezza del passato e l’incertezza del presente.

Sebbene si tratti di un film tardo nella produzione bergmaniana, Il volto di Karin (Karin ansikte, 1985) è forse l’esempio più puro e diretto del rapporto che Bergman ha instaurato con la fotografia.[23] Scrive il regista, ricordando la genesi del film:

Alcuni anni fa feci un piccolo film sul volto della mamma. Lo feci con la mia macchina da presa a 8 millimetri e un obiettivo speciale. Alla morte di papà avevo rubato tutti gli album di fotografie della famiglia, avevo così a disposizione un materiale considerevole. Il tema del film era dunque il volto della mamma, il volto di Karin, dalla prima immagine all’età di tre anni, all’ultima, una foto tessera scattata qualche mese prima dell’ultimo infarto. […]. E poi viene l’ultima immagine, la fotografia per il passaporto. Alla mamma piacevano i viaggi, il teatro, i libri, i film, la gente. Papà detestava i viaggi, le visite inaspettate e gli estranei. La sua malattia peggiorava e lui si vergognava per la propria goffaggine, il tremito alla testa e la difficoltà a camminare. La mamma fu sempre più legata. A volte si prendeva un po’ di libertà e andava in Italia. Ora il passaporto era scaduto e bisognava farne uno nuovo, sua figlia s’era sposata e trasferita in Inghilterra. Fu fatta la foto per il passaporto. La mamma aveva avuto due infarti. Sembra che un vento gelido abbia soffiato sul suo volto, i lineamenti si sono leggermente spostati. Lo sguardo è velato, lei che leggeva sempre non può più leggere, il cuore è avaro nel rifornire il sangue, i capelli sopra la fronte larga e bassa sono grigi come il ferro e pettinati all’indietro, la bocca sorride incerta, bisogna sorridere nelle fotografie. La pelle morbida delle guance è gonfia e cosparsa di solchi e incavature, le labbra sono rinsecchite.[24]

Il cortometraggio è un viaggio memoriale e nostalgico nella vita delle madre del regista, reso semplicemente attraverso l’utilizzo di fotografie. Le fotografie della madre defunta del regista sono il documento tangibile di un’assenza, che però riescono ad attivare, virtualizzandola, la possibilità di una presenza.

Le ceneri del tempo: Il volto Karin

Il tempo catturato nell’immagine fotografica è il tempo che ripete incessantemente quell’allora-là che la fotografia conserva. Da questo punto di vista va inoltre notato che, considerando la tendenza bergmaniana a definire più piani di realtà all’interno dei suoi film,

in contrapposizione all’idea della fotografia come qualcosa di reale e fedele è sempre esistita una forte tendenza, per lo più associata alla «fotografia artistica», che insiste sulla capacità di questo mezzo di esprimere qualcosa al di là dell’apparenza superficiale delle cose. La fotografia rimanda l’immagine non di una realtà precisa, bensì di una super-realtà, o di una realtà spirituale.[25]

Certamente Bergman in questo film ha in mente la creazione di una realtà che non sia definita entro stretti confini: più che un ritratto concreto e rigidamente fissato della madre quello che ne esce è una dimensione fluida, evanescente, che non può essere afferrata. Omaggio intimo, il film nasce anche come possibile risposta alla domanda teorica di come il ritratto possa esplicitare il mondo interiore del soggetto.[26]

L’inafferabilità del reale (il ricordo della madre) va di pari passo con l’inafferrabilità del tempo, che è quello di un reale che è stato e che va a sovrapporsi a quello in corso, registrato e fissato su pellicola nel momento del suo farsi: Il volto di Karin è il film del tempo passato che si invera nel presente o, meglio, della virtualizzazione del passato nel presente, per garantire a quest’ultimo un senso che sembra non possedere.[27] Ma questo piccolo film intimo non è tanto connotato da una dimensione sperimentale di utilizzo del tempo, benché come abbiamo visto ponga a confronto temporalità diverse e in apparenza impossibilitate nella loro coesistenza (istante-stasi contro flusso-durata), quanto da un esercizio della memoria simile a quello svolto dal protagonista de Il posto delle fragole all’interno del suo studio.[28] Così come in quel film i ritratti dei membri della sua famiglia erano il mezzo con cui Bergman tratteggiava un personaggio ossessionato dal tempo passato, in questo film è Bergman il personaggio ossessionato dalla dimensione del ricordo e dalla volontà del controllo (del passato). Il volto di Karin è sì un film sul dolore del tempo e sulla perdita degli affetti, sulla volontà di rimeditare il passato con la coscienza del presente, ma è anche un film in cui il soggetto che ricorda è esterno all’opera che mette in scena il suo ricordo. Ed è soprattutto un film in cui si vuole cercare di costruire un mondo a partire da un’assenza che non potrà essere colmata: il tempo al presente del film viene riempito del tempo del passato, procedendo alla creazione di una realtà fittizia. Ma perché fittizia e non completamente, seppur declinata secondo la categoria della virtualità, reale? Per Sontag

le fotografie sono un modo di imprigionare la realtà, intesa come recalcitrante e inaccessibile, o per immobilizzarla. Oppure ingrandiscono una realtà che si percepisce rattrappita, svuotata, caduca, remota. Non si può possedere la realtà, ma si possono possedere le immagini (ed esserne posseduti), come, secondo Proust, il più ambizioso dei reclusi volontari, non si può possedere il presente, ma solo il passato.[29]

La dimensione fittizia della creazione di una realtà al presente che mimi l’assenza del passato risiede dunque proprio nell’impossibilità di far collimare i piani temporali di passato e presente che caratterizzano rispettivamente l’immagine fotografica e l’immagine cinematografica: pur coesistendo nella stessa dimensione, esse rimangono separate. Infatti, come evidenzia Clarke, la specificità dell’immagine fotografica è quella di fissare

un momento nel tempo. Come abbiamo visto, il tempo di esposizione dell’immagine subì variazioni nel corso della storia, passando da ore a frazioni di secondo, ma anche la velocità dell’apparecchio fotografico ha contribuito al mito della «veridicità» della fotografia: la registrazione di quel che è successo in quel momento. Anche il discorso sul «catturare» (riflesso con particolare chiarezza negli esprimenti compiuti da Eadweard Muybridge per registrare visivamente il movimento) va del resto inserito in un contesto culturale. Come afferma Hubert Damish, la fotografia ci dà «la traccia di un oggetto o una scena del mondo reale», ma solo nella misura in cui «isola, conserva e presenta un momento sottratto a un continuum». E da qui un altro paradosso, infatti noi guardiamo una foto come qualcosa che registra il tempo, come un documento storico, quando essa invece non può fare a meno di fermare il tempo e estrapolare il soggetto dalla storia. Tutte le fotografie, in questo senso, non hanno né un prima, né un dopo: rappresentano solo il momento della loro realizzazione.[30]

È in questa assenza «di prima» e «di dopo» propria dell’immagine fotografica che si gioca non tanto la sua specificità ontologica in rapporto a quella cinematografica, quanto piuttosto l’utilizzo che Bergman ne fa nel suo cinema. L’immagine fotografica, che è indice di un realismo del tempo congelato nel corso del suo scorrere, rappresenta nel cinema bergmaniano due concetti diversi eppure strettamente correlati: da una parte una delle possibilità del reale fenomenologico, dall’altra una temporalità istantanea che permette sia di spezzare il flusso dello scorrere del tempo sia di introdurre la dimensione del passato, senza che questa venga trattata parallelamente al presente in cui avviene il momento memoriale. Bergman tratta dunque la fotografia, a differenza delle possibilità che gli riconosce Clarke, non come vettore verso un livello ulteriore, come surplus di reale, ma come una concrezione di tempo bruta definita da un fatto (in un determinato momento del passato è successo qualcosa). Non c’è ricerca di possibilità che svincolino la fotografia da questa sua condizione ontologica. Per il cineasta svedese la fotografia è un mezzo che permette di mettere in scena un passato puro, cristallizzato in un’immagine che non si può muovere perché è il tempo insito in essa ad essere immobile. I movimenti temporali verranno allora definiti dalla frizione che si crea tra questa concrezione di passato puro e fisso, la dimensione fluida e mobile della temporalità del passato memoriale e quella lineare di un presente continuamente attualizzato. Un presente che cerca nell’immagine fotografica una forma di possesso, caratterizzata dalla nostalgia, dalla volontà di controllo e dal vampirismo psichico,[31] ma che si trova posta ogni volta in scacco: ciò che rimane delle fotografie a cui i personaggi bergmaniani sono tanto legati, a cui guardano con occhi pieni di desiderio e rimpianto, è solo la dimensione di un tempo perduto, che ha trasformato in cenere (fisica e memoriale) i soggetti ritratti. Anche l’immagine cine-fotografica brucia e ciò che rimane è solo cenere del tempo.


1F. Polidori, Introduzione, in H. Bergson, Durata e simultaneità [1922], a cura di F. Polidori, Milano, Raffalleo Cortina,2004, p. XIV.

2 Cfr. H. Bergosn, Durata e simultaneità, cit., p. 45.

3 Ibidem.

4 Ivi, pp. 51-52.

5 Le altre due sono l’immagine-percezione e l’immagine-azione.

6 G. Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento [1983], trad. it. di J.-P. Manganaro, Milano, Ubulibri, 1984, p. 104.

7 Ivi, p. 118.

8 Cfr. J. Aumont, Ingmar Bergman. Mon films sont l’explication de mes images, «Cahiers du Cinéma», août 2003, pp. 161-162.

9 H. Bergson, Durata e simultaneità, cit., p. 46.

10 Cfr. J. Douchet, L’instant privilégié, «Cahiers du Cinéma», 95, mai 1959, p. 52.

11 J.-L. Godard, Bergmanorama, «Cahiers du Cinéma», 85, juillet 1958, p. 2.

12 F. Hoveyda, Le plus grand anneau de la spirale, «Cahiers du Cinéma», 95, mai 1959, p. 41.

13 L’annullamento del corpo inteso come individualità del soggetto si accorda con l’uso estensivo del primo piano del volto. Si veda la negazione delle tre funzioni del volto (individuante, socializzante e relazionale) determinate dal primo piano nella riflessione di Deleuze: G. Deleuze, Cinema 1, cit., p. 122.

14 J. Aumont, Ingmar Bergman, cit., p.170.

15 B. Balázs, Il Film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova [1930], trad. it. di F. Di Giammatteo, Torino, Einaudi, 1987, p. 51.

16 G. Clarke, La fotografia. Una storia visuale e culturale [1997], trad. it. di B. Del Mercato, Torino, Einaudi, 2009, p. 20.

17 A questo proposito Sontag scrive che «le fotografie possono essere ricordate più facilmente delle immagini in movimento, perché sono una precisa fetta di tempo anziché un flusso. […] Ogni fotografia è invece un momento privilegiato, trasformato in un piccolo oggetto che possiamo conservare e rivedere»: S. Sontag, Sulla fotografia: realtà e immagine della nostra società [1989], trad. it. di E. Capriolo, Torino, Einaudi, 2004, p. 17.

18 G. Clarke, La fotografia, cit., p. 20.

19 Ivi, p. 9.

20 Cfr. A. Bazin, Ontologia dell’immagine cinematografica, in Che cos’è il cinema? [1953], trad. it. di A. Aprà, Milano, Garzanti, 1999, p. 4.

21 Ibidem.

22 S. Sontag, Sulla fotografia, cit., pp. 14-15.

23 A questo proposito cfr. F. Pezzetti Tonion, La messa in scena del ricordo. Fotografia e memoria ne Il volto di Karin, «Fata Morgana», 15, 2012, pp. 211-215.

24 I. Bergman, Lanterna magica [1987], trad. it. di F. Ferrari, Milano, Garzanti, 1990, pp. 257-58.

25 G. Clarke, La fotografia, cit., p. 14.

26 Clarke sostiene che una delle questioni poste dal ritratto fotografico è come possa «un’immagine letterale esprimere il mondo interiore, l’essere di un individuo davanti alla macchina fotografica? Fin dagli albori del ritratto fotografico i fotografi si sono posti il problema di come esprimere in una singola immagine un presunto essere “interiore”. […] Il ritratto fotografico è dunque sede di una complessa serie di iterazioni – estetiche, culturali, ideologiche, sociologiche e psicologiche. Per molti versi, dell’immagine fotografica ci presenta al tempo stesso i caratteri più banali e quelli più complessi e problematici. […] La foto ritrattistica oscilla tra parametri di significato opposti: una costante dialettica di valori al cui interno è prigioniero il problema della condizione individuale e dell’identità» (ivi, pp. 111-112).

27 Cfr. S. Sontag, Sulla fotografia, cit., p. 144.

28 Sull’uso della fotografia ne Il posto delle fragole cfr. A. Scandola, Ingmar Bergman. Il posto delle fragole, Torino, Lindau, 2008, pp. 131-134.

29 S. Sontag, Sulla fotografia, cit., pp. 140-141.

30 G. Clarke, La fotografia, cit., pp. 18-19.

31 Una forma di vampirismo psichico legata all’immagine fotografica è rappresentata dal personaggio di Elis Vergerus (Erland Josephson), che in Passione (En passion, 1969) coltiva l’hobby di raccogliere ritratti fotografici (sia realizzati personalmente, sia ritagliati da giornali e riviste) e catalogarli secondo una classificazione definita dagli stati d’animo.