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L’affastellarsi di ricordi autobiografici puntella romanzi, testi drammaturgici, sceneggiature, autobiografie costruite da Ingmar Bergman. La presenza di ritratti fotografici partecipa in alcuni suoi film a tale riconfigurazione di ricordi. In molti casi la messa in scena delle fotografie è contaminata da costruzioni fantasmatiche che, a loro volta, modellano la scrittura di autobiografie e romanzi. Il saggio si concentra sull’analisi di Karin Ansikte (Il volto di Karin, 1984) e Trolösa (L’infedele, 2000), quest’ultimo scritto da Bergman e realizzato da Liv Ullmann.  

The accumulation of autobiographical memories underpins novels, dramaturgical texts, screenplays, autobiographies built by Ingmar Bergman. The presence of photographic portraits in some of his films participates in this reconfiguration of memories. In many cases, the staging of the photographs is contaminated by phantasmatic constructions which, in turn, shape the writing of autobiographies and novels. The essay focuses on the analysis of Karin Ansikte (Karin’s Face, 1984) and Trolösa (Faithless, 2000), the latter written by Bergman and made by Liv Ullmann.

 

L’affastellarsi di ricordi autobiografici puntella romanzi, testi drammaturgici, sceneggiature, autobiografie costruite da Ingmar Bergman, a volte alla stregua di composizioni narrative come in Lanterna magica,[1] altre di riflessione diretta del regista sulla genesi della propria produzione artistica come in Immagini,[2] e altre ancora di ricognizione aspra e dura sul dolore dell’esistere, come nel caso di Tre diari[3] scritto insieme alla moglie Ingrid von Rosen e alla figlia Maria al fine di elaborare il dramma della malattia e della scomparsa di Ingrid.

Senza alcuna ingenua volontà di rivelare una qualsivoglia verità esperienziale, la scrittura in Bergman, sia essa letteraria o filmica, risponde a una sorta di contagio tra percezioni modellate nel tempo e immaginazione. L’autobiografia nelle opere del regista non testimonia una fedeltà ad un genere ma, più profondamente, interroga processi creativi nelle loro potenzialità trasformative: luci, colori e suoni alimentano parola e composizione visiva. In diverse sue pellicole il processo creativo stesso si definisce a partire da un’immagine. Viene così generata una fitta tessitura che espone figure, luoghi e sentimenti alla manipolazione della costruzione artistica.

La presenza di ritratti fotografici partecipa in alcuni suoi film a tale pratica di incroci.[4] E in più casi la loro è una messa in scena autobiografica, contaminata da costruzioni fantasmatiche[5] che, a loro volta, modellano la scrittura di autobiografie e romanzi, Karin Ansikte (Il volto di Karin, 1984) e Trolösa (L’infedele, 2000), quest’ultimo scritto da Bergman e realizzato da Liv Ullmann, sono i film da me scelti per un confronto tra i due procedimenti.

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Jean Douchet’s reflections on the concept of the «privileged instant» and Deleuze’s thesis that «the close-up is the face» are the starting points of this paper, which focuses on the relationship between photography and cinema in Ingmar Bergman’s films. In particular, the author points out how Swedish director’s concentration on facial close-ups led to the definition of complex forms of temporality arising from the friction, juxtaposition, and interaction between the photographic image and the filmic one. Within the mesh of mediating forms which characterize Bergman’s cinema, the photographic image – as both memory and document – assumes different forms that are often in contrast with each other: first, it works as a mark of reality in its phenomenological dimension. Later, it becomes a threshold giving access to a form of cinema that reworks out new ways of representing temporality in film. By relying on the methodological instruments offered by the philosophy of Henri Bergson (with particular reference to the concepts of «duration and simultaneity») and on Gilles Deleuze’s reflections on the time-image, the paper surveys the multilayered and multi-medial nature of Bergman’s works: the plurality of chronological time matches the self and its changeable incarnations, in which the individual is progressively and inevitably annihilated.

Per un’immagine dell’assenza

Tra i numerosi esempi di messa in scena dello sguardo offerti dalla filmografia di Ingmar Bergman scegliamo un caso particolare, presente all’interno di un film densamente stratificato come L’ora del lupo (Vargtimmen, 1968), in cui la dimensione metalinguistica, nel racconto ambiguo e sospeso tra realismo e allucinazione della crisi del pittore Johan Borg, si apre verso le possibilità del fantastico e della messa in scena di una pluralità di tempi. Il regista ci presenta un’inquadratura che riprende la moglie di quest’ultimo intenta ad osservare il ritratto di Veronica Vogler, che in passato fu l’amante del marito.

Con una dissolvenza incrociata, Bergman nega allo spettatore la possibilità di vedere la figura di quella donna che è la costante presenza costitutiva del film. Così, il ritratto che concretizza nel presente il passato è annullato e con esso è annullato quel tempo che poteva conservarvisi.

Questa inquadratura pone in essere uno dei tratti costitutivi del film, cioè quella complessa dialettica tra l’immagine-rappresentazione e l’assenza del soggetto rappresentato e, nel definire i tratti di pertinenza di questo rapporto, assegna al tempo una rilevanza peculiare, dal momento che l’immagine si pone come sostituto di un soggetto legato alla dimensione di un passato che viene evocato tanto da assorbire completamente il presente e trasfigurarlo in una dimensione allucinatoria. Il costante legame che Johan Borg intrattiene con il passato crea un corto circuito temporale in cui coesiste una molteplicità di tempi (passato-presente, ma anche il tempo mentale della memoria e del desiderio) legati alla necessità psicologica di colmare un’assenza. L’immagine del simulacro, il ritratto di cui ci viene negata la visione, rappresenta allora un grumo di significato in cui si condensa la potenzialità propria dell’immagine, connotata dalla potenza evocativa e dalla capacità di essere attraversata da una pluralità di tempi diversi.

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