Per un’immagine dell’assenza
Tra i numerosi esempi di messa in scena dello sguardo offerti dalla filmografia di Ingmar Bergman scegliamo un caso particolare, presente all’interno di un film densamente stratificato come L’ora del lupo (Vargtimmen, 1968), in cui la dimensione metalinguistica, nel racconto ambiguo e sospeso tra realismo e allucinazione della crisi del pittore Johan Borg, si apre verso le possibilità del fantastico e della messa in scena di una pluralità di tempi. Il regista ci presenta un’inquadratura che riprende la moglie di quest’ultimo intenta ad osservare il ritratto di Veronica Vogler, che in passato fu l’amante del marito.
Con una dissolvenza incrociata, Bergman nega allo spettatore la possibilità di vedere la figura di quella donna che è la costante presenza costitutiva del film. Così, il ritratto che concretizza nel presente il passato è annullato e con esso è annullato quel tempo che poteva conservarvisi.
Questa inquadratura pone in essere uno dei tratti costitutivi del film, cioè quella complessa dialettica tra l’immagine-rappresentazione e l’assenza del soggetto rappresentato e, nel definire i tratti di pertinenza di questo rapporto, assegna al tempo una rilevanza peculiare, dal momento che l’immagine si pone come sostituto di un soggetto legato alla dimensione di un passato che viene evocato tanto da assorbire completamente il presente e trasfigurarlo in una dimensione allucinatoria. Il costante legame che Johan Borg intrattiene con il passato crea un corto circuito temporale in cui coesiste una molteplicità di tempi (passato-presente, ma anche il tempo mentale della memoria e del desiderio) legati alla necessità psicologica di colmare un’assenza. L’immagine del simulacro, il ritratto di cui ci viene negata la visione, rappresenta allora un grumo di significato in cui si condensa la potenzialità propria dell’immagine, connotata dalla potenza evocativa e dalla capacità di essere attraversata da una pluralità di tempi diversi.