Dentro la girandola di visioni del Festival del cinema ritrovato c’è spazio per un intimo, misurato omaggio a Pupi Avati, organizzato da Andrea Maioli in forma di viaggio fotografico (Sala d’Ercole, Palazzo d’Accursio, 22 giugno-14 agosto 2014). L’invenzione del curatore consiste nell’aver sovrapposto ricordi autobiografici e ragioni di poetica, temi visivi ricorrenti e immagini intime, in una serie di nove stazioni che offrono al visitatore frammenti di un discorso amoroso sulla vita e sull’arte. Al centro di ognuna si trova un racconto visuale affidato a frames tratti da alcuni dei film più celebri e scatti di famiglia, montati senza soluzione di continuità a sottolineare la permeabilità dell’immaginario del regista da sempre votato alla contaminazione tra dettagli privati e invenzioni fantastiche.
Il modo attraverso cui l’esperienza di Avati viene messa in quadro sembra essere l’oscillazione nostalgica fra pathos e memoria, «l’imperfetto dell’obiettivo» (Scianna, Autoritratto di un fotografo). Luoghi, volti, oggetti, riti migrano dal reale al set, in un andirivieni di finzioni e verità, per poi depositarsi in piccole costellazioni di senso, che Maioli assembra secondo traiettorie non lineari. Ogni passaggio conserva la gioiosa casualità del quotidiano e il meticoloso artigianato della fabbrica di celluloide; cinema e vita coesistono – l’uno accanto all’altra, l’uno dentro l’altra – nel breve spazio di un puzzle di sguardi, capace di generare istanti di grande efficacia evocativa