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In occasione della pubblicazione del libro Letteratura e fotografia di Silvia Albertazzi incontriamo l’autrice all’Università di Bologna. Il libro si configura come un anello che congiunge i diversi studi sul rapporto tra letteratura e fotografia e salda con limpidezza e sensibilità i legami tra i due linguaggi nella storia di entrambi.

We meet Silvia Albertazzi at the University of Bologna to discuss the publication of her book Letteratura e fotografia. This work explores and brings together the existing studies on the relationship between literature and photography, skilfully and sensitively tackling the connections between the two languages.

 

Laura Gasparini: Letteratura e fotografia, com’è nato questo libro e qual è stata la tua esigenza di affrontare questo tema?

Silvia Albertazzi: Ho iniziato a studiarlo in maniera scientifica intorno al 2004/2005, quando mi è stato richiesto di entrare a far parte di un gruppo di ricerca nazionale, che lavorava su letteratura e arti visuali. Erano coinvolte tre università: quella di Bologna, de L’Aquila e di Palermo. Palermo si occupava dei dispositivi della visione prima della fotografia, L’Aquila del cinema, Bologna aveva già scelto, prima che io entrassi nel gruppo, la fotografia. Quindi da lì ho incominciato a occuparmene in maniera scientifica e continuativa.

Mi sono molto appassionata e ho continuato a studiare questo filone autonomamente fino ad ora. È un argomento che mi ha sempre affascinata e che mi ha sempre seguita, anche per motivi molto semplici, come la passione per la fotografia di mio marito, che mi portava a vedere le mostre dei grandi autori e non solo. Inoltre, mio marito ha realizzato una serie di ritratti di scrittori che ora, in parte, adornano il mio studio.

 

L. G.: Nel tuo libro hai indagato il tema del ritratto fotografico nelle sue molteplici forme: l’album di famiglia, la fotografia vernacolare e la figura del fotografo, in veste di narratore, che indaga appunto il ritratto, escludendo altri generi, come ad esempio il paesaggio. Immagino sia stato un focus ben preciso, ma perché hai scelto di partire da queste forme meno eclatanti nella storia della fotografia, ma certamente non meno importanti?

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Il saggio intende collocare la recente produzione narrativa di Simona Vinci ed Alessandro Perissinotto nell’ambito della letteratura realistica influenzata dai topoi della tradizione gotica e fantastica. La fotografia ed altre arti visive emergono come i mezzi tramite cui l’aspetto perturbante e quello realistico comunicano, creando un artificio retorico-narrativo che, lungi dal rimanere semplice sfoggio stilistico, trova motivazione in una precisa finalità storico-sociale. 

This essay places the recent narrative production of Simona Vinci and Alessandro Perissinotto in the field of realistic literature as influenced by the tropes of the gothic and fantastic tradition. Photography and other visual arts emerge as the media through which the uncanny and the realistic aspects communicate, creating a rhetorical and narrative device that, far from remaining mere stylistic display, is motivated by precise socio-historical goals. 

 

È ben conosciuta l’interpretazione psicanalitica della violenza negli anni di piombo, secondo cui lo Stato si identifica con una figura paterna da rinnegare. In questa rappresentazione degli anni Settanta, l’eliminazione fisica di importanti personalità istituzionali rimanda ad un’analogia non solo con il rifiuto dell’autorità del padre, ma con tutto il sistema gerarchico che veniva messo in discussione dal clima di contestazione e, successivamente, dalla lotta armata. Come ha scritto Raffaele Donnarumma, «è con l’omicidio di Aldo Moro che lo schema del parricidio viene promosso a mito tragico sotto il quale mettere un’intera epoca della storia repubblicana»,[1] considerazione che lo stesso Donnarumma invita a rileggere non solo in relazione alla figura di un padre oppressivo, ma anche a quella di un’autorità evanescente. La controversa ricostruzione storica degli anni del terrorismo ha anche generato, in narrativa, significative aperture al modo fantastico. Per esempio, il ritorno spettrale di un passato con cui non si sono chiusi i conti e l’ingiusto oblio caduto su alcune vittime si manifestano spesso, nel genere romanzo, attraverso la caratterizzazione di un fantasma. In particolare gli studi di Federica Colleoni hanno fatto emergere una chiara relazione fra aspetti perturbanti e finalità sociali in alcuni romanzi sugli anni di piombo pubblicati negli anni Zero, e la figura dello spettro è stata studiata nelle declinazioni narrative di chi riappare allo scopo di dar voce a problematiche mai affrontate fino in fondo.[2] Metterò al centro di questo saggio una tendenza che, pur rifacendosi ad alcuni degli schemi sopraelencati, si distingue in modo originale, in anni ancora più recenti, nella produzione di romanzieri importanti: l’intersezione tra fotografia, violenza politica, elementi fantastici e storia degli istituti psichiatrici prima della legge Basaglia.

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  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

Composta dopo una lunga e travagliata redazione durata circa tre anni, durante i quali Vittorini si occupa con estrema cura di presiedere a tutte le fasi (dal reportage realizzato ad hoc in Sicilia nell’inverno del 1950 al disegno del layout di ciascuna pagina), l’edizione di Conversazione in Sicilia con le fotografie di Luigi Crocenzi rappresenta un caso originalissimo di fototestualità e una testimonianza fondamentale dell’interesse mostrato dallo scrittore verso i linguaggi della visualità.

Il volume, pubblicato da Bompiani nell’inverno del 1953 come libro strenna, riceve una pessima accoglienza dalla critica. I lettori degli anni Cinquanta, per i quali Conversazione in Sicilia rappresentava uno dei testi canonici della letteratura resistenziale, si trovano di fronte ad un’opera di sconvolgente modernità, che propone una tessitura fototestuale volta a dare risonanza alla trama simbolico-allegorica del romanzo e non riescono a comprenderne il significato e il valore. Persino un lettore d’eccezione come Eugenio Montale, per di più grande amico di Vittorini sin dal periodo fiorentino, storce il naso di fronte alla trasformazione del «libro documento» in «libro cosa», e avverte il lettore che si troverà dinnanzi all’inattesa richiesta di «compromesso» fra la Sicilia immaginaria, disegnata tra le pagine di Conversazione, e «l’isola reale» resa visibile dall’apparato fotografico (Montale 1966).

Enrico Falqui mette addirittura in dubbio l’utilità dell’accostamento di immagini ai testi:

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Una lettura del rapporto tra Vittorini e la fotografia non può prescindere dalla congenita ibridazione dei linguaggi rintracciabile sia nelle riflessioni teoriche, sia nell’effettivo utilizzo delle immagini fotografiche proposto dallo scrittore. Luoghi privilegiati di ‘esercizio visivo’ – dopo l’antologia Americana (1941) e prima del ritorno nella terra d’origine per l’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia (1953) – i trentanove fascicoli del Politecnico, settimanale e poi mensile di cultura contemporanea, convogliano nell’immediato dopoguerra una serie di istanze di rigenerazione che agiscono tra i fogli della rivista attivando livelli molteplici di lettura e coinvolgendo tanto il paino contenutistico, quanto l’aspetto grafico, le componenti paratestuali e, non ultimo, il cospicuo apparato iconografico.

Uno sguardo alle pagine del Politecnico tradisce in maniera quasi immediata la frequenza, e incidenza, di fotografie organizzate in gruppi; è in essi che risiede spesso la chiave di volta dell’interpretazione relativa all’impiego delle illustrazioni nel periodico. Oltre che nel dialogo con le didascalie e con i testi, infatti, è nell’interazione delle immagini tra di loro che bisogna ricercare il nucleo semantico delle fotografie, tanto più se il piano metodologico incontra gli intenti espressi, appunto, da precise dichiarazioni di poetica di Vittorini:

 

Partendo da questo scritto, di capitale importanza ai fini di un’indagine sulle relazioni tra Vittorini e la fotografia, Giovanni Falaschi ha evidenziato la matrice cinematografica, nonché irrimediabilmente letteraria, della concezione vittoriniana della fotografia (cfr. Falaschi 1987, pp. 34-37); Maria Rizzarelli, curatrice della settima edizione di Conversazione in Sicilia, corredata dalle fotografie di Luigi Crocenzi, si è soffermata sulle «finalità narrative e non puramente didascaliche» delle fotografie nelle esperienze vittoriniane antecedenti al romanzo e ha posto l’accento sulle «potenzialità semantiche e diegetiche» offerte dall’utilizzo dei materiali iconografici da parte dello scrittore (Rizzarelli 2007, pp. V-VI); Giuseppe Lupo, recuperando gli spunti interpretativi rintracciabili nelle recensioni cinematografiche pubblicate da Vittorini sul Bargello negli anni Trenta, ha chiarito la scaturigine del rapporto di analogia che lo scrittore istituisce tra la narrativa e il cinema in quanto dinamica sequenza di fotogrammi, tra il racconto e il movimento generato dalle fotografie disposte in successione (cfr. Lupo 2011, p. 68-73). È un dato acquisito dalla critica, insomma, anche nei contributi più recenti, il nesso tra la concatenazione delle immagini e una componente narrativa che sovrasta l’identità della singola fotografia e che induce a ricercare il senso delle illustrazioni nel loro susseguirsi. Dalle parole dello stesso Vittorini scaturisce una considerazione del medium fotografico che paradossalmente prescinde dallo specifico della fotografia e si lega a doppio filo sia con la sintassi filmica che con il linguaggio verbale, e sovrappone e fonde insieme, oltretutto, le strutture di questi ultimi due codici in ragione di una esorbitante creatività di segno letterario. «Nessuna immagine era mai abbandonata a se stessa», ricorda Giuseppe Trevisani, «ma ognuna era costretta, tagliata, interpretata, scelta, forzata, reinventata sulla pagina: […] la fotografia era diventata per noi, in quegli anni, veramente lessico, cioè comunicazione e linguaggio» (Trevisani 1966, p. 36).

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La lunga frequentazione ‘fattiva’ delle arti figurative che contraddistingue l’attività editoriale di Elio Vittorini concorre ad arricchire il prospetto degli esempi di apertura dello scrittore nei confronti dell’universo visuale. Durante la collaborazione con Bompiani, alle soglie degli anni Quaranta, per la collana Pantheon da lui ideata, l’autore si occupa della ricerca negli archivi e dell’impaginazione delle illustrazioni. «Dei compiti redazionali per “Pantheon”», conferma Raffaella Rodondi, «quello attinente al reperimento e alla scelta dell’iconografia è forse il più gradito a Vittorini che lo assolve con inventiva e passione, provvedendo in vario modo alla ricerca delle fonti» (LAS II, p. 123). Lo stesso accadrà, tra il 1949 e il 1952, per la collezione einaudiana dei Millenni, per la quale Vittorini, in contatto con l’Archivio Alinari, cura l’illustrazione di tre classici, Il Decameron, l’Orlando furioso e le Commedie di Goldoni.

Il corredo illustrativo della collana Pantheon è costituito da riproduzioni di opere d’arte, tranne che nel caso di Americana. L’antologia che raccoglie testi di narratori statunitensi dalle origini fino all’età contemporanea è metafora di una letteratura sulla quale non gravano il peso e i condizionamenti della tradizione europea ed è illustrata prevalentemente da fotografie e da scatti rappresentativi del realismo americano degli anni Trenta. È noto come al momento delle sue prime apparizioni l’opera vada incontro a un difficile percorso editoriale che determina l’eliminazione delle note introduttive di Vittorini e coinvolge anche la colonna iconografica. Pubblicata per la prima volta nel 1941, in un’edizione che non verrà diffusa, Americana subisce la manovra ideologicamente ‘correttoria’ garantita dalla prefazione di Emilio Cecchi, confluita nella versione del marzo 1942, che riconduce (e riduce) lo slancio metaforico dei corsivi vittoriniani ai «segni d’una moda» (Cecchi 2015, p. 1457), salvo vedersi nuovamente negata la ratifica del nulla osta fino a quando il veto ministeriale non culmina nella decisione di sostituire i corsivi del curatore con una selezione di passi critici e, dunque, nella stampa di una ulteriore edizione, effettivamente distribuita, dell’ottobre 1942.

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Partendo da una affermazione di Michele Smargiassi, secondo cui i romanzieri, nutrendo la presunzione del primato della parola sull’immagine, si pongono in atteggiamento competitivo nei confronti della fotografia, e cercano di andare oltre la foto per individuarne significati reconditi che solo la parola sarebbe in grado di cogliere, il saggio si propone di analizzare alcuni romanzi e racconti in cui la narrazione stessa è sostanziata dal rapporto con la fotografia. Si tratta, da un lato, di opere, interpretabili in chiave metanarrativa, che hanno per protagonisti dei fotografi (da Hawthorne a Tournier e Don DeLillo); dall’altro, di lavori la cui stessa scrittura presenta caratteristiche ‘fotografiche’, nell’uso delle luci, nel taglio e nella cesura delle immagini, nella stessa poetica (da Henry James a Geoff Dyer).

Michele Smargiassi affirmed that the novelists, who believe in the primacy of the word over the image, always try to go beyond the photographs to find hidden meanings in it. Objecting to this affirmation, on the one hand, this essay analyzes some literary works where the use of photography can be read in a metafictional key (see the use of fictional photographers from Hawthorne to Tournier and DeLillo). On the other hand, works whose very texture can be defined as ‘photographic’ are taken into account (see the use of light, cut, framing and the very poetics of authors like, for instance, Henry James and Geoff Dyer). 

 

 

Così scriveva Michele Smargiassi alcuni anni or sono nel suo blog, sottolineando come gli autori di narrativa, nutrendo la presunzione del primato della parola sull’immagine, si pongano in atteggiamento competitivo nei confronti della fotografia. Dopo aver rilevato che la maggior parte degli autori non vede l’immagine, ma vede solo attraverso l’immagine, e cerca quindi di andare oltre la foto per individuarne significati reconditi che solo la parola sarebbe in grado di cogliere, Smargiassi concludeva: «Questi scrittori si tuffano nell’immagine fotografica dando una spallata brutale al fotografo».[2] Se questo è l’atteggiamento più comune dei romanzieri nei confronti della fotografia (e lo dimostrerebbe la famosa – per non dire famigerata – affermazione di William Saroyan secondo cui una foto vale più di mille parole solo a patto che qualcuno le pronunci) va tuttavia rilevato che nel corso del tempo molti scrittori hanno posto al centro dei loro romanzi, in funzione squisitamente metanarrativa, figure di fotografi, ovvero hanno usato la fotografia come mise en abyme non solo del testo, ma della stessa scrittura.

Già nel 1851, neppure una dozzina d’anni dopo quel 1839 che vide il riconoscimento ufficiale della dagherrotipia da parte del governo francese, negli Stati Uniti, Nathaniel Hawthorne, affidando a un dagherrotipista, Holgrave, lo scioglimento del mistero al centro del suo romanzo The House of the Seven Gables (La casa dei sette abbaini), riconosceva l’importanza della fotografia, ancora guardata con diffidenza dai suoi contemporanei, incerti se considerarla un manufatto scientifico, prodigioso, ma non equiparabile a opera d’arte, o una magia perturbante, se non, addirittura, una stregoneria. Hawthorne, invece, omologava paradossalmente alla propria arte il lavoro del dagherrotipista, per lo più praticato da individui privi di cultura e conoscenze tecniche e, secondo Nadar «alla portata dell’ultimo imbecille e dei falliti di tutte le carriere».[3] In tal modo, l’autore americano dimostrava non solo di comprendere le potenzialità del mezzo fotografico, ma anche di intuire, al pari del grande fotografo francese suo contemporaneo, la necessità di un talento innato, non dissimile da quello dello scrittore, per esercitare al meglio questa pratica così umile e bistrattata. L’attitudine di Holgrave nei confronti del proprio mestiere – «Faccio quadri con la luce del sole»,[4] spiega alla giovane Phoebe che gli chiede quale sia il suo lavoro – sembra riflettersi, infatti, in un altro pronunciamento di Nadar, di sei anni posteriore al romanzo di Hawthorne:

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Disobedience, l’ultimo film di Sebastián Lelio, nelle sale italiane da alcuni giorni, racconta la storia di Ronit, fotografa londinese che vive a New York e torna a Hendon, nel sobborgo della capitale dove è cresciuta, subito dopo la morte del padre, il Rav Krucka, rabbino della comunità ebraica ortodossa che lei ha ormai abbandonato da sei anni. Al suo ritorno Ronit ritrova il cugino Dovid, erede degli insegnamenti del Rav, e scopre che ha sposato Esti, amica d’infanzia con cui lei aveva vissuto una appassionata relazione. I due sono gli unici che, seppur dopo un’iniziale ritrosia, non solo l’accolgono nella loro casa ma mostrano di voler condividere il suo dolore, mentre nel complesso gli abitanti di Hendon la condannano senza appello per avere detto addio alla famiglia, alla casa, alle regole della comunità.

Da molti acclamato come una storia d’amore proibito, Disobedience in realtà mette a fuoco le esistenze di tre persone colte in un momento di grande tensione, nel quale i loro destini tornano a intrecciarsi, a distanza di anni, prima di riavviarsi verso strade divergenti grazie a una ritrovata indipendenza. È insomma un inno alla sofferta e gioiosa facoltà del libero arbitrio, che dei rapporti umani (e di tutte le loro possibili sfumature – amorose, amicali, familiari) è radice ed essenza. Tale radice risulta tanto più indicativa quanto più i rapporti vengono osservati nella loro differenziante particolarità, attraverso l’obiettivo di un regista che ha sempre scelto (almeno fino a questo momento) di puntare lo sguardo sui destini individuali. La nuova ‘donna fantastica’ che Lelio sceglie di raccontare nel suo primo film in lingua inglese è infatti lesbica, ebrea ed esiliata da una comunità ortodossa.

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Quando un’opera sembra in anticipo sulla sua epoca, semplicemente la sua epoca è in ritardo su di lei.

J. Cocteau

 

Nell’apparente instabilità epistemologica degli ultimi tre decenni dalla teoria alle ‘teorie del cinema’, la pubblicazione del volume Jean Cocteau. Teorico del cinema da parte della casa editrice Mimesis nel 2018 poteva sembrare solo un’operazione storico-retrospettiva. Il lavoro di Stefania Schibeci, docente di Pittura e Arti del XX, è la prima monografia italiana sul tema dedicata all’artista ma getta le basi per un ponte verso il quadro teorico del secondo Novecento e in parte verso quello contemporaneo.

L’attualità della pubblicazione è legata senz’altro alla scelta della figura di Cocteau: poeta, pittore, drammaturgo, romanziere, disegnatore, pittore, regista, attore, ecc. Una personalità che ha incarnato l’apertura interartistica del secolo scorso e anticipato ‒ come sembra emergere da questo contributo ‒ alcune riflessioni teoriche successive di tipo filosofico, fenomenologico e mediale intorno alle immagini in movimento. Anche se si avverte, forse, la mancanza di alcune connessioni suggerite al lettore proprio da alcuni temi affrontati nel testo. Riprendendo, per esempio, gli elementi centrali della sua teoria sul cinema come veicolo insieme alle altre arti della «poésie» (p. 11), conoscenza del mondo attraverso la soggettività del poeta, e la sua specificità come scrittura per immagini capace di «rendere visibile l’invisibile» (p. 13), sarebbe stato interessante accogliere tra le pur ricche relazioni del testo somiglianze e differenze con le idee di Pasolini da un lato e con la filosofia di Merleau-Ponty dall’altro.

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

Nel 2003 Agnès Varda riceve l’invito a partecipare alla 50° Biennale di Venezia, all’interno della sezione Utopia Station: un’area di transito e in transito, progettata come lo spazio di una stazione, dove poter sostare e osservare contributi artistici di varia natura, provenienti da tutto il mondo. Aderiscono al progetto oltre 150 tra artisti, architetti e interlocutori che non fanno necessariamente parte del panorama artistico contemporaneo. Agnès Varda, tra questi ultimi, nell’accogliere l’invito propone per l’occasione un’installazione videosonora. Da questo momento per la cineasta belga si aprono nuove opportunità, sia sul piano dei territori artistici, fino a quel momento videofilmici e fotografici, sia su quello della scrittura. Pur mantenendo i principi compositivi che ne caratterizzano da sempre il lavoro, a partire da Patatutopia – questo il titolo della videoinstallazione – i tratti della multimedialità interverranno nella scrittura di Agnès Varda consentendole di ampliare, strutturalmente, le declinazioni dei dispositivi di ripresa e i modi della rappresentazione del racconto. O, della ex-peau-sizione, per dirla con il neologismo di Jean-Luc Nancy, subentrato proprio al termine Ê»rappresentazioneʼ, peraltro con un rinvigorimento di senso dato dalla sostituzione, al suo interno, della sillaba Ê»poʼ con la parola omofona peau, pelle.

A fondamento dell’intero lavoro di Varda c’è, infatti, un Ê»discorsoʼ aperto allo sguardo, alla presentazione del racconto più che alla sua rappresentazione, attraverso uno s-velamento progressivo operato dai mezzi di ripresa prima e poi di montaggio, che va di pari passo, autoalimentandosi, con la creazione-rivelazione di immagini e suoni da condividere. Un togliere i veli alla realtà, andando oltre la pura documentazione della stessa, per far affiorare un mondo-corpo fatto di Ê»piccole coseʼ; e forse, proprio per questo, maggiormente incisivo.

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