1.3. Montaggi fotografici. Conversazione in Sicilia (1953)

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

Composta dopo una lunga e travagliata redazione durata circa tre anni, durante i quali Vittorini si occupa con estrema cura di presiedere a tutte le fasi (dal reportage realizzato ad hoc in Sicilia nell’inverno del 1950 al disegno del layout di ciascuna pagina), l’edizione di Conversazione in Sicilia con le fotografie di Luigi Crocenzi rappresenta un caso originalissimo di fototestualità e una testimonianza fondamentale dell’interesse mostrato dallo scrittore verso i linguaggi della visualità.

Il volume, pubblicato da Bompiani nell’inverno del 1953 come libro strenna, riceve una pessima accoglienza dalla critica. I lettori degli anni Cinquanta, per i quali Conversazione in Sicilia rappresentava uno dei testi canonici della letteratura resistenziale, si trovano di fronte ad un’opera di sconvolgente modernità, che propone una tessitura fototestuale volta a dare risonanza alla trama simbolico-allegorica del romanzo e non riescono a comprenderne il significato e il valore. Persino un lettore d’eccezione come Eugenio Montale, per di più grande amico di Vittorini sin dal periodo fiorentino, storce il naso di fronte alla trasformazione del «libro documento» in «libro cosa», e avverte il lettore che si troverà dinnanzi all’inattesa richiesta di «compromesso» fra la Sicilia immaginaria, disegnata tra le pagine di Conversazione, e «l’isola reale» resa visibile dall’apparato fotografico (Montale 1966).

Enrico Falqui mette addirittura in dubbio l’utilità dell’accostamento di immagini ai testi:

 

Un’opera letteraria ci guadagna o ci perde, in quella che è la sua essenza e la sua autonomia artistica, ad essere illustrata? L’abbellimento e l’arricchimento che le si vogliono conferire mediante le illustrazioni non distolgono dall’intelligenza del testo col loro intersecarsi e sovrapporsi; sicché in definitiva non provocano uno smorzamento e quasi un impoverimento del testo stesso? (Falqui 1972, p. 752)

 

Falqui sostiene che se l’illustratore fosse un grande artista entrerebbe «in gara con lo scrittore»; se non lo fosse le immagini costituirebbero «un peso morto, un ciarpame, un ingombro» nei confronti del testo. Nel caso in cui le personalità dei due, illustratore e scrittore, fossero alla pari, in ogni caso «ci si troverebbe di fronte ad una duplice espressione», senza che parole e immagini riescano ad integrarsi perfettamente a causa della «disparità dovuta» (ibidem) all’appartenenza a due codici differenti.

Se dunque, appena pubblicata, quest’edizione rimane pressoché ignorata dal pubblico, e – come ha notato giustamente Michele Cometa (2016) – per lungo tempo questo classico appartenente al canone è stato oggetto della rimozione della sua «dimensione iconotestuale», la critica più recente riconosce ormai il suo valore e non sfugge al suo fascino: non vi è studio monografico rivolto all’opera di Vittorini che non vi faccia cenno e non ne ammetta l’importanza. Del resto, già nel ’74 Maria Corti, nella prefazione al volume delle Opere narrative di Vittorini, assegna all’edizione illustrata di Conversazione il senso di un «grande esperimento»; nell’apparato delle note, compreso nello stesso volume e curato da Raffaella Rodondi, se ne sottolinea la rilevanza e si individua nella coraggiosa operazione vittoriniana di rimettere mano al suo «testo sacro» la volontà di proporre una moltiplicazione dei piani di lettura del romanzo.

La sperimentazione fototestuale di Vittorini, in realtà, si può fare risalire a un decennio prima, già ai tempi della redazione di Americana (1941) e del Politecnico. L’antologia curata dallo scrittore, in virtù della presenza dell’apparato iconografico, può essere considerata a dire di Umberto Eco «un’opera multimediale» (Eco 2002, p. 284); Il Politecnico rappresenta senz’altro l’officina all’interno della quale si compie l’apprendistato fototestuale che permetterà a Vittorini la progettazione e la realizzazione della sua ‘Conversazione illustrata’. Dentro la gabbia del menabò della rivista einaudiana lo scrittore aveva già sperimentato un uso delle fotografie con funzione eminentemente narrativa e non soltanto illustrativa, scegliendo in modo non consueto la collocazione, il taglio e soprattutto le didascalie, anche grazie alla collaborazione di Albe Steiner. È proprio fra le pagine di quel settimanale, del resto, che fa il suo esordio il giovane Luigi Crocenzi e in nome della comune fede nella utopia del ‘foto-romanzo’ si cimenta l’amicizia con Vittorini. Nella didascalia introduttiva quasi certamente scritta da Vittorini per Andiamo in processione, il terzo dei quattro racconti fotografici di Crocenzi pubblicati sulla rivista fra il ’46 e il ’47, si legge infatti una definizione che prelude alla composizione dell’edizione illustrata di Conversazione:

 

Cinematografo e comics (fumetti) non ne sono che le forme più recenti. Una terza forma che sta nascendo è il racconto per fotografie, e ha un principio estetico suo proprio. Nel cinema la finzione è insieme anteriore e posteriore alla fotografia, e si definisce come movimento. Qui è solo posteriore alla fotografia, e si definisce come un fatto di accostamento fra fotografie prese sempre dal vero. Luigi Crocenzi non è il primo a cercare un valore estetico in questo fatto dell’accostamento. È il primo però a cercarlo su una misura già abbastanza lunga ed organica.

 

La preziosa collaborazione con Luigi Crocenzi prosegue dunque nell’esecuzione del reportage fotografico, ma si incrina però al momento della pubblicazione di Conversazione, perché in fondo lo scrittore non vuol cedere al fotografo la ‘regia’ del testo. La «collaborazione fotografica» attestata dal frontespizio [fig. 2] relega Crocenzi a mero esecutore del progetto fototestuale di Vittorini, che non è disposto a condividere lo statuto autoriale del testo per lui più caro, nel quale continua a riconoscersi malgrado il passare degli anni, sul quale ritorna con delle varianti estremamente originali e cioè con l’adozione di un dispositivo fototestuale in cui chiama in causa con coraggio e intelligenza il dialogo fra codici differenti. Tuttavia quello proposto da Vittorini con l’edizione illustrata di Conversazione è un modello ‘cinematografico’ della fototestualità, che implica un mancato riconoscimento del valore estetico della fotografia in sé:

 

A me non importava nulla del valore estetico o illustrativo che la fotografia poteva avere singolarmente, ciascuna per sé. M’interessava solo che ogni fotografia avesse un suo contenuto materiale. Il valore, il tipo, la qualità, intendevo determinarli per mio conto. Per quali vie cercavo di determinarli? Per delle vie affini a quelle seguite dal regista nel cinematografo. Era nell’accostamento tra le foto, anche le più disparate, ch’io riottenevo o tentavo di riottenere un valore più o meno estetico e un valore illustrativo, o un valore documentario. Nell’accostamento delle foto, nel riverbero di cui una foto si illuminava da un’altra, giungevo alle frasi narrative. Ed era annullando i valori delle singole foto o comunque sciogliendoli ch’io potevo ottenere quei nuovi valori complessivi tutti investiti di un unico e nuovo significato grazie a quale la realtà rilevata dalle foto non apparisse più frammentaria e passiva, ma unitaria, dinamica, trasformabile, come se contenesse dei progetti di rinnovamento (Vittorini 1997, pp. 701-702).

 

Da questo punto di vista basta guardare la complessità e l’invasività dell’apparato didascalico per rendersi conto della preminenza che la dimensione verbale continua ad esercitare su quella visuale. È proprio nell’analisi dell’accurata costruzione dell’apparato didascalico che è possibile cogliere il senso e la complessità dell’operazione fototestuale vittoriniana messa in atto nell’edizione di Conversazione del ‘53. In altri termini, quel che dichiara l’autore a proposito del valore estetico delle immagini e della funzione che il montaggio assume nel processo di risemantizzazione di ciascuna di esse in vista della riscrittura del suo capolavoro trova la sua realizzazione nella scelta di una doppia tipologia di didascalie. La maggior parte delle fotografie presenti all’interno delle pagine sono accompagnate da indicazioni toponomastiche, che hanno l’esplicito compito di ancorare il testo alla geografia del contesto, per consentire all’autore di prendersi «la migliore delle rivincite sull’in più di reticenza» (Vittorini 2008, p. 703) che gli era stata imposta dal timore della censura fascista nella prima edizione del ’41, per cui nella nota finale aveva come è noto precisato che l’ambientazione aveva un valore puramente casuale. Adesso invece quella Sicilia torna ad essere non più «solo per avventura Sicilia», e ogni immagine àncora il racconto – anche attraverso la didascalia dal valore toponomastico – al luogo e al tempo a cui rimanda ciascuno scatto. In realtà, anche all’interno di questa gamma di connettori dall’apparente valenza documentaria si insinua un dialogo profondo con il romanzo, che ispira maggiormente la seconda tipologia di didascalie definite dallo stesso Vittorini «testatine» in una lettera a un giovane critico (Benedict Rizzuto, datata 21 novembre 1953) che sta studiando il suo romanzo e al quale lui raccomanda la lettura di questa nuova edizione di Conversazione (dove «gli elementi in questione vi sono, per così dire, sottolineati, ciascuno nella sua immagine poetica, sotto forma di testatine, nell’alto delle pagine», Vittorini 2006, p. 127). Si tratta di citazioni del romanzo che fungono da titoli di testa dell’intera pagina proprio come nel menabò delle riviste e dei quotidiani – e la pregressa esperienza giornalistica dell’autore, e nello specifico la direzione del Politecnico, risulta fondamentale. La distinzione fra i due tipi di didascalie a volte si attenua proprio laddove appare evidente che la dimensione simbolica e archetipica di alcune figure non viene annullata, quanto piuttosto rafforzata, dalla presenza delle fotografie. Le immagini che rappresentano la serie delle madri, (commentate dalle didascalie «Madre a Siracusa», «Madre a Caltanissetta», «Madre a Serradifalco», «Madre negli Iblei orientali» e «Madre a Pietraperzia», figg. 4-7) che culmina con la foto della «Madonna a cavallo (Scicli)» [fig. 7], costituiscono in fondo le infinite declinazioni dell’archetipo materno delle ‘città del mondo’ siciliane di cui di lì a poco inizierà a scrivere nel romanzo incompiuto.

La funzione di connessione e di sintesi delineata da questa tipologia di didascalie nell’interplay fra parole e immagini è più forte rispetto alle altre e sembra suggerire come questa sintesi finisca per attribuire alla ‘colonna visiva’ ancora una condizione di subalternità rispetto alla dimensione visuale. Da Benjamin (1955) in poi tutti coloro che si sono soffermati sul rapporto fra parole e immagini fotografiche hanno riconosciuto l’importanza delle didascalie per superare la piattezza dell’immagine (Barthes 1980) o per provare a ‘salvarle’ dalla loro impenetrabile opacità, perché le «parole parlano più forte delle immagini» e tendono a «sovrapporsi alla testimonianza dei nostri occhi» (Sontag 1973, p. 95); e spesso, sfogliando le pagine della ‘Conversazione illustrata’ a giudicare dalla complessa rete di testi che incorniciano le immagini, sembrerebbe che per Vittorini ‘le parole parlano davvero più forte delle immagini’.

La prima testatina, «come mai avuta un’infanzia in Sicilia», finisce per esempio per attribuire alla foto del ragazzino di Scicli [fig. 3], collocato nelle pagine del prologo degli «astratti furori», una chiara identificazione con il protagonista e amplifica e enfatizza la dimensione memoriale del viaggio di Silvestro. La porzione del testo scelta come intestazione focalizza, infatti, l’attenzione sulla meta e sulla motivazione del viaggio del protagonista (il recupero memoriale dell’infanzia), anticipandone il risultato nella ricomposizione fotografica del temps perdu.

In alcuni casi però Vittorini pare davvero affidarsi al racconto delle immagini e lascia parlare le fotografie. Per fare un altro esempio, la sequenza degli scatti che illustrano la terza parte accentua e rafforza visivamente l’asse lungo il quale si distende il percorso. «La Sicilia di buchi nella roccia» viene visitata da uno sguardo che si muove su sentieri disegnati da scale e ripidi pendii, i cui fotogrammi anche nella scelta dell’angolazione della ripresa, sempre dall’alto o dal basso, raccontano la verticalità del movimento. Inizialmente il cammino di Silvestro accanto alla guida materna appare come un’immersione nei gironi del «mondo offeso», in quelle case scavate nella roccia dal cui buio emergono appena i volti rarefatti dei reietti della terra. L’inversione della direzione del percorso, prima verso il basso poi verso l’alto, è segnata dall’incipit del capitolo ventottesimo:

 

Ora non si scendeva più lungo il monte di case, si risaliva per un altro fianco, dal fondo del vallone, si andava verso il sole e la musica di zampogna come nuvola o neve, in alto (Vittorini 2007, p. 127).

 

Vittorini sceglie di sottolineare l’inizio del movimento ascendente innestando al centro di questo capitolo tre foto che occupano per intero le pagine [fig. 8] senza alcuna testatina, raffigurando tutte un percorso in salita: la prima, peraltro bellissima, è un’inquadratura dall’alto, a precedere, di una figura che si arrampica su una ripida strada di Nicosia. Un fascio di luce lambisce il fianco di un uomo, che rimane però completamente immerso nell’ombra proiettata dall’alto muro. Nella pagina accanto due immagini di Ragusa Ibla – due scalinate riprese dal basso – sembrano proprio le inquadrature in soggettiva del cammino che Silvestro si appresta a percorrere nelle pagine seguenti. Dunque non soltanto l’iconografia, ma anche le scelte stilistico-linguistiche del discorso fotografico dialogano intensamente con la tessitura del romanzo, accompagnando il percorso del protagonista dalla catabasi nei gironi del «mondo offeso» fino ai cieli di un suo possibile ri-scatto in cui, proprio a partire dalla sua restituzione al mondo visibile, egli si prepara «a riveder le stelle».

 

Bibliografia

 

S. Albertazzi, Letteratura e fotografia, Roma, Carocci, 2017.

S. Antonelli, ‘Il primo Vittorini’, Belfagor, 1, 31 gennaio 1955, pp. 89-93.

E. Ajello, ‘Elio Vittorini. La scrittura in cerca delle immagini’, in Id., Il racconto delle immagini. La fotografia nella modernità letteraria italiana, Pisa, ETS, 2009, pp. 163-175.

R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia [1980], trad. it. di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 2003.

W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa [1955], trad. it. di E. Filippini, Torino, Einaudi, 2000.

H. Brohm, ‘Elio Vittorini e l’intermedialità. A proposito di Conversazione in Sicilia del 1953’, Rivista di letteratura italiana, 2, 2007, pp. 87-104.

G. Cintioli, ‘Conversazione in Sicilia in edizione illustrata. Testo e immagini’, Comunità, viii, 24, aprile 1954, pp. 68-70.

M. Cometa, ‘Forme e retoriche del fototesto letterario’, in M. Cometa, R. Coglitore (a cura di), Fototesti. Letteratura e cultura visuale, Macerata, Quodlibet, 2016, pp. 69-115.

M. Corti, ‘Prefazione’ a E. Vittorini, Le opere narrative, Note ai testi di R. Rodondi, Milano, Mondadori, I, 1974, pp. XXXV.

L. Crocenzi, ‘Andiamo in processione’, Il Politecnico, 35, gennaio-marzo 1947, pp. 54-59.

U. Eco, ‘Il mito americano di tre generazioni antiamericane’, Comunicazione di massa, 3, 1984, ora in Id., Sulla letteratura, Milano, Bompiani, 2002, pp. 274-291.

G. Falaschi, ‘Introduzione’, in E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, Milano, Rizzoli, 1986

E. Falqui, ‘Il fotografo e il poeta’, Tempo, 26 gennaio 1954, ora [con il titolo «Conversazione in Sicilia» illustrata] in Id. Novecento letterario, Firenze, Vallecchi, tomo IV, 1972, p. 752.

G. Lupo, ‘«Era il mio parlar figurato». L’edizione illustrata di «Conversazione in Sicilia» (1953)’, in Id., Vittorini politecnico, Milano, FrancoAngeli, 2011, pp. 79-103.

E. Montale, ‘L’arte e la vita’, Corriere della Sera, 31 dicembre 1953-1 gennaio 1954, ora in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, pp. 1615-1620.

M. Paino, ‘La riscrittura di Conversazione come ‘foto-romanzo’, in Ead., Il moto immobile, Nostoi, sonni e sogni nella letteratura siciliana del ‘900, Pisa, ETS, 2014, pp. 27-37.

R. Paterlini, ‘Conversazione illustrata. Contrabbando fototestuale in Elio Vittorini’, Arabeschi, 4, luglio-dicembre 2014, pp. 125-140, < http://www.arabeschi.it/conversazione-illustrata-contrabbando-fototestualein-elio-vittorini/>, [accessed 1 April 2019].

C. Pontillo, ‘Elio Vittorini e Albe Steiner: note sul layout grafico del «Politecnico»’, Arabeschi, 12, luglio-dicembre 2018 <http://www.arabeschi.it/elio-vittorini-e-albe-steiner-note-sul-layout-grafico-del-politecnico/> [accessed 11 February 2019].

M. Rizzarelli, ‘Nostos fotografico nei luoghi del mondo offeso: Conversazione in Sicilia 1953’, in Ead. (a cura di), Elio Vittorini. Conversazione illustrata, Catania, Bonanno, 2007, pp. 13-37.

S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società [1973], trad. it. di E. Capriolo, Torino, Einaudi, 2004.

G. Trevisani, ‘Le fotografie di Elio Vittorini’, Popular Photography Italiana, 107, maggio 1966, pp. 32-37.

B. Van Den Bossche, J. Baetens, ‘Conversazioni istoriate. Intorno all’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia (1953)’, Testo, 65, gennaio-giugno 2013, pp. 95-104.

E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, edizione illustrata a cura dell’autore con la collaborazione fotografica di Luigi Crocenzi (Milano, Bompiani, 1953), ristampa anastatica a cura e con la Postfazione di M. Rizzarelli, Milano, Rizzoli, 2007.

E. Vittorini, ‘La foto strizza l’occhio alla pagina’, Cinema nuovo, III, 33, aprile 1954, ora in Id., Letteratura arte società. Articoli e interventi 1938-1965, a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 2008, pp. 701-708.

E. Vittorini, Lettere 1952-1955, a cura di E. Esposito e C. Minoia, Einaudi, Torino 2006.