1.2. Il Politecnico attraverso i fotoracconti di Luigi Crocenzi

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  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

Una lettura del rapporto tra Vittorini e la fotografia non può prescindere dalla congenita ibridazione dei linguaggi rintracciabile sia nelle riflessioni teoriche, sia nell’effettivo utilizzo delle immagini fotografiche proposto dallo scrittore. Luoghi privilegiati di ‘esercizio visivo’ – dopo l’antologia Americana (1941) e prima del ritorno nella terra d’origine per l’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia (1953) – i trentanove fascicoli del Politecnico, settimanale e poi mensile di cultura contemporanea, convogliano nell’immediato dopoguerra una serie di istanze di rigenerazione che agiscono tra i fogli della rivista attivando livelli molteplici di lettura e coinvolgendo tanto il paino contenutistico, quanto l’aspetto grafico, le componenti paratestuali e, non ultimo, il cospicuo apparato iconografico.

Uno sguardo alle pagine del Politecnico tradisce in maniera quasi immediata la frequenza, e incidenza, di fotografie organizzate in gruppi; è in essi che risiede spesso la chiave di volta dell’interpretazione relativa all’impiego delle illustrazioni nel periodico. Oltre che nel dialogo con le didascalie e con i testi, infatti, è nell’interazione delle immagini tra di loro che bisogna ricercare il nucleo semantico delle fotografie, tanto più se il piano metodologico incontra gli intenti espressi, appunto, da precise dichiarazioni di poetica di Vittorini:

 
A me non importava nulla del valore estetico o illustrativo che la fotografia poteva avere singolarmente, ciascuna di per sé. […]
Era nell’accostamento tra le foto anche le più disparate ch’io riottenevo o tentavo di riottenere un valore più o meno estetico e un valore illustrativo o uno documentario: nell’accostamento tra le foto; nel riverbero di cui una foto si illuminava da un’altra (modificando perciò il proprio senso e il senso dell’altra, delle altre); nelle frasi narrative cui giungevo (bene o male) con ogni gruppo di foto, in correlazione sempre al testo. […]
Io penso cioè che qualunque libro, di narrativa o di poesia, come di storia o di critica o addirittura di teoria, potrebbe venire illustrato con foto […]. Questo a condizione, però, che la fotografia sia introdotta nel libro con criterio cinematografico e non già fotografico, non già vignettistico, e che dunque si arrivi ad avere accanto al testo una specie di film immobile che riproponga, secondo un suo filo di film, almeno uno degli elementi del testo, allo stesso modo in cui accade che il cinema riproponga (in sede documentaria o in sede narrativa) certi elementi d’un certo libro (Vittorini 2008, pp. 701-702).

 

Partendo da questo scritto, di capitale importanza ai fini di un’indagine sulle relazioni tra Vittorini e la fotografia, Giovanni Falaschi ha evidenziato la matrice cinematografica, nonché irrimediabilmente letteraria, della concezione vittoriniana della fotografia (cfr. Falaschi 1987, pp. 34-37); Maria Rizzarelli, curatrice della settima edizione di Conversazione in Sicilia, corredata dalle fotografie di Luigi Crocenzi, si è soffermata sulle «finalità narrative e non puramente didascaliche» delle fotografie nelle esperienze vittoriniane antecedenti al romanzo e ha posto l’accento sulle «potenzialità semantiche e diegetiche» offerte dall’utilizzo dei materiali iconografici da parte dello scrittore (Rizzarelli 2007, pp. V-VI); Giuseppe Lupo, recuperando gli spunti interpretativi rintracciabili nelle recensioni cinematografiche pubblicate da Vittorini sul Bargello negli anni Trenta, ha chiarito la scaturigine del rapporto di analogia che lo scrittore istituisce tra la narrativa e il cinema in quanto dinamica sequenza di fotogrammi, tra il racconto e il movimento generato dalle fotografie disposte in successione (cfr. Lupo 2011, p. 68-73). È un dato acquisito dalla critica, insomma, anche nei contributi più recenti, il nesso tra la concatenazione delle immagini e una componente narrativa che sovrasta l’identità della singola fotografia e che induce a ricercare il senso delle illustrazioni nel loro susseguirsi. Dalle parole dello stesso Vittorini scaturisce una considerazione del medium fotografico che paradossalmente prescinde dallo specifico della fotografia e si lega a doppio filo sia con la sintassi filmica che con il linguaggio verbale, e sovrappone e fonde insieme, oltretutto, le strutture di questi ultimi due codici in ragione di una esorbitante creatività di segno letterario. «Nessuna immagine era mai abbandonata a se stessa», ricorda Giuseppe Trevisani, «ma ognuna era costretta, tagliata, interpretata, scelta, forzata, reinventata sulla pagina: […] la fotografia era diventata per noi, in quegli anni, veramente lessico, cioè comunicazione e linguaggio» (Trevisani 1966, p. 36).

Sotto le accurate modulazioni sperimentate dalle mani dello scrittore, le fotografie divengono frammenti di una frase visiva e tasselli lessicali pronti ad essere ricomposti in racconto unitario. Ponendosi come forma particolare di ‘rimediazione’ (cfr. Bolter, Grusin 2003, pp. 25-116), di adattamento di un medium ai processi compositivi di un altro codice, dunque, il montaggio che presiede alla diposizione delle fotografe all’interno del Politecnico adatta alle immagini seriali gli stessi principi di composizione sintattica delle sequenze cinematografiche e dei testi verbali, e ne subordina l’autonomia artistica, spesso omettendo, per altro, i crediti.

Gli esempi di commistione funzionale tra parole e immagini in sequenza rilevabili nel Politecnico sono straordinariamente numerosi e sintomatici, oltre che di un’attrazione verso le potenzialità espressive delle combinazioni verbo-grafiche, anche della ricezione di un insieme eterogeneo di apporti provenienti dal linguaggio cinematografico, dal fotogiornalismo italiano d’anteguerra, dalla fotografia realista americana degli anni Trenta, dall’estetica neorealista. Tra i diversi casi esemplificativi, e nell’ambito del discorso sulla narratività dell’impianto visivo del Politecnico, non è possibile trascurare i fotoracconti di Luigi Crocenzi, antesignani di una più stretta collaborazione del fotografo con lo scrittore che si evolverà nei primi anni Cinquanta, in occasione della realizzazione della citata edizione illustrata di Conversazione in Sicilia.

Il primo racconto per immagini pubblicato a firma di Luigi Crocenzi nella rivista diretta da Vittorini è Italia senza tempo, prova d’esordio dell’artista, apparsa nel numero 28 del 6 aprile 1946 [fig. 1]. Gli scatti, disposti in verticale lungo la sezione centrale del foglio, riprendono Fermo e i suoi dintorni, e rinviando alla provenienza del fotografo aggiungono alle indagini dedicate a regioni come la Puglia, la Sicilia, la Liguria, un altro ritratto delle province italiane. La connotazione atemporale del racconto visivo emerge dall’attenzione ai luoghi, più che alla componente umana; luoghi in cui si consumano immutabili vita quotidiana e rituali di aggregazione sociale (la campagna, le vie solitarie, la chiesa, uno spiazzato). Nei ritratti senza volto di un’Italia interstiziale, un punto di vista si impone con efficacia nell’ultimo frammento fotografico, che alludendo a una volontà di ‘svecchiamento’, di superamento futuribile di schemi fissi, dà voce e luce allo «sguardo di uno scolaro dal vecchio convitto: vita da liberare» [fig. 2].

Calato, invece, in un contesto storico ben definito è il fotoracconto Occhio su Milano, che nel numero 29, il primo dell’edizione mensile, squarcia il velo di dolore che si è abbattuto sulla città lombarda in seguito ai bombardamenti e ne rende visibili le ferite [fig. 3]. «Una notte d’agosto, nel ’43, Milano è morta. È morta la città che credeva nella Galleria come in un incrollabile piramide», proclama l’incipit del racconto, che sembra riecheggiare nella precisazione temporale e nell’anadiplosi immediatamente successiva i desolati versi di Quasimodo confluiti in Giorno dopo giorno.

La serie di diciannove scatti appare complessivamente suddivisa in tre pagine e determina, attraverso questa disposizione, un adeguamento della struttura grafica alla scansione tematica delle immagini. Protagonista delle prime tre fotografie è la città di Milano visibilmente compromessa dalle macerie. Il secondo e il terzo gruppo di scatti danno vita a un contrappunto visivo tra «le ombre» dei borghesi che, fantasmi di se stessi, si ostinano a reiterare le loro convenzioni come se nulla fosse cambiato, e la «povera gente»; è lì, nel dolore e nell’innocenza, che si annida tuttavia un germe di vita e di speranza, percepibile nel corrucciato primo piano di una ragazzina che fissa l’obiettivo, trattenendo un tozzo di pane e custodendo «qualcosa di giovane nell’esistenza» [fig. 4].

Sulla vita di provincia Crocenzi ritorna nel numero 35 con Andiamo in processione [fig. 5]. Qui la sequenza fotografica si adatta al taglio critico subentrato insieme al cambio di periodicità della rivista e riporta nella nota di apertura, molto probabilmente di Vittorini, una esplicita formulazione teorica del fotoracconto, che da semplice criterio di accostamento si costituisce in genere:

 

Il racconto per immagini è antico. Cinematografo e comics (fumetti) non ne sono che le forme più recenti. Una terza forma che sta nascendo è il racconto per fotografie, e ha un principio estetico suo proprio. Nel cinema la finizione è insieme anteriore e posteriore alla fotografia, e si definisce come movimento. Qui è solo posteriore alla fotografia, e si definisce come un fatto di accostamento tra fotografie prese sempre dal vero. Luigi Crocenzi non è il primo a cercare un valore estetico in questo fatto dell’accostamento. È il primo però a cercarlo su una misura già abbastanza lunga ed organica (Il Politecnico, 35, gennaio-marzo 1947, p. 54).

 

Alle elaborazioni teoriche espresse nella nota introduttiva corrisponde un montaggio delle immagini che segue una impaginazione cinematica maggiormente strutturata. Le successioni fotografiche si snodano come pellicole intercalate ai racconti di Carlo Vigoni e di Giulio Questi, e sono accompagnate, più che da brevi testi di commento analoghi al precedente fotoracconto, da didascalie strettamente connesse al procedere dell’azione. Sul piano sintattico, i due tempi e l’epilogo che scandiscono la narrazione – e che si ergono ancora una volta a testimonianza di un divario sociale ‘livellato’ dalla comune partecipazione ad una processione religiosa, atto esteriore e simbolico allo stesso tempo – prendono avvio sempre dalla medesima immagine, quella di un bambino e due donne, sulle quali viene proiettata, attraverso un espediente visivo, l’adozione del punto di vista [fig. 6].

Conclude la serie di fotoracconti dell’artista marchigiano il gruppo di fotografie apparso nel numero 37, come segmento iconografico di un approfondimento dedicato a Kafka che ospita, oltre a brani dello stesso scrittore praghese, contributi di Antonio Ghirelli, Carlo Bo, Franco Fortini. Con il titolo Kafka City, anticipazione di un progetto più ampio che non è stato mai realizzato, gli scatti si presentano disposti in maniera meno organica che nei precedenti racconti, dai quali si discostano anche nelle tetre atmosfere che contribuiscono a suggerire gli scenari perturbanti dell’universo letterario kafkiano [fig. 7].

La ricerca del giovane fotografo marchigiano, tesa a «dar vita ad una grammatica del racconto fotografico» (Giusa 2003, p. 10), incontra dunque lo stile delle sperimentazioni visuali di Vittorini e si mostra, per altro, intimamente vicina al linguaggio cinematografico, oggetto di studio e parte integrante della formazione di Crocenzi, che nel 1948 consegue il diploma al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Inoltre, la narrazione della vita quotidiana di un’umanità dimessa, a tratti malinconica, ritratta dal fotografo nel Politecnico e adeguatamente sottolineata dalle letture circostanziate dei quattro fotoracconti di Giusa e Turrin (Giusa 2003; Turrin 2003), consentono di riconoscere in Crocenzi una delle punte più avanzate del fotogiornalismo italiano, che nella prima metà degli anni Quaranta procede tra la nuova sensibilità espressa dal ritratto delle periferie – così lontano dai clamori del regime – di Occhio quadrato (1941) del regista Alberto Lattuada, e i primi tentativi di definizione del profilo professionale del giornalista fotografo per mano di Federico Patellani, autore di numerosi fototesti pubblicati su Tempo.

L’esperienza del Politecnico coglie Vittorini e Crocenzi pienamente partecipi di una temperie culturale. Pochi anni dopo, l’affinità delle loro visioni non tarderà a generare nuovi intrecci, rivelando, purtroppo, latenti divergenze.

 

Bibliografia

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L. Crocenzi, ‘Italia senza tempo’, Il Politecnico, 28, 6 aprile 1946, p. 3.

L. Crocenzi, ‘Occhio su Milano’, Il Politecnico, 29, 1° maggio 1946, pp. 13-15.

L. Crocenzi, ‘Andiamo in processione’, Il Politecnico, 35, gennaio-marzo 1947, pp. 54-59.

[L. Crocenzi], ‘Kafka City’, Il Politecnico, 37, ottobre 1947, pp. 10-11.

G. Falaschi, ‘Vittorini e la fotografia’, Archivio Storico Fotografico, 5, 1987, pp. 34-40.

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A. Russo, Storia culturale della fotografia italiana. Dal Neorealismo al Postmoderno, Torino, Einaudi, 2011 (in particolare il paragrafo ‘Il programma culturale de «Il Politecnico» e i fotoracconti di Luigi Crocenzi’, pp. 26-36).

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