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  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

Una lettura del rapporto tra Vittorini e la fotografia non può prescindere dalla congenita ibridazione dei linguaggi rintracciabile sia nelle riflessioni teoriche, sia nell’effettivo utilizzo delle immagini fotografiche proposto dallo scrittore. Luoghi privilegiati di ‘esercizio visivo’ – dopo l’antologia Americana (1941) e prima del ritorno nella terra d’origine per l’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia (1953) – i trentanove fascicoli del Politecnico, settimanale e poi mensile di cultura contemporanea, convogliano nell’immediato dopoguerra una serie di istanze di rigenerazione che agiscono tra i fogli della rivista attivando livelli molteplici di lettura e coinvolgendo tanto il paino contenutistico, quanto l’aspetto grafico, le componenti paratestuali e, non ultimo, il cospicuo apparato iconografico.

Uno sguardo alle pagine del Politecnico tradisce in maniera quasi immediata la frequenza, e incidenza, di fotografie organizzate in gruppi; è in essi che risiede spesso la chiave di volta dell’interpretazione relativa all’impiego delle illustrazioni nel periodico. Oltre che nel dialogo con le didascalie e con i testi, infatti, è nell’interazione delle immagini tra di loro che bisogna ricercare il nucleo semantico delle fotografie, tanto più se il piano metodologico incontra gli intenti espressi, appunto, da precise dichiarazioni di poetica di Vittorini:

 

Partendo da questo scritto, di capitale importanza ai fini di un’indagine sulle relazioni tra Vittorini e la fotografia, Giovanni Falaschi ha evidenziato la matrice cinematografica, nonché irrimediabilmente letteraria, della concezione vittoriniana della fotografia (cfr. Falaschi 1987, pp. 34-37); Maria Rizzarelli, curatrice della settima edizione di Conversazione in Sicilia, corredata dalle fotografie di Luigi Crocenzi, si è soffermata sulle «finalità narrative e non puramente didascaliche» delle fotografie nelle esperienze vittoriniane antecedenti al romanzo e ha posto l’accento sulle «potenzialità semantiche e diegetiche» offerte dall’utilizzo dei materiali iconografici da parte dello scrittore (Rizzarelli 2007, pp. V-VI); Giuseppe Lupo, recuperando gli spunti interpretativi rintracciabili nelle recensioni cinematografiche pubblicate da Vittorini sul Bargello negli anni Trenta, ha chiarito la scaturigine del rapporto di analogia che lo scrittore istituisce tra la narrativa e il cinema in quanto dinamica sequenza di fotogrammi, tra il racconto e il movimento generato dalle fotografie disposte in successione (cfr. Lupo 2011, p. 68-73). È un dato acquisito dalla critica, insomma, anche nei contributi più recenti, il nesso tra la concatenazione delle immagini e una componente narrativa che sovrasta l’identità della singola fotografia e che induce a ricercare il senso delle illustrazioni nel loro susseguirsi. Dalle parole dello stesso Vittorini scaturisce una considerazione del medium fotografico che paradossalmente prescinde dallo specifico della fotografia e si lega a doppio filo sia con la sintassi filmica che con il linguaggio verbale, e sovrappone e fonde insieme, oltretutto, le strutture di questi ultimi due codici in ragione di una esorbitante creatività di segno letterario. «Nessuna immagine era mai abbandonata a se stessa», ricorda Giuseppe Trevisani, «ma ognuna era costretta, tagliata, interpretata, scelta, forzata, reinventata sulla pagina: […] la fotografia era diventata per noi, in quegli anni, veramente lessico, cioè comunicazione e linguaggio» (Trevisani 1966, p. 36).

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