Elio Vittorini e Albe Steiner: note sul layout grafico del «Politecnico»

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Abstract: ITA | ENG

Nell’immediato dopoguerra, nel clima di ritrovata libertà che succede al crollo del regime, si assiste a una straordinaria fioritura di iniziative editoriali. La stampa reagisce alle coercizioni a cui è stata precedentemente sottoposta e manifesta in un’esplosione di testate giornalistiche la volontà di comprendere uno scenario molto più complesso di quanto l’informazione ufficiale non abbia lasciato intendere negli anni precedenti. In questo contesto, la parabola breve ma ardente del «Politecnico» trova una peculiare possibilità di espressione. La rivista, con i suoi trentanove fascicoli, scardina i baluardi più stantii della comunicazione giornalistica e con atteggiamento estremamente ricettivo ritrae la realtà composita, caotica, contraddittoria di quello scorcio di secolo avanzando una proposta di rinnovamento basata su un’originale articolazione dei contenuti, delle immagini e dell’assetto grafico. Il contributo intende soffermarsi su quest’ultimo aspetto e sull’importanza del rapporto di collaborazione tra il direttore del periodico, Elio Vittorini, e il grafico Albe Steiner nell’elaborazione dello spregiudicato layout del «Politecnico».  

In the immediate post-war era, because of the regained freedom subsequent the collapse of the regime, there is an extraordinary flowering of editorial initiatives. The press reacts to coercions to which it was previously subjected and it shows the willingness to understand a complicated scenario. In this context, «Il Politecnico» find a peculiar possibility of expression. The thirty nine issues of the magazine deconstruct the most stale bulwarks of the journalistic communication and they portray, with an extremely receptive attitude, the chaotic, contradictory reality of that time making a proposal of renewal based on an original modulation of contents, images and graphic set-up. The main focuses of the article are the latter aspect and the importance of the relationship between the editor-in-chief of the periodical, Elio Vittorini, and the graphic designer Albe Steiner in drawing up the innovative layout of «Politecnico».

 

 

1. Le mani di Vittorini

Il 29 settembre 1945 viene pubblicato il primo numero del settimanale «Il Politecnico», edito da Einaudi e diretto da Elio Vittorini. Con una redazione formata da Franco Calamandrei, Franco Fortini, Vito Pandolfi, Stefano Terra e Albe Steiner come responsabile della grafica,[1] all’indomani della Liberazione la rivista lancia una proposta di rinnovamento che si articola lungo un ventaglio di temi estremamente eterogeneo. Aderendo ad una concezione enciclopedica di cultura, il periodico, con ardore di ‘manifesto squillante’ affisso ai muri,[2] insieme ai discorsi sulle correnti filosofiche e scientifiche, affronta i problemi sociali, economici e politici, orienta il gusto letterario, sia attraverso antologie ed estratti di autori affermati e di scrittori esordienti che per mezzo di scritti critici o di taglio informativo, si apre alla multimedialità inglobando discussioni e agili approfondimenti sulle arti figurative, sul teatro, sul cinema, sull’architettura. Questioni riguardanti la condizione delle donne, la riforma scolastica, la religione cattolica vengono così affiancate alle inchieste sulle grandi industrie italiane,[3] alle riflessioni sull’idealismo e il marxismo, ai cospicui suggerimenti di lettura, ai numerosi focus sulle arti visive, nonché ad un ampio e variegato corredo iconografico. La natura caleidoscopica dei testi si riflette sulle immagini presenti nel periodico, accogliendo fotografie, riproduzioni di quadri, disegni, incisioni, frame cinematografici, fumetti. Scardinando, inoltre, l’appiattimento nazionalistico caldeggiato dal regime, gli ambiti tematici restringono e dilatano costantemente la prospettiva d’indagine, spaziando da un’ottica regionale e attenta allo stato delle realtà particolari italiane a una internazionale; la Sicilia e la Puglia, dunque, come la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, culla dell’antifascismo europeo e punto di partenza ideale per «Il Politecnico», ma anche gli Stati Uniti, l’U.R.S.S., la Cina.

Trasformatosi in mensile con il numero 29 del 1° maggio 1946, la rivista andrà avanti, con periodicità irregolare, fino al dicembre 1947, arrestandosi al trentanovesimo numero. I temi e le prospettive d’indagine che nell’edizione settimanale si dispiegavano in maniera dinamica tra i fascicoli di un periodico con vivace vocazione laboratoriale, incline ad instaurare un dialogo con il pubblico dei lettori per mezzo di appelli, inviti, richieste di suggerimenti, vengono adesso irreggimentati in rubriche che tendono a concludersi e a rendere espliciti generi, linguaggi, ambientazioni. Insieme alla riduzione del formato (la dimensione dei fogli della precedente serie era analoga a quella dei quotidiani) aumenta vistosamente il numero delle pagine e alla forte sperimentazione del settimanale subentra il procedere più cauto delle analisi critiche. Diminuisce notevolmente, inoltre, la quantità delle immagini e viene meno l’arguzia delle didascalie, spesso assenti;[4] dati, questi ultimi, non privi di interesse se correlati alla constatazione che l’innovativo progetto portato avanti dalla rivista passa anche attraverso l’impiego dell’apparato illustrativo e la sua interazione con le componenti paratestuali.

In maniera più evidente che nei fascicoli successivi al cambio di periodicità, nei numeri del settimanale Vittorini ha modo di sperimentare un utilizzo originale delle fotografie e di iniziare a portare a maturazione le potenzialità narrative offerte dai materiali iconografici e dalla loro successione. A una predilezione per le immagini disposte in sequenza e ad una cruciale dimensione diegetica determinata dalla concatenazione dei frammenti fotografici fa riferimento lo stesso Vittorini, allorché, ritornando a metà degli anni Cinquanta sui criteri di illustrazione di Americana e di Conversazione in Sicilia, recupera la parentesi ‘politecnica’ e ne discute alla stregua di una personale opera creativa, facendola rientrare nel percorso di frequentazione delle immagini che sfocia nella settima edizione del romanzo, corredata dagli scatti di Luigi Crocenzi:

Io non sono arrivato […] al tentativo di Conversazione in Sicilia attraverso un semplice convincimento teorico. Ho dietro di me due altre esperienze personali che si chiamano Americana e «Politecnico». […]
Per il «Politecnico» io ebbi il mio punto di partenza nell’Americana, e per l’Americana lo ebbi nel cinematografo, fuori dai libri e dai giornali. A me non importava nulla del valore estetico o illustrativo che la fotografia poteva avere singolarmente, ciascuna di per sé. […] Il valore, il tipo, la qualità intendevo determinarle per mio conto, ricostruendoli in rapporto al testo che illustravo considerato unitariamente, tutto intero il libro l’Americana e numero per numero, con un continuo ammicco all’insieme dei numeri, il «Politecnico».
Per quali vie cercavo di determinarli? Per delle vie affini a quelle seguite dal regista nel cinematografo. Era nell’accostamento tra le foto anche le più disparate ch’io riottenevo o tentavo di riottenere un valore più o meno estetico e un valore illustrativo o uno documentario: nell’accostamento tra le foto; nel riverbero di cui una foto si illuminava da un’altra (modificando perciò il proprio senso e il senso dell’altra, delle altre); nelle frasi narrative cui giungevo (bene o male) con ogni gruppo di foto, in correlazione sempre al testo.[5]

Partendo da questo noto scritto, punto di riferimento degli interventi critici che hanno posto l’accento sulla matrice cinematografica della concezione vittoriniana della fotografia,[6] è possibile notare come dalle parole di Vittorini scaturisca una considerazione del medium fotografico che non solo si lega a doppio filo con la sintassi filmica e con il linguaggio verbale, ma sovrappone e fonde insieme anche le strutture di questi ultimi due codici in ragione di una esorbitante creatività di segno letterario. Come ha notato Maria Rizzarelli in riferimento al «Politecnico»:

Vittorini non scrive più molti articoli, ma “scrive” l’intero giornale, opera cioè sul discorso polifonico costituito dai singoli numerosi collaboratori come un regista che taglia e incolla la pellicola di un film. Il montaggio a cui presiede con scrupolo e convinzione è finalizzato alla ricerca di un’unità che superi l’intrinseca frammentarietà della scrittura periodica, di una continuità che si opponga alla contingenza dei discorsi giornalieri (o settimanali che siano).[7]

Sotto le accurate modulazioni sperimentate dalle mani dello scrittore – in una testimonianza offerta da Giuseppe Trevisani, Vittorini «si impegna con riga e squadra a scoprire in affreschi e fotografie nuovi rapporti narrativi» –[8] le fotografie divengono frammenti di una frase visiva e tasselli lessicali pronti ad essere ricomposti in racconto unitario. Ponendosi come forma particolare di ‘rimediazione’,[9] di adattamento di un medium ai processi compositivi di un altro codice, dunque, il montaggio che presiede alla diposizione delle fotografe all’interno del «Politecnico» adatta alle immagini seriali gli stessi principi di composizione sintattica delle sequenze cinematografiche e dei testi verbali, e ne subordina l’autonomia artistica, omettendo con regolare sistematicità i crediti.

Preso atto delle creative ‘manipolazioni’ vittoriniane dell’apparato illustrativo della rivista, ci si chiede quali siano i binari su cui scorrono i racconti per immagini e le ibridazioni verbo-visive a partire dalle quali deflagrano i messaggi espressi dal periodico.

 

2. Con Albe Steiner

Se è vero che Vittorini si impegna ‘materialmente’ a ricercare rapporti narrativi tra le immagini, come conferma una fotografia apparsa nel 1966 sulla rivista «Popular photography», che ritrae un particolare delle sue mani armate di righello,[10] nella strutturazione degli itinerari visivi che percorrono i fogli del «Politecnico» o che si sviluppano anche di numero in numero non è possibile trascurare l’apporto di Albe Steiner, redattore, oltre che responsabile della grafica per il settimanale, e probabilmente il più stretto collaboratore di Vittorini nella fase di ideazione del progetto e del layout della rivista. Nello studio della configurazione delle pagine del periodico, infatti, occorre considerare che le soluzioni grafiche adottate nascono dal reciproco confronto tra uno scrittore e un artista visuale, tra un autore che domina il codice verbale e che si accosta anche all’elaborazione dell’assetto grafico di un foglio di giornale, e un designer che traduce le proprie tensioni intellettuali e politiche non tanto in linguaggio scritto ma in segni grafici, in giustapposizioni di linee, forme, colori. Uno sguardo alla formazione di Steiner può aiutarci a delineare, tra l’altro, esperienze comuni e percorsi condivisi, nonché a comprendere meglio gli obiettivi del programma sotteso al «Politecnico».

Nato e cresciuto a Milano, Albe Steiner si dedica alla grafica fin dagli anni Trenta. Nel corso della seconda guerra mondiale la sua esistenza è segnata da eventi drammatici che contribuiscono a definirne la personalità umana e artistica: vengono uccisi sotto il regime mussoliniano lo zio Giacomo Matteotti, il fratello e diversi membri della famiglia, ebrea, della moglie Lica. Aderendo ad una inesausta attività antifascista, Steiner crede fermamente nel ruolo fondamentale dell’impegno civile e della libertà d’espressione, e negli anni della Resistenza partecipa alla lotta partigiana (è commissario politico di una brigata garibaldina e tra i combattenti dell’Ossola) e, come Vittorini, collabora con il Partito Comunista italiano, dedicandosi alla stampa clandestina. Insieme alla sua compagna di vita e di ‘mestiere’, nel 1946 si trasferisce in Messico, dove entra in contatto con gli ambienti del Taller de Grafica Popular, istituzione vicina alle aspirazioni del popolo messicano, e del periodico «Partito Popular». Rientrato in Italia due anni dopo, poco prima delle elezioni, continua a dedicarsi a un’intensa attività artistica, lavora alla Scuola del Convitto Rinascita e all’Umanitaria, partecipa e collabora a numerose esposizioni, cura gli allestimenti della Rinascente di Milano, progetta la grafica di riviste d’ispirazione marxista come «Il Contemporaneo», diviene consulente di diverse ditte industriali e studia il rapporto tra design e produzione seriale.[11]

Fermo restando il valore formativo dell’esperienza partigiana, sul piano professionale il grafico si contraddistingue per un background artistico aperto, di respiro internazionale. I critici concordano nel riconoscere in Steiner, oltre all’attenzione al rinnovamento delle soluzioni grafiche e tipografiche suggerito dall’arte di Persico, Boggeri, Munari, Huber, l’influenza di movimenti d’avanguardia come il costruttivismo russo e la scuola del Bauhaus,[12] dalla quale Steiner ricava il rigore, l’equilibrio della composizione e la tendenza ad eliminare o a ridurre i segni, i sottotitoli superflui e le variazioni di dimensione del carattere, in direzione di un messaggio che possa essere espresso con la maggiore chiarezza possibile e nella maniera più efficace possibile, senza orpelli o abbellimenti visivi poco funzionali. In Messico, peraltro, Steiner ha modo di interagire con l’architetto svizzero Hannes Meyer, uno dei direttori del Bauhaus. È anche dal confronto con le linee di ricerca che si erano sviluppate nella prima metà del secolo fuori dall’Italia che Steiner acquisisce la consapevolezza dell’importanza del legame tra il lavoro grafico e la dimensione sociale – consapevolezza talmente salda da non abbandonarla mai più nel corso della sua attività. È in questo contesto che matura la convinzione che l’assetto grafico delle riviste, come di qualsiasi prodotto pubblicitario, debba corrispondere al messaggio che ci si prefigge di esprimere. Conosce molto bene questo aspetto peculiare della ricerca di Steiner Italo Calvino, pronto a testimoniare che «per Albe il piacere dell’invenzione formale e il senso globale della trasformazione della società non erano mai separati»,[13] e lo afferma con chiarezza lo stesso grafico, durante una lezione del 1968 presso l’Umanitaria:

Il giornale di fabbrica come del resto quello non di fabbrica va inteso in qualità di uno strumento, quindi come un servizio pubblico. Come servizio dovrebbe avere delle caratteristiche molto precise, caratteristiche visive corrispondenti cioè al servizio che deve esplicare. Sembra un’osservazione ovvia e non lo è, invece. […]
L’occhio percepisce segni, forme, immagini che stancano. Se io voglio far leggere il testo devo togliere tutte le immagini che non sono essenziali, cominciando dalla ripetizione di parole, di sottotitoli e di simboli, di testate.[14]

La carica eversiva di queste riflessioni diverrà pienamente visibile nell’impaginazione del «Politecnico», che vedrà Steiner partecipe di un serrato e proficuo confronto con Vittorini. Le strade che portano alla loro collaborazione, e al sincero rapporto di amicizia che li unisce, si incontrano già prima del lavoro per il giornale e risalgono agli anni in cui lo scrittore consolidai rapporti con gli artisti del gruppo di «Corrente», la rivista ideata da Ernesto Treccani e soppressa dal regime nel 1940, e si avvia ad attraversare le esperienze di militanza clandestina antifascista. Se si fa un passo indietro, infatti, e si osservano le esperienze di Vittorini che precedono le svolte del 1945, si scopre che nel giugno 1943 egli è impegnato nella redazione di un volantino concepito per ricordare l’assassinio di Matteotti. Come riferisce Raffaele Crovi, il manifesto viene «redatto assieme a Salvatore di Benedetto, […] composto clandestinamente da un tipografo del “Corriere della Sera”, e stampato da Lica e Albe Steiner nel loro studio, usando come torchio un copia lettere».[15]

Gli incarichi, rispettivamente, di redattore capo e di curatore della grafica per «l’Unità» clandestina di Milano porteranno lo scrittore e l’artista a incontrarsi nuovamente dopo la Liberazione. È presumibile che la parentesi lavorativa presso il quotidiano abbia dato modo a Vittorini di acquisire una parte di quelle competenze tipografiche a cui spesso lo scrittore, in tandem con Steiner, farà ricorso anche durante la preparazione delle griglie del «Politecnico». Ricordando quell’episodio della sua esistenza, nel 1949 Vittorini racconta a Hemingway:

Si voleva […] utilizzarmi a scrivere articoli per la stampa clandestina, ma non potevo scrivere come a loro occorreva, e dopo alcuni tentativi mi fu concesso di occuparmi della stampa solo tecnicamente, cioè trovare tipografie e lavorarvi a mettere in pagina (mise en page). Questo fu in periodi varii: dal ’42 al ’43; poi alcuni mesi del ’44; poi alcuni mesi del ’45 fino alla liberazione di Milano, e, non più clandestinamente, dal 25 aprile ’45 a giugno ’45 quando dei veri giornalisti arrivarono da Roma e mi permisero di tornare al mio lavoro privato di scrittore.[16]

Sebbene collocata nel piano secondario di un’attività certamente a latere, la struttura della pagina dei giornali continuerà a tentare Vittorini anche durante la direzione del «Politecnico», punto di approdo successivo a un’esperienza intermedia che lo vede, ancora una volta, impugnare le forbici e farsi protagonista di accostamenti creati manualmente:

La prima volta che in vita mia vidi Vittorini tagliare una fotografia era una fotografia di Guttuso. Era il 7 agosto 1945, ricordo la data per ovvie ragioni. Era il giorno della bomba atomica. Quel giorno stavamo facendo il numero uno di un nuovo giornale quotidiano.[17]

Il quotidiano a cui si riferisce Trevisani è «Milano Sera», la testata che fornisce a Steiner e Vittorini un’altra occasione per riprendere un sodalizio destinato a rafforzarsi. Lo scrittore ne diventa redattore capo e Albe, con a fianco Max Huber, si occupa del progetto grafico. Nella rievocazione offerta dal direttore responsabile del giornale, Michele Rago, Steiner «era l’unico, fra loro, preparato al suo compito, anche se lui pure si trovava a vivere la prima esperienza giornalistica in un quotidiano».[18] Il lavoro a «Milano Sera» rappresenta un tassello rilevante nell’elaborazione della grafica del «Politecnico», poiché ne anticipa, come vedremo, alcune delle soluzioni più rappresentative.

 

3. Verso la prima pagina

Come è stato accennato, il presupposto teorico da cui muove l’attività di Steiner si basa su una coerente adesione tra forma e contenuto, su un binomio inscindibile che fonda la sua possibilità di efficacia proprio sull’interdipendenza delle due componenti:

La superficiale comprensione dei movimenti moderni ed al tempo stesso la mancata valorizzazione dei contenuti o addirittura il non valore dei contenuti, hanno generato sovente un linguaggio visivo compromesso, arbitrario, formale ed astratto, tenendo conto che non la forma si deve temere ma il formalismo. Il metodo di insegnamento per la formazione del grafico deve tener conto soprattutto del contenuto, come tema, come destinazione, come valore.
Il linguaggio visivo dovrà essere sempre aderente allo scopo che ci si prefigge.[19]

L’avversione per il formalismo fine a se stesso, esplicitamente dichiarata da Steiner, mostra i propri frutti anche nella griglia grafica del «Politecnico», giacché a un contenuto di impegno sociale, com’era nelle intenzioni originarie del periodico, e al progetto di rinnovamento culturale, occorre associare schemi e caratteri tipografici che meglio possano esplicare quel contenuto e quel progetto. In questo modo, vediamo svilupparsi i temi affrontati dalla rivista sulla base di un’integrazione e di un dialogo organico non solo tra i testi e le immagini, ma anche tra questi e, aspetto di non minore importanza, le caratteristiche grafiche del foglio. Come ricorda Fortini:

Non ebbi dubbi, fin dall’inizio, sul significato di quella impostazione grafica; intendo, sui contenuti politici che essa convogliava. Erano, per dir tutto con una sola parola, i medesimi contenuti che Vittorini voleva per i tasti del settimanale: amore per un didattismo tutto positivo, senza oscurità, una sorta di gaiezza pedagogica della linea retta, di polemica della pulizia intellettuale contro il caos ripugnante di frantumi, liquami, rifiuti, scarti – reali e simbolici – che la guerra ci aveva lasciato in eredità.[20]

Osservando una selezione delle bozze preparatorie per la pagina di apertura del primo numero del «Politecnico»,[21] è possibile seguire le fasi di progettazione della testata, i criteri di impaginazione e le modifiche effettuate in corso d’opera.

Studio dell’impaginato per il primo numero del «Politecnico» © Erede Steiner, per gentile concessione. Tutti i diritti riservati

Si assiste così al passaggio da una serie di primi studi, quasi esclusivamente in bianco e nero, in cui si sussegue una serie di strette colonne verticali (nove in tutto),ad uno che mostra una maggiore dinamicità attraverso l’introduzione di parti in rosso e una prima forma di asimmetria nella disposizione delle colonne.

Studio dell’impaginato per il primo numero del «Politecnico» © Erede Steiner, per gentile concessione. Tutti i diritti riservati

Gli studi dell’impaginato offrono anche l’occasione per l’ulteriore verifica di un metodo ampiamente sperimentato da Steiner, per «Il Politecnico» come durante la progettazione del menabò di «Milano sera». Sono visibili nelle riproduzioni delle bozze, infatti, i collage che il grafico effettua nella fase di ‘screening’ delle proporzioni, quando Steiner procede ritagliando e incollando le sezioni del giornale e variando di volta in volta la collocazione delle singole parti. Affine a questo sistema di impaginazione dei periodici risultano i quaderni di Ricerche, conservati all’Archivio Albe e Lica Steiner e ad oggi inediti, dove Albe conserva a partire dalla fine degli anni Trenta le riproduzioni fotografiche di opere d’arte, di grafica e di architettura contemporanee incollandone sui fogli dell’album le immagini e le didascalie ritagliate da giornali e riviste. Interessante, a questo proposito, è il paragone proposto da Fabio Vittucci nell’introdurre la nuova edizione del Diario in pubblico di Vittorini, il cui stile è accostato a quello dei quaderni steineriani, per la ‘costruzione della storia’ e per il carattere narrativo che scaturiscono dal ‘montaggio’ eseguito, nel caso dello scrittore, allo scopo di ripercorrere criticamente la propria produzione saggistica:

Particolarmente importante e vicino all’operazione che compie Vittorini è il quaderno di Ricerche […], in cui Steiner espone il suo “mestiere di grafico”, […] evidenziando i propri riferimenti culturali formativi, e costruendo una storia attraverso i ritagli di immagini di architetture, sculture, pitture, ritratti di artisti, estratti da film astratti, oggetti tipografici, allestimenti di esposizioni, ma anche ritagli di articoli, immagini dei propri lavori tratte da periodici e libri di varia natura. Tutto ciò montato, con relativa didascalia, di pagina in pagina, attraverso la tecnica del collage, costruendo così un discorso narrativo unico e senza soluzione di continuità.[22]

Tornando alla grafica del «Politecnico», il confronto degli studi preparatori consente di assistere all’evoluzione in senso ‘progressista’ del layout e di pedinarne i segni tangibili. Se le prime bozze si avvicinano a un’impaginazione tradizionale, con una successione statica e simmetrica delle colonne che ricorda, ad esempio, anche nella posizione scentrata a destra della testata, l’edizione clandestina de «l’Unità», in una fase intermedia il titolo del giornalesi sposta al centro, si ingrandisce anche grazie all’uso del maiuscolo e assume una posizione visivamente predominante, molto simile a quella che caratterizza la testata di «Milano Sera».

«Il Politecnico», n. 1, 29 settembre 1945 © Erede Steiner, per gentile concessione. Tutti i diritti riservati

È il preludio a quella che sarà la pagina d’apertura definitiva del primo numero del «Politecnico», che può essere assunta a immagine esemplificativa di tutte le caratteristiche del settimanale. Spezzando l’immobilità della grafica pre-bellica,[23] a sinistra viene collocata un’unica colonna di dimensione doppia, seguita da un corpo centrale di sei colonne e da un’ultima sezione che accoglie la prima parte dell’articolo di spalla. A differenza di quanto era accaduto con i sottotitoli precedenti, inoltre, dove viene specificato e progressivamente ampliato il bacino d’utenza – nelle varie tappe di elaborazione del progetto il giornale si trasforma da «Settimanale dei lavoratori» a «Settimanale di cultura contemporanea per i contadini gli operai e gli intellettuali» – il periodico vede definitivamente la luce soltanto come «Settimanale di cultura contemporanea». L’indicazione ad ampia gittata del sottotitolo, con l’insieme di connotazioni che il termine ‘cultura’ implica nel ‘sistema Politecnico’, fa tutt’uno con la scritta posta immediatamente sotto la testata: «diretto da Elio Vittorini», dove il nome dello scrittore viene significativamente riportato in maiuscolo.

Ma la portata rivoluzionaria della grafica di Steiner non risiede soltanto nel criterio di successione delle colonne o nell’analisi delle singole componenti del foglio, quanto nella studiata architettura formale e cromatica che sostiene l’intera architettura della pagina e l’espressione dei contenuti della rivista. Quello che si offre agli occhi del pubblico è un sapiente equilibrio di rossi e neri, un’asimmetria e una «volontà modulare»[24] formulate in dettaglio, alleggerite dall’immagine posta sotto la testata e dal disegno di Guttuso riprodotto nel quadrante inferiore destro; una soluzione razionale, suggerita dall’uso dei caratteri bastoni, e allo stesso tempo un’istanza di rottura e di rinnovamento, testimoniata dalla scritta della testata, un’insegna bianca inserita in negativo in una banda rossa aperta nel margine superiore. Il rosso, che finirà per identificare la fisionomia del «Politecnico» e di associarne i segni alla stampa di sinistra, si ritrova anche nel sommario, con la funzione di mettere in evidenza le parole o le notizie più importanti del numero (evidenziati in rosso, ad esempio, sono i passaggi «L’altro Politecnico», «guerra di Spagna», l’attributo in «Può la Chiesa essere democratica?»).

La novità dell’impostazione grafica della rivista si rivela in tutta la sua forza in un parere ‘a caldo’ espresso da Massimo Mila in una lettera dell’ottobre del 1945, in cui egli ritiene che «forse sarebbe meglio procurare una impaginazione meno affaticante, caratteri un po’ meno piccoli e, in genere, un poco più di aria e di respiro».[25] Da uno sguardo alle reazioni successive alla prima pubblicazione della rivista, inoltre, si nota che l’impatto maggiore viene suscitato dal disegno e dai colori della testata, dalla modernità del taglio vivo che la sovrasta, indelebile anche dalla memoria di chi del «Politecnico» ha vissuto la nascita. Alle osservazioni di Gillo Dorfles, secondo il quale «la negativizzazione della scritta […] era resa più efficace dall’apertura verso l’alto della scritta stessa, con quell’effetto di indeterminatezza dell’immagine, allora ancora mai sperimentata»,[26] si aggiunge la testimonianza di Franco Fortini, nel cui ricordo «la “mano” di Albe […] si impone con la smarginatura alta della testata, del “Politecnico”, con la tensione introdotta entro la razionalità delle maiuscole».[27]

Anche la ricezione critica posteriore non ha mancato di sottolineare i cortocircuiti visivi espressi dalla testata del periodico, sintetizzati da Sergio Ruffolo attraverso l’individuazione di una

civetteria del quadrato nero col grande numero della copia in bianco, accostato senza soluzione di continuità al titolo del giornale, in modo da formare un tutt’uno omogeneo.
La forma geometrica esasperata contenente testata, numero, prezzo, genere della pubblicazione, ecc. era divisa in tre parti secondo la misura delle colonne che sormontava, e cioè nell’ordine: due, sei, una. In modo da costituire un ritmo nei tre colori di massimo rendimento pubblicitario per il fortissimo contrasto cromatico: nero bianco rosso.[28]

Un altro elemento personalizzante del giornale è costituito dal carattere tipografico, anch’esso veicolo di un messaggio pienamente in linea con le idee promosse dal «Politecnico». I caratteri impiegati, come era accaduto per «Milano Sera», sono i bastoni, contraddistinti da uno spessore uniforme e dall’assenza di allungamenti alle estremità, a differenza dei caratteri ornati. La scelta tipografica risponde non solo a un’esigenza di massima leggibilità e chiarezza, ma anche all’intenzione di combattere per mezzo della grafica un vecchio assetto classista. È anche nell’opposizione a un iniquo status quo che risiede il senso più alto del lavoro di Albe Steiner:

[È] necessario trovare un tipo di linguaggio diverso da quello fin qui in uso e tipico della borghesia. Se il mondo va verso una società senza classi, occorre che il linguaggio non sia più un linguaggio di classe. Voglio dire che se una forma deve corrispondere a un contenuto, quest’ultimo non può più essere la forma della sopraffazione, dell’autorità, e non può più nemmeno essere il linguaggio visivo, dei caratteri tipografici, consueti. Dev’essere un linguaggio diverso, un linguaggio senza classi oppure di una sola classe, quella egemonica, la classe operaia, capace di dare un’indicazione di rinnovamento culturale, di rinnovamento sociale, di rinnovamento tecnico, professionale, ecc. […].
È inutile sprecare in un giornale tanto spazio per mettere un simbolo, cioè un segno. Nella nostra epoca, epoca di ripetibilità tecnica delle immagini, la simbologia e i segni devono essere non di dominio, quindi niente più araldica, niente più stemmi medievali, niente più marchio di proprietà.[29]

È soprattutto nell’essenzialità del carattere, nel severo rigore emanato dai bastoni neri o bianchi, inseriti in negativo nelle bande scure, nella lotta visiva alle prevaricazioni che si riconoscono le influenze del Bauhaus, anch’esso artefice di un utilizzo funzionale dei caratteri bastoni. Come è stato anticipato, dalla scuola tedesca proviene quell’«ecologia dello sguardo»[30] che si sedimenta e si manifesta nell’arte di Steiner attraverso l’eliminazione delle ridondanze visive, dei decorativismi superflui, secondo una logica della ‘sottrazione’ accuratamente studiata per esprimere gli strappi sociali e politici diramati dai contenuti. Ma non è soltanto l’aspetto tipografico ad apparentare la configurazione grafica del «Politecnico» alla scuola più influente del Movimento moderno, giacché l’equilibrio cromatico tradisce un’ascendenza ben più radicata. Come testimonia Michele Rago:

[Steiner] ci spiegò allora che per gli uomini del «Bauhaus» i bianchi delle pagine erano un elemento del gioco grafico. Per chi compone una pagina o per chi guarda, il bianco apparentemente non dà risalto. E invece dà struttura alla pagina, la inquadra, l’assimila ai moduli architettonici.[31]

Se il bianco è un elemento funzionale alla partitura della pagina, non sarà un caso se, ad esempio, la sezione del «Politecnico» in cui i redattori si sporgono verso il pubblico, quella che riporta l’invito ai lettori ad esprimere un’opinione sugli articoli già pubblicati e ad avanzare proposte, sia letteralmente ‘aperta’, liberata dai fitti caratteri che compongono il resto del foglio e dominata da un bianco che intrattiene con i rossi e coni neri rapporti più rarefatti. Essa concentra lo sguardo del fruitore e gli permette quasi di ‘attraversare’ il supporto cartaceo.

«Il Politecnico», n. 1, 29 settembre 1945, p. 4 (particolare) © Eredi Vittorini, per gentile concessione. Tutti i diritti riservati. Published by arrangement with The Italian Literary Agency

L’articolazione dello spazio della pagina, la ragionata alternanza tra vuoti e pieni, ci conducono a un’altra fonte visiva del «Politecnico», che riguarda le gabbie grafiche e gli inconfondibili fili neri che strutturano la scansione geometrica dei fogli. La contrapposizione tra linee orizzontali e verticali, e il rapporto tra i volumi creati dalle rette, non possono che far pensare alla cultura astratta del movimento di De Stijl e di Mondrian in particolare, la cui meditata coordinazione di forme visive ‘pure’ penetra nella rivista italiana sotto forma di bande e griglie grafiche. In una suggestiva spiegazione, riflettendo sul «Politecnico» Fortini registra la «tendenza a sbarrare con elementi e blocchi orizzontali la verticalità, quella davvero ascetica, delle strette colonne verticali».[32]

Rispetto ai criteri di utilizzo delle immagini riscontrabili nel periodico, qui si raggiunge il polo opposto dell’aspirazione dei linguaggi coinvolti a farsi altro, a rinegoziare il proprio statuto. Così come le fotografie rispondono a regole sintattiche proprie di altri codici, siano essi letterari o cinematografici, allo stesso modo la scrittura sembra farsi immagine, icona funzionale all’espressione organica di un progetto di rigenerazione in cui uno scrittore e un’artista hanno investito, a metà degli anni Quaranta, il meglio della loro attività.

Sarà curioso notare che alcuni fascicoli del «Politecnico» riflettono le matrici figurative di Steiner, traducendone e lasciando filtrare le proposte di rinnovamento in segnalazioni pubblicitarie e articoli. Proprio la riproduzione del Bauhausbücher di Mondrian campeggia nella quarta pagina del numero 5, dove all’immagine corrisponde una tipica didascalia descrittiva apparentemente neutra:

Il Bauhaus è una scuola di arti applicate e di architettura realizzata da Walter Gropius a Weimar e Dessau in Germania nel periodo della repubblica di Weimar, tra il 1921 e il 1930. Ecco una copertina dei quaderni del Bauhaus. Piet Mondrian, autore di questo libro sosteneva che la pittura neoplastica, per i suoi rapporti e i suoi mezzi plastici puri, può esprimere la vita in maniera più intensa attraverso la forma più ridotta ed elementare.[33]

Ancora più rappresentativo è il manifesto di El Lissitzki del 1919, Colpisci i bianchi col cuneo rosso, riprodotto nella quarta pagina del sesto numero. La scelta di quest’opera si rivela estremamente significativa, sia rispetto all’impianto grafico del «Politecnico», sia, ancora una volta, in relazione alla componente rivoluzionaria di cui intende farsi promotore. Il manifesto, infatti, risolve in un equilibrio di forme geometriche l’azione dell’«armata rossa [che], come un cuneo, spezza il tentativo di accerchiamento della reazione»,[34] simboleggiata da un cerchio bianco trafitto da un triangolo rosso. Nel numero 23, inoltre, un lungo articolo di Giuseppe Trevisani racconta la storia e lo stile del Bauhaus.[35]

Albe Steiner progetta anche la grafica della nuova serie mensile, bimestrale e trimestrale del «Politecnico»,[36] ma non ne seguirà da vicino i lavori. Dopo il suo trasferimento in Messico, sarà Giuseppe Trevisani a subentrare e ad assumere la responsabilità dell’assetto grafico della rivista. Come si è accennato in precedenza, con la nuova edizione si esce definitivamente dal livello dell’attualità e si fa ingresso nel piano della ricerca. Lo sperimentalismo del settimanale cede il passo alla riflessione critica e, insieme ad essa, l’impianto grafico si contrae, rinuncia all’eversivo dinamismo dell’edizione precedente.

I materiali di cui si è preso visione non ci inducono a pensare che il progetto grafico del «Politecnico» vada attribuito interamente ad Albe Steiner. Le testimonianze epistolari lasciano trapelare un intervento attivo costante da parte del direttore della rivista. In una lettera del dicembre del 1945, per esempio, Vittorini propone al grafico modifiche nell’impaginazione dell’undicesimo numero: «vedi», raccomanda,«di fare un cambiamento alla 2° e alla 4° pagina»,[37] e prosegue entrando nel merito dell’impianto del fascicolo e abbozzando addirittura uno schema del quarto foglio. Ancora prima, sempre nel periodo di preparazione del numero d’esordio, lo scrittore annota nelle bozze delle pagine interne gli elenchi degli scritti letterari, delle interviste, degli articoli che devono essere ospitati, segnando una raccomandazione («ti ricordo: ogni tanto qualche composizione su due colonne, qualche frase su negativo»)[38] e attribuendo, talvolta, alla lista il numero esatto della pagina. Come ha rilevato Maria Rizzarelli, «Vittorini interviene pure sulla “mise en page” di ogni numero, perché capisce che anche nella strutturazione del menabò risulta implicita la novità del linguaggio attraverso cui passa la scommessa del progetto del “Politecnico”».[39]

Non è risolutivo, dunque, in questo contesto, il fatto che lo schema proposto dallo scrittore per il numero 11 non venga seguito, o che non tutti i contributi elencati nelle bozze rientrino nel primo numero (figurano articoli sull’India e sulla Grecia assenti in quel fascicolo),ciò che appare significativo sottolineare è come dagli scambi epistolari e dalle note autografe di Vittorini presenti nelle bozze si possa desumere che lo scrittore partecipa, discute e si confronta continuamente con Steiner, suggerendo modifiche, avanzando proposte e moniti sulla disposizione delle diverse componenti del «Politecnico».

La critica ha sempre rilevato la tendenza dello scrittore a intervenire sui materiali altrui, perfino nell’ambito dell’attività traduttoria.[40] Il lavoro prestato da Vittorini per «Il Politecnico» non smentisce quest’attitudine;[41] del resto, il suo metodo di lavoro induce a ritenere che nessuna delle sezioni paratestuali del periodico sia stata lasciata al caso. Già nel periodo di collaborazione clandestina a «l’Unità», come ricorda Gian Carlo Pajetta in relazione alla stesura delle didascalie da parte di Vittorini,

quasi tutta la sua giornata era tormentata da quel pensiero, era come se ricercasse un verso che qualche volta non riusciva a piacergli. E non trovava strano […] di lasciarci, quasi fuggendo la sera, con un biglietto in cui stava scritto “aggiustatelo voi, io non ho trovato le parole”. E poi, il giorno dopo, a spiegarmi che per lui una didascalia non era come per un altro giornalista, come per uno di noi che non era neppure giornalista: soltanto un paio di righe, sotto un’immagine spesso incomprensibile.

La consueta intromissione dello scrittore, dunque, e l’attitudine, corroborata dalla reminiscenza di Pajetta, a spingere anche le più recondite tipologie di scrittura al culmine della loro capacità espressiva non stupisce se si considera l’abilità che Vittorini sviluppa negli anni della menzionata attività clandestina. In maniera analoga, secondo la testimonianza di Lica Steiner,[42] Albe partecipa alla stesura delle didascalie e, nel ricordo di Fortini, che gli attribuisce la scelta delle fotografie collocate sotto la testata di diversi numeri e lascia intuire un suo intervento «nei “film” verticali di immagini commentate»,[43] contribuisce alla selezione dei materiali fotografici. Michele Rago, inoltre, soffermandosi sul menabò del «Politecnico», ha parlato di «foto che Albe Steiner e Elio Vittorini sceglievano e presentavano come elementi funzionali, più che indispensabili, del settimanale».[44] Al di là di questi fugaci riferimenti, appare difficile stabilire se e in che misura Steiner abbia rivestito un ruolo nell’utilizzo delle foto del «Politecnico» e nella disposizione cinematica delle immagini. Il grafico non è certo estraneo all’universo della fotografia, nel 1943 collabora alla realizzazione della Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia edita da Domus e pratica l’arte fotografica, ma sembra farne un uso diverso, quasi di elaborazione privata del proprio lavoro. Padroneggia le manipolazioni sulla scia di Heartfield e si cimenta in emulsioni e processi chimici riprendendo fotografie simili ai rayogrammi;[45] delle sue sperimentazioni rimane traccia, peraltro, in un bozzetto di locandina del «Politecnico» che ritrae l’ombra di Albe – motivo ricorrente della sua produzione fotografica – e quella del cane Peck. La carenza di dati su questo aspetto non sminuisce comunque il valore esemplare del dialogo tra Vittorini e Steiner, delle felici intuizioni che, seppur vive solo per un breve arco di tempo, non possono dirsi fallite né tantomeno dimenticate.

L’artista progetta anche la grafica della nuova serie mensile, bimestrale e trimestrale del «Politecnico»,[46] ma non ne seguirà da vicino i lavori. Dopo il suo trasferimento in Messico, sarà Giuseppe Trevisani a subentrare e ad assumere la responsabilità dell’assetto grafico della rivista. Come si è accennato in precedenza, cambia radicalmente anche il formato; alle grandi facciate simili ai fogli dei quotidiani vengono sostituiti fitti fascicoli di dimensione ridotta e con un numero notevolmente maggiore di pagine. Dal punto di vista contenutistico, i temi continuano ad essere i problemi sociali e politici del Paese, le arti visive e figurative, il rapporto del marxismo con altre correnti del pensiero europeo, l’esistenzialismo, la psicanalisi, il neopositivismo, ma si esce definitivamente dal livello dell’attualità e si fa ingresso nel piano della ricerca. Perfino nel ricordo di Fortini, che riconosce «il momento della massima speranza […] nell’ultimo trimestre del 1945 e nel primo del 1946», con il cambio di periodicità «l’ottimismo hemingwayano e “spagnolo” del settimanale, il razionalismo da Bauhaus e da New Deal, si ritirano sullo sfondo. Le cose si complicavano. Si stipano ormai lunghi, sodi saggi in colonne compatte e il taglio delle foto si fa aspro, come teso».[47] La vita del «Politecnico» si approssima a quel complesso meccanismo di ‘preannunci’ indiretti di cessazione che vedono coinvolti il Partito comunista italiano, l’Einaudi come casa editrice vicina al partito seppure esterna alla sua organizzazione, e Vittorini in quanto scrittore difficilmente riducibile ai ristretti orizzonti dei dogmatismi ideologici; si avvicina in ultima analisi alla sua fine, ma soltanto dopo aver trovato in Steiner uno spregiudicato interlocutore ideale.

 

 


1 Sulla composizione informale della redazione e per una mappa completa della rete dei collaboratori cfr. M. Zancan, Il progetto «Politecnico». Cronache e strutture di una rivista, Venezia, Marsilio, 1984, pp. 68-70; R. Crovi (a cura di), ‘Il Politecnico. 1945-1947’, in AA.VV., Milano com’è. La cultura nelle sue strutture dal 1945 a oggi, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 173.

2 «Qualche volta il “Politecnico” veniva incollato ai muri cittadini; e ci dava un brivido d’orgoglio vedere i nomi e i pensieri della poesia e dell’arte» (F. Fortini, ‘Che cos’è stato il «Politecnico»’, Nuovi Argomenti, 1, marzo-aprile 1953, ora in Id., Dieci inverni 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, Bari, De Donato, 1973, p. 65).

3 Alla Fiat sono dedicate diverse sezioni dei numeri 1-3 e alla Montecatini parte dei numeri 15-17 e 20.

4 Per una ricostruzione delle concause finanziarie e politiche che condussero al cambiamento di periodicità del «Politecnico» e per un esame delle differenze con l’edizione settimanale cfr. M. Zancan, Il progetto «Politecnico», pp. 84-111.

5 E. Vittorini, ‘La foto strizza l’occhio alla pagina’, Cinema Nuovo, III, 33, 15 aprile 1954, ora in Id., Letteratura arte società. Articoli e interventi 1938-1965, a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 2008, vol. II, pp. 701-702.

6 Cfr. G. Falaschi, ‘Vittorini e la fotografia’, Archivio Storico Fotografico, 5, 1987, pp. 34-37; G. Lupo, Vittorini politecnico, Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 68-73.

7 M. Rizzarelli, ‘Parole “solo per avventura” quotidiane’, in C. Serafini (a cura di), Parola di scrittore. Giornalismo e letteratura nel Novecento, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 342-343.

8 G. Trevisani, ‘La tipografia è il vizio segreto di Vittorini’, Pesci rossi, XVI, 5, maggio 1947, pp. 22-23. Cfr. anche Id., ‘Le fotografie di Elio Vittorini’, Popular Photography Italiana, 107, maggio 1966, pp. 32-37; P. Orvieto, ‘Vittorini e l’accostamento fotografico’, in AA.VV., Letteratura & fotografia, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 2005, vol. II, pp. 61-81; U. Lucas, T. Agliani, La realtà e lo sguardo. Storia del fotogiornalismo in Italia, Torino, Einaudi, 2015, p. 186. Sul criterio di disposizione delle immagini nella settima edizione di Conversazione in Sicilia cfr. M. Rizzarelli, ‘Postfazione’, in E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, ristampa anastatica dell’edizione Bompiani del 1953, a cura di M. Rizzarelli, Milano, Rizzoli, 2007, pp. V-XIX.

9 Per una disamina del concetto di ‘rimediazione’, cfr. J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, a cura di A. Marinelli, trad. it. di B. Gennaro, Milano, Guerini, 2003, pp. 25-116.

10 Cfr. G. Trevisani, ‘Le fotografie di Elio Vittorini’, p. 32.

11 Per una puntuale ricostruzione delle vicende biografiche degli Steiner e della loro attività lavorativa cfr. Anna Steiner, Licalbe Steiner. Grafici partigiani, Mantova, Corraini, 2015, pp. 10-17.

12 Cfr. il contributo di Gillo Dorfles in AA.VV., Albe Steiner. Comunicazione visiva, Milano, Alinari, 1977, p. 9;C.A. Quintavalle, Pubblicità. Modello sistema e storia, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 82; P. Fossati, ‘Introduzione’, in Albe Steiner, Il mestiere di grafico, Torino, Einaudi, 1978, p. XX.

13 I. Calvino, ‘Il segreto di Albe Steiner’, l’Unità, 3 settembre 1974, ora in Id., Saggi 1954-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1995, vol. II, p. 2799.

14 Albe Steiner, Il mestiere di grafico, pp. 37, 39.

15 R. Crovi, Il lungo viaggio di Vittorini, Una biografia critica, Venezia, Marsilio, 1998, p. 211. Il volantino è pubblicato in E. Vittorini, I libri, la città, il mondo. Lettere 1933-1943, a cura di C. Minoia, Torino, Einaudi, 1985, pp. 265-266.

16 Lettera a Ernest Hemingway, Milano, 8 marzo [1949], in E. Vittorini, Gli anni del Politecnico. Lettere 1945-1951, a cura di C. Minoia, Torino, Einaudi, 1977, p. 226.

17 G. Trevisani, ‘Le fotografie di Elio Vittorini’, p. 32. Cfr. anche G. Trevisani, ‘La tipografia è il vizio segreto di Vittorini’, pp. 22-23.

18 AA.VV., Albe Steiner. Comunicazione visiva, p. 23.

19 Albe Steiner, Il mestiere di grafico, pp. 69-70.

20 AA.VV., Albe Steiner. Comunicazione visiva, p. 14.

21 Conservate in Archivi storici del Politecnico di Milano, Archivio Albe e Lica Steiner.

22 F. Vittucci, ‘Introduzione’, in E. Vittorini, Diario in pubblico [1957], a cura di F. Vittucci, Milano, Bompiani, 2016, pp. 7-8.

23 Per un rapido ragguaglio in questa direzione, cfr. S. Ruffolo, Vestire i giornali [1986], Torino, Gutenberg 2000, 1987, pp. 31-62.

24 AA.VV., Albe Steiner. Comunicazione visiva, p. 14.

25 Lettera s. f. [di Massimo Mila] a Elio Vittorini, Torino, 2 ottobre 1945, in Archivio di Stato di Torino, Fondo Giulio Einaudi Editore, serie Corrispondenza, sottoserie Corrispondenza con autori e collaboratori italiani, cartella 221.1, fascicolo 3099/1, foglio 69.

26 AA.VV., Albe Steiner. Comunicazione visiva, p. 10.

27 Ivi, p. 14.

28 S. Ruffolo, Vestire i giornali, p. 69.

29 Albe Steiner, Il mestiere di grafico, p. 38.

30 M. C. [Mario Cresci], ‘Editoria’, in Albe Steiner, Foto-grafia. Ricerca e progetto, a cura di L. Steiner, M. Cresci, Roma, Laterza, 1990, p. 194.

31 AA.VV., Albe Steiner. Comunicazione visiva, p. 23.

32 Ivi, p. 14.

33 Il Politecnico, 5, 27 ottobre 1945, p. 4.

34 Il Politecnico, 6, 3 novembre 1945, p. 4.

35 Cfr. G. Trevisani, ‘Bauhaus’, Il Politecnico, 23, 2 marzo 1946, p. 3.

36 Si ricorda che l’edizione che si è soliti definire ‘mensile’ è costituita anche da numeri trimestrali (33-34, settembre-dicembre 1946; 35, gennaio-marzo 1947) e da un fascicolo doppio (31-32, luglio-agosto 1946).

37 Lettera a Albe Steiner, Milano, primi giorni del dicembre 1945, in E. Vittorini, Gli anni del Politecnico, p. 36.

38 Griglie per le pagine interne del «Politecnico» con annotazioni autografe di Elio Vittorini, conservate in Archivi storici del Politecnico di Milano, Archivio Albe e Lica Steiner.

39 M. Rizzarelli, ‘Parole “solo per avventura” quotidiane’, p. 342.

40 Cfr. G.C. Ferretti, L’editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992, pp. 31-72.

41 Al padre, nell’ottobre del ’45, confida: «Gli articoli che hai visto su “Politecnico” a firma di Ugo si possono considerare scritti da Ugo e me insieme: Ugo ha fornito il materiale scritto a modo suo, ma ottimo materiale; io l’ho riveduto. Ti sarei grato se tu potessi mandarmi del materiale analogo sulla Sicilia. […] Non ho voluto chiedertelo prima perché debbo anche chiederti di lasciarmelo ritoccare a modo mio. Ma firmerò, si capisce, col tuo nome. Rivedo, ritocco tutto quello che il giornale pubblica» (Lettera al padre, Milano, 26 ottobre 1945, in E. Vittorini, Gli anni del Politecnico, p. 28. Gli articoli del fratello Ugo di cui si fa menzione sono L’acqua delle Puglie e Il Ducato di Montaltino, entrambi pubblicati nel numero 1). Con analoga schiettezza, Vittorini si rivolge pochi mesi dopo a Marcello Venturi: «nel numero di Natale, doppio, esce dunque il tuo primo racconto inviatoci. Immagino sarai contento e che non ti dispiacerà se mi sarò permesso di ritoccarlo un poco» (Lettera a Marcello Venturi, Milano, 19 dicembre 1945, ivi, p. 39. Un racconto di Venturi dal titolo Estate che mai dimenticheremo verrà in realtà pubblicato nel numero 25 del 16 marzo 1946).

42 L’informazione è desunta dall’intervista contenuta in E. Marano, Il Politecnico: il sistema delle immagini, Tesi di laurea, Università degli Studi di Parma, a. a. 2006/2007, p. 199.

43 Cfr. AA.VV., Albe Steiner. Comunicazione visiva, p. 24.

44 Ivi, p. 23.

45 Cfr. P. Fossati, ‘Introduzione’, in Albe Steiner, Il mestiere di grafico, p. XXII; Albe Steiner, Foto-grafia.

46 Si ricorda che l’edizione che si è soliti definire ‘mensile’ è costituita anche da numeri trimestrali (33-34, settembre-dicembre 1946; 35, gennaio-marzo 1947) e da un fascicolo doppio (31-32, luglio-agosto 1946).

47 AA.VV., Albe Steiner. Comunicazione visiva, p. 14.