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Disobedience, l’ultimo film di Sebastián Lelio, nelle sale italiane da alcuni giorni, racconta la storia di Ronit, fotografa londinese che vive a New York e torna a Hendon, nel sobborgo della capitale dove è cresciuta, subito dopo la morte del padre, il Rav Krucka, rabbino della comunità ebraica ortodossa che lei ha ormai abbandonato da sei anni. Al suo ritorno Ronit ritrova il cugino Dovid, erede degli insegnamenti del Rav, e scopre che ha sposato Esti, amica d’infanzia con cui lei aveva vissuto una appassionata relazione. I due sono gli unici che, seppur dopo un’iniziale ritrosia, non solo l’accolgono nella loro casa ma mostrano di voler condividere il suo dolore, mentre nel complesso gli abitanti di Hendon la condannano senza appello per avere detto addio alla famiglia, alla casa, alle regole della comunità.

Da molti acclamato come una storia d’amore proibito, Disobedience in realtà mette a fuoco le esistenze di tre persone colte in un momento di grande tensione, nel quale i loro destini tornano a intrecciarsi, a distanza di anni, prima di riavviarsi verso strade divergenti grazie a una ritrovata indipendenza. È insomma un inno alla sofferta e gioiosa facoltà del libero arbitrio, che dei rapporti umani (e di tutte le loro possibili sfumature – amorose, amicali, familiari) è radice ed essenza. Tale radice risulta tanto più indicativa quanto più i rapporti vengono osservati nella loro differenziante particolarità, attraverso l’obiettivo di un regista che ha sempre scelto (almeno fino a questo momento) di puntare lo sguardo sui destini individuali. La nuova ‘donna fantastica’ che Lelio sceglie di raccontare nel suo primo film in lingua inglese è infatti lesbica, ebrea ed esiliata da una comunità ortodossa.

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