You make me feel like I am free again. La disobbedienza dello sguardo di Sebastián Lelio

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Disobedience, l’ultimo film di Sebastián Lelio, nelle sale italiane da alcuni giorni, racconta la storia di Ronit, fotografa londinese che vive a New York e torna a Hendon, nel sobborgo della capitale dove è cresciuta, subito dopo la morte del padre, il Rav Krucka, rabbino della comunità ebraica ortodossa che lei ha ormai abbandonato da sei anni. Al suo ritorno Ronit ritrova il cugino Dovid, erede degli insegnamenti del Rav, e scopre che ha sposato Esti, amica d’infanzia con cui lei aveva vissuto una appassionata relazione. I due sono gli unici che, seppur dopo un’iniziale ritrosia, non solo l’accolgono nella loro casa ma mostrano di voler condividere il suo dolore, mentre nel complesso gli abitanti di Hendon la condannano senza appello per avere detto addio alla famiglia, alla casa, alle regole della comunità.

Da molti acclamato come una storia d’amore proibito, Disobedience in realtà mette a fuoco le esistenze di tre persone colte in un momento di grande tensione, nel quale i loro destini tornano a intrecciarsi, a distanza di anni, prima di riavviarsi verso strade divergenti grazie a una ritrovata indipendenza. È insomma un inno alla sofferta e gioiosa facoltà del libero arbitrio, che dei rapporti umani (e di tutte le loro possibili sfumature – amorose, amicali, familiari) è radice ed essenza. Tale radice risulta tanto più indicativa quanto più i rapporti vengono osservati nella loro differenziante particolarità, attraverso l’obiettivo di un regista che ha sempre scelto (almeno fino a questo momento) di puntare lo sguardo sui destini individuali. La nuova ‘donna fantastica’ che Lelio sceglie di raccontare nel suo primo film in lingua inglese è infatti lesbica, ebrea ed esiliata da una comunità ortodossa.

La scelta del soggetto, tratto dall’omonimo romanzo di Naomi Alderman pubblicato nel 2006, è stata fatta da Rachel Weisz, che oltra a interpretare Ronit ha prodotto il film. Al di là delle ragioni autobiografiche dell’attrice, la quale – come ha dichiarato in un’intervista – nell’infanzia ha vissuto nei pressi di Hendon e ha (ri)conosciuto nelle pagine di Alderman alcune immagini della sua memoria, il film nasce dalla personale riscrittura visuale del romanzo che Lelio mette in quadro utilizzando il suo inconfondibile stile narrativo, facendone un caso di adattamento estremamente interessante, di cui qui si vogliono sottolineare alcuni passaggi.

1. «Music will remind you»

Per certi versi il dispositivo diegetico costruito dal regista può apparire un capovolgimento radicale di quello adottato dalla scrittrice: laddove questa fonda ciascuna delle tappe del suo percorso romanzesco sul commento di un passo della Torah, mettendo dunque al centro del racconto la Parola, Lelio affida la narrazione quasi unicamente alle immagini e al commento musicale, con un ricorso parco e misurato ai dialoghi. Si tratta però, a ben guardare, di una coerente e fedele operazione transmediale tramite la quale Lelio traduce l’alternanza dei punti di vista del racconto di Alderman, in cui la vicenda si fonda sul fuoco incrociato della narrazione in prima persona di Ronit e di quella in terza persona di Esti, di Dovid e della comunità di Hendon, attraverso un sapiente avvicendarsi di piani e di quadri. Nel film l’obiettivo appare inizialmente schiacciato sul volto e sul corpo di Ronit, quasi a far sentire una prossimità claustrofobica con la sua figura, a cui raramente si alterna il campo medio e lungo ora sulle strade di Hendon, ora sul cimitero; progressivamente però si aggiungono in primo piano le altre due figure, prima quella di Esti e poi anche quella di Dovid, in un climax che scandisce la storia in tre tempi, evidenziati dalle figure riprese mentre camminano per strada, le cui andature raccontano molto di più degli scarni dialoghi che le accompagnano (peraltro soltanto in alcune sequenze).

Del resto Lelio, come in Una mujer fantástica (2017), rivela la sua peculiare impronta stilistica proprio nella capacità di rappresentare il destino di una donna dal ritmo e dalla qualità dell’andatura, nella volontà di leggere nelle pieghe del volto e nella postura dei corpi i tormenti delle diverse storie di reclusione e affrancamento – storie che qui come nel film precedente si snodano a partire da un lutto e dalle reazioni che i personaggi hanno di fronte alla morte e al rito funebre, ovvero di fronte alle leggi umane e divine.

Lelio si appropria così del racconto di Alderman pur rimanendo fedele all’asse semantico centrale dell’ipotesto originario. Lavora sul romanzo traendo dalla trama e dai dettagli delle preziose indicazioni di regia, che vengono estratte e ricollocate dentro il suo apparato filmico. La canzone dei Cure, Love song, per esempio, sulle cui note si sintonizzano le preghiere laiche, ‘umane, troppo umane’, di Ronit ed Esti, un attimo prima di riconsegnarsi ciascuna nelle braccia dell’altra, appare come lo sviluppo di un particolare contenuto nel romanzo. Fra le pagine di Alderman Ronit, in visita a casa del padre, accende la radio e ascolta musica pop; ma già prima di decidere di tornare a Hendon, in realtà, ha ricordato i precetti ebraici per onorare i defunti e tra questi le è venuto in mente il divieto di ascoltare musica, perché quella appare come un ricordo o una promessa di felicità («Because music will remind you that, somewhere in the world, someone is happy»).[1] Da questa sequenza il film sembra seguire le note di Love song e sul ritornello pare sintonizzare le tappe del ricongiungimento di Ronit ed Esti. Fra le braccia di quest’ultima la protagonista si riconcilia con la sua casa («Whenever I’m alone with you / you make me feel like I am home again»); con i propri ricordi, ritornando nei luoghi dove era nato il loro amore («Whenever I’m alone with you / you make me feel like I am young again»); ritrova la gioia dell’incontro dei loro corpi («Whenever I’m alone with you / you make me feel like I am fun again»). E solo dopo questo ritrovamento può sentirsi di nuovo libera di andare via («Whenever I’m alone with you / you make me feel like I am free again»).

2. «Simply absorting the sight of her»

Il tradimento più interessante della trasposizione intersemiotica di Lelio riguarda la professione di Ronit che nel romanzo è un’analista finanziaria mentre nel film diventa una fotografa affermata. La scelta di far vestire a Ronit i panni della fotografa, e di farle prendere in mano una macchina fotografica, colloca la personaggia in una precisa genealogia,[2] la cui incarnazione più recente ricorda certamente la Therese di Carol di Haynes (in cui peraltro il regista opera un’analoga operazione di tradimento/adattamento), ma che forse può risalire all’«atto fotografico» compiuto dalla bergmaniana Elizabeth di Persona (1966).

Viene da chiedersi adesso se, al di là della lunga rete intertestuale, il rimando alla fotografia abbia una giustificazione nell’architettura semantica del racconto di Lelio. La simmetria delle inquadrature che ripropongono Ronit in posa da fotografa, all’inizio e alla fine del film (oltre che a conclusione della scena di sesso fra le due donne), per cui il dispositivo diegetico appare incorniciato dentro due clic, sembrerebbe far pensare ad una risposta positiva. Dopo il prologo, dedicato alla rappresentazione dell’ultima omelia del Rav e alla tragica fatalità della sua morte, grazie a un vertiginoso stacco di montaggio compare la prima inquadratura di Ronit, curva sull’obiettivo della sua macchina fotografica a scattare alcune foto a un anziano signore tatuato.

Innescando una serie di echi e corrispondenze che legano l’incipit alla scena centrale del film, in cui Ronit, appena rientrata nello studio del padre, annusa il profumo di tabacco della sua pipa e si rammarica di non avergli mai scattato un ritratto, quel primo scatto rimanda prepotentemente all’ultimo. Nel finale, infatti, Ronit ritorna sulla tomba del Rav e trova come estremo gesto di commiato quello di rivolgere l’obiettivo della sua macchina fotografica verso la terra ancora fresca della sepoltura, metonimia e metafora del suo corpo.

Nel romanzo è concesso un certo spazio alle fotografie, che hanno spesso la funzione di cristallizzare i ricordi; in più di un’occasione appaiono come memorie raggelate e polverose, appese alle pareti, a rammentare un passato ingombrante, di cui non ci si può liberare, o a raccontare semplicemente un frammento di tempo che la protagonista non ha condiviso perché assente. È il caso della foto del matrimonio di Esti e Dovid, da cui Ronit apprende la notizia della loro unione. L’enfasi riposta nel film sul medium fotografico, effetto del processo di personificazione operato dall’adattamento, corrisponde probabilmente a una traduzione della complessa trama visuale del testo, in cui la dialettica fra luce e ombra costituisce uno degli assi semantici del confronto con le sacre scritture. Lelio indugia spesso su questa simbologia fotocromatica, facendo di Ronit in più inquadrature una creatura portatrice di luce, generando così una sorta di metaforico raddoppiamento della sua scelta espressiva: il suo essere fotografa non fa che ‘rischiarare’ la trama dei destini incrociati dei personaggi.

3. «Two states of being» … invisible

È proprio qui che si coglie l’aspetto più interessante del dialogo intertestuale messo in campo da Lelio con il romanzo di Alderman. Sembrerebbe infatti che il regista, attraverso la costruzione di questo complesso e raffinato dispositivo visuale, traduca in immagini le riflessioni che agitano Ronit nelle ultime pagine di Disobedience:

I’ve been thinking about two states of being – being gay, being Jewish. They have lot in common. You don’t choose it, that’s the first thing. If you are, you are. There’s nothing you can do to change it. Some people might deny this, but even if you’re only ‘a little bit gay’ or ‘a little bit Jewish’, that’s enough for you to identify yourself if you want.
The second thing is that both those states – gayness, Jewishness – are invisible. Which makes interesting. Because while you don’t have a choice about what you are, you have about what you show. You always have a choice about whether you ‘out’ yourself. Every time you meet someone new, it’s a decision. You always have a choice about whether you practise.[3]

L’intera struttura diegetica messa in campo da Lelio è una sfida all’invisibilità di uno ‘stato’ che in tutti i personaggi, in particolare in quelli in primo piano, si traduce in una visibilità che imprigiona i corpi e le menti dentro l’equivoco di un’obbedienza cieca. La Disobedience evocata dal titolo è invece un diritto, la cui consapevolezza matura in Ronit, Esti e infine Dovid attraverso un abbraccio comune, che riallinea i loro percorsi divergenti nel segno di una ritrovata verità.

Anche in questo caso più del dialogo conta la messa in quadro, che anticipa, invera e rende tangibili le traiettorie parallele di uscita dal closet[4] e di affrancamento degli sguardi dei tre personaggi; i loro corpi vengono liberati dai filtri visuali che ostacolano la loro vista (Esti esce dalla doccia, Dovid dall’anticamera della sinagoga, Ronit dal taxi), e si mostrano finalmente a fuoco («It’s as if she herself had been brought into focus, like a telscope drawing down the moon»), consapevoli di essere stati lasciati «gioiosamente liberi» («He has joyfully set us free»).[5]


1 N. Alderman, Disobedience, London, Penguin, 2006, kindle version.

2 Si rimanda a tal proposito a M. Rizzarelli, ‘L’educazione sentimentale di uno sguardo: Carol di Todd Haynes’, Arabeschi, 7, gennaio-giugno 20016, pp. 120-124, < http://www.arabeschi.it/leducazione-sentimentale-di-uno-sguardo-carol-todd-haynes-/ > [accessed 28 ottobre 2018].

3 N. Alderman, Disobedience.

4 È interessante notare come Eve Kosofsky Sedgwick (in Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità [1990], a cura di F. Zappino, pref. di S. Antosa, Roma, Carocci, 2011, p. 107 e sgg.) individui proprio nella possibilità almeno teorica di «custodire il segreto dell’appartenenza al proprio gruppo» l’analogia fra antisemitismo e omofobia.

5 N. Alderman, Disobedience.