Esiste una storia del Sud Italia attraverso le sue fotografie. O meglio, esiste un racconto fotografico del Sud Italia. Dal Grand Tour alla fotografia contemporanea, il Meridione è stato oggetto di due sguardi: quello dell’osservatore esterno (outsider, il fotografo straniero o italiano non appartenente al luogo) e quello dell’osservatore interno (insider, il fotografo che appartiene al luogo). Nel primo caso rientrano vari protagonisti della storia della fotografia: da Wilhelm von Gloeden a Steve McCurry, passando per i Fratelli Alinari, Henri Cartier-Bresson, David Seymour, Thomas Hoepker, Josef Koudelka, Nino Migliori, Lisetta Carmi, Paolo Monti, ecc.. Il secondo caso si divide tra ricerche territoriali già note (Letizia Battaglia, Mimmo Jodice, Antonio Biasucci, Carmelo Nicosia, ecc.) e altre ancora da scoprire (i fondi fotografici non archiviati e valorizzati). Si tratta di approcci diversi – documentarismo, ricerca etnografica, reportage, concettualismo – e spesso interdisciplinari – scienza e fotografia (Ernesto De Martino), scrittura e immagini (Seymour e Carlo Levi), cooperazione tra fotografi (l’emblematico Viaggio in Italia di Luigi Ghirri).
A questo crocevia di idee, visioni, ricerche si colloca Mario Cresci con la sua lunga opera fotografica dedicata al paesaggio lucano tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta (Quintavalle 2019). Un’opera fondata su «studi multidisciplinari» (Cresci 2024) e sulla commistione tra sguardo da outsider e sguardo da insider, dato che il fotografo ligure (nato a Chiavari nel 1942), formatosi a Venezia (Corso Superiore di Disegno Industriale dal 1964), a un certo punto sceglie di vivere in Basilicata (tra il 1974 e il 1990 circa).
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Tricarico: «luogo da cent’anni di solitudine»
Ebbi la sensazione immediata, appena arrivato alla stazione di Grassano-Tricarico, di come una persona possa perdere improvvisamente la memoria e la cognizione del tempo e nello stesso tempo una miriade di pensieri e immagini nuove possa entrare negli occhi (Cresci 2022, p. 112).
Con queste parole il fotografo ricorda l’arrivo a Tricarico, in provincia di Matera, nel 1966 insieme al sociologo meridionalista Aldo Musacchio e agli architetti Ferruccio Orioli e Raffaele Panella, membri de «Il Politecnico» con cui Cresci collabora già da alcuni anni a Venezia. Specializzato in progettazione e ricerca urbanistica, il gruppo è ingaggiato dal Comune di Tricarico per realizzare il Piano regolatore, quindi per documentare il territorio e la comunità. L’analisi dell’urbanistica tricaricese è guidata dagli insegnamenti e dall’attivismo pro-meridione di Musacchio, il quale auspica uno sviluppo economico e sociale in termini di conoscenza, informazione, consapevolezza delle proprie risorse e della propria storia.
In quegli anni Tricarico è ancora un microcosmo arcaico-rurale in cui tempo e spazio sono congelati e la vita si ripete ciclicamente. Insomma, un «luogo da Cent’anni di solitudine» – così lo definisce Cresci (2002, p. 14) evocando il romanzo di Gabriel García Márquez del 1967 – che deve emanciparsi dall’idea di preservare il passato come modello autentico da perpetuare nel presente e nel futuro per poter avviare un processo di rinnovamento dell’identità territoriale. Un’operazione che «Il Politecnico» tenta, in verità, all’interno di un più ampio contesto di modernizzazione generato dal monito di Carlo Levi sull’abbandono dei sassi di Matera (Benigni 2024).
La metodologia de «Il Politecnico» è la progettazione partecipata (Cresci 2017) che interpella direttamente la cittadinanza che fruirà del risultato della «scienza della città». Il principio di partecipazione è dichiarato nella prima pagina del Quaderno del Piano, un piccolo volume pubblicato a corredo del Piano regolatore e distribuito nelle scuole come «strumento di crescita civile» (Cresci 2017, p. 39). Lo scopo è scuotere il luogo da ‘cent’anni di solitudine’ per «orientare il rapporto fra gli uomini e il territorio […], interpretare e conoscere la realtà di una comunità per capire le direzioni del suo sviluppo e le attese dei suoi cittadini, e dare a queste tendenze i mezzi per realizzarsi» (Il Politecnico 1967).
Il Quaderno del Piano contiene dati statistici, mappe, fogli bianchi destinati a disegni e appunti, testi descrittivi e una selezione delle foto di Cresci che mostrano case, negozi, campi arati, bestiame, mestieri, oggetti. Le foto sono suddivise in tematiche (interno ed esterno, zone basse e alte, aziende e agricoltura, viabilità e accessi, ecc.) e sono corredate da didascalie con informazioni sul passato, presente e futuro della cittadina e suggerimenti sull’uso delle risorse disponibili. La fotografia funziona come strumento di misurazione del luogo. Non a caso molte didascalie evidenziano il ruolo di ausilio alla visione dei tricaricesi («questa immagine vuole stabilire», «queste fotografie riproducono», «la foto aiuta a capire»). Del resto Misurazione (1979) è il titolo di un volume che Cresci dedica all’indagine fotografica sulla cultura materiale lucana. In altre parole, le foto misurano lo spazio e il tempo del luogo così come ha insegnato a fare Walker Evans (riferimento per molti fotografi contemporanei).
Le prime immagini del Quaderno sono vedute panoramiche che mostrano l’estensione di Tricarico. Il racconto fotografico procede secondo le regole della narrazione cinematografica classica: si parte da un piano di ambientazione per poi addentrarsi negli ambienti delle scene fotografate. Abbandonate le panoramiche iniziali, lo sguardo di Cresci replica un particolare punto di vista in cui l’inquadratura è riempita di paesaggio al punto che lo spazio rappresentato appare ristretto (o almeno questo è uno dei punti evidenziati nel Quaderno). Alcune parti del paesaggio sono messe in primo piano, altre sono omesse o relegate sullo sfondo [fig. 1].
Sul piano formale, il paesaggio è inteso come rapporto tra lo spazio del cielo e lo spazio della terra, mentre il confine prospettico è dato dalla linea d’orizzonte […] [che] in fase di ripresa può salire, scendere, ruotare all’interno dell’inquadratura […] sino a modificare il normale senso di lettura dell’immagine. Oppure lo spazio del cielo può essere percepito come una grande “quinta teatrale”, un fondale davanti al quale e su differenti piani di profondità si collocano le forme di realtà. Quindi l’attenzione è […] rivolta ai segni essenziali della realtà che trasferiscono la struttura visuale dell’immagine fotografica al di fuori del realismo paesaggistico tradizionale (Cresci 2022, p. 60).
Gli stilemi della rappresentazione sono messi in discussione: la linea dell’orizzonte è obliqua o impercettibile o assente (un paesaggio in discesa o in salita o senza profondità di campo [fig. 2]); la terra e la strada occupano più dei due terzi della cornice [fig. 3]; le figure umane sono spezzate o si confondono con l’ambiente; le case riempiono l’intera cornice senza spazi vuoti; l’erba copre per metà gli edifici esaltando l’effetto bidimensionale; i campi arati sono lunghi e colmi di linee (come le «sterminate pianure americane. Forse perché in nessun posto come questo l’America è tanto vicina: è tutta nella valigia piena di fotografia dell’emigrante», Cresci 2022, p. 18) [fig. 4]. Rinnovare la visione per rinnovare l’autocoscienza di Tricarico. Queste foto superano la funzione di semplice rilevazione territoriale proprio grazie alla metodologia della progettazione partecipata che si rivela bilaterale, dato che il fotografo è coinvolto al pari della comunità. Cresci crea un legame con persone e spazi, sedimenta memorie e ricordi, eredita tradizioni e cultura (insider) pur mantenendo uno sguardo da esterno fatto di studium e punctum, direbbe Roland Barthes ([1980] 2016).
2. Viaggio in Lucania
Alla Basilicata Cresci dedica diversi lavori tra gli anni Settanta e Novanta, tra cui Ritratti reali (1972), Matera (1977-1979), Misurazioni, fotografia e territorio. Oggetti, segni, analogie fotografiche in Basilicata (1979), L’archivio della memoria. Fotografia nell’area meridionale (1980), La terra inquieta (1981), Basilicata. Immagini di un paesaggio imprevisto (1983), Attraverso l’Italia (1987), Matera, luoghi d’affezione (1992).
Cresci opera in una regione molto fotografata e che solo un decennio prima del Quaderno del Piano è stata immortalata da fotoreporter come Cartier-Bresson, Dan Weiner, Esther Bubley per effetto di Cristo si è fermato ad Eboli (1945) di Levi. La ricerca fotografica di Cresci sfugge, però, a qualsiasi documentazione pietistica (il Sud bisognoso e sottosviluppato) o monumentale (tipicamente italiana, si pensi ai Fratelli Alinari) aprendosi a narrazione, sperimentazione, arte e scienze umane.
La fotografia è un medium che comunica, un linguaggio da sperimentare, uno strumento di partecipazione. Solo così è possibile rapportarsi prima al paesaggio tricaricese, intriso di segni storici e culturali ma statico, e poi a quello contemporaneo lucano, risultato di una mutazione antropologica: «Mi interessa comunicare con la fotografia non più il senso elegiaco del tempo trascorso che li aveva affascinati [i viaggiatori del Grand Tour], quanto piuttosto la realtà di un ‘Mediterraneo liquido’, contemporaneo, in cui il paesaggio si è trasformato insieme agli uomini, insieme alle cose e attraverso la perdita della propria identità storica» (Cresci 2022, p. 20). Quest’ultima affermazione conferma che Cresci appartiene alla generazione di Ghirri e dei «fotografi di ricerca personale» (D’Autilia 2012, p. 253) che lavorano nell’intersezione tra ciò che si guarda e ciò che si è. Esterno più interno, storia più autobiografia: scrive Ghirri. «Il mio lavoro è là fuori, ma visto dall’interno»: scrive Cresci (2022, p. 34).
Proprio Ghirri, promotore della nuova «scuola italiana di paesaggio», coinvolge Cresci in uno dei progetti interdisciplinari e multimediali più importanti della fotografia italiana contemporanea: Viaggio in Italia (1984). Motivati dalla «non facile definizione della identità culturale italiana in relazione alla complessità del suo paesaggio» (Valtorta 2013, p. XV), i fotografi che prendono parte al progetto viaggiano in specifiche zone della penisola – Cresci, ovviamente, in Basilicata – prediligendo un’Italia marginale, inedita e non stereotipata. Ne risultano centinaia di foto, dieci capitoli tematici, un catalogo e una mostra itinerante da Bari a Bologna. Le foto del viaggio in Lucania sono incluse nei capitoli A perdita d’occhio e Margini e mostrano come Cresci (outsider e insider) cerchi nel paesaggio segni, geometrie, forme del microcosmo lucano, rapportandole alla complessa stratificazione (antropizzazione) del paesaggio contemporaneo [fig. 5].
Camminare, esplorare, vedere, rivedere, conoscere, ricordare prima ancora che fotografare: il paesaggio contemporaneo si racconta con «un’esperienza fortemente soggettiva, ma ricca di implicazioni oggettive nello sviluppo di un metodo di ripresa che non poteva prescindere dai tempi lunghi della conoscenza del soggetto» (Cresci 2017, p. 236). Senza mai sovrapporre sé stesso alla realtà fotografata e senza avere la pretesa di caricare un’immagine di significati immutabili, perché il paesaggio e l’umanità che lo vive non sono immutabili. Cresci ha sperimentato questa idea negli anni Settanta con i foto-collage della serie Un po’ di terra in cielo un po’ di cielo in terra. Si tratta di foto in bianco e nero del paesaggio lucano modificate (tagli, vuoti, inserti, spostamenti) e colorate solo in alcune parti. Come altri artisti contemporanei che intervengono sul paesaggio per riflettere sulla stessa idea di rappresentazione (Jodice, Gordon Matta Clark, David Hockney, ecc.), il fotografo genovese rielabora alcune immagini manipolando il paesaggio, trattandolo come materiale grafico, scomponendolo, mescolandone i pezzi, sovvertendone la bidimensionalità [fig. 6].
In definitiva, Cresci mescola le arti visive a questioni antropologiche e sociologiche, la tradizione europea (documentazione di una realtà che sta per scomparire in stile Eugène Atget) a quella americana (scoperta del territorio in stile Ed Ruscha ed Evans), lo sguardo da visitatore a quello di abitante, la fotografia di ricerca a quella partecipata, avvicinandosi alle persone e al paesaggio e avvicinando il paesaggio a chi guarda la fotografia.
Bibliografia
R. Barthes, La camera chiara. Note sulla fotografia [1980), trad. it. di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 2016.
C. Benigni, Viaggiatori ai margini del paesaggio. Ghirri, Barbieri, Basilico, Chiaramonte, Cresci, Guidi, Jodice, Milano, La nave di Teseo, 2024.
M. Cresci, Misurazioni. Fotografia e territorio, Matera, Edizioni META, 1979.
M. Cresci, La fotografia del no, Bergamo, GAMeC Books, 2017.
M. Cresci, Matrici. L’incertezza del vero, Milano-Udine, Mimesis, 2022.
M. Cresci, ‘Bio’, < https://www.mariocresci.it/bio> [Accessed 27 July 2024].
G. D’Autilia, Storia della fotografia in Italia, Torino, Einaudi, 2012.
P. Dell’Aquila, ‘Il paesaggio dei fotografi Una ricognizione sulle immagini della Basilicata’, in P. Fuccella, A. Labella, E.M. Lavorano (a cura di), Note di storia sul paesaggio agrario della Basilicata tra XIX e XXI secolo, Rionero in vulture (PZ), Calice Editori, 2010, pp. 209-221.
G. Doti, ‘La conquista della realtà: fotografia e urbanistica in Italia tra ricostruzione e crisi energetiche (1945-1979)’, in A. Berrino e A. Buccaro (a cura di), Delli Aspetti de Paesi. Vecchi e nuovi Media per l’Immagine del Paesaggi, Tomo I, Napoli, Cirice, 2016, pp. 529-538.
Il Politecnico, Quaderno del Piano, a cura del gruppo di elaborazione del Piano Regolatore Generale (Mario Cresci, Aldo Musacchio, Ferruccio Orioli e Raffaele Panella), Tricarico, 1967.
A.C. Quintavalle, ‘Mario Cresci, intellettuale organico’, in M. Cresci, Segni migranti. Storie di grafica e fotografia, Roma, Postcart, 2019, pp. 22-29.
A. Russo, Storia culturale della fotografia italiana. Dal Neorealismo al Postmoderno, Torino, Einaudi, 2011.
R. Valtorta (a cura di), Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea, Torino, Einaudi, 2013.