5.3. Incroci di sguardi: il Barbablù di Plath, Hughes, Heaney

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«[…] tutto, nell’assieme, è assai bello in quei poetici arabeschi che fabbricò da antiche fiabe».

F. Schlegel, Frammenti dell’Ateneo, 418

 

 

Commenterò tre poesie, di altrettanti poeti di lingua inglese del secondo Novecento, entro le quali la fiaba di Barbablù emerge come tema centrale, significativa allusione o ipotesto strutturante. Si tratta di Bluebeard dell’americana Sylvia Plath (testo scritto prima del 1956 e incluso negli Juvenilia della poetessa), Fairy Tale dell’inglese Ted Hughes (da Birthday Letters, 1998) e Blackberry-Picking dell’irlandese Seamus Heaney (da Death of a Naturalist, 1966).

I poeti in questione erano legati da stretti rapporti affettivi e professionali. Plath era stata sposata con Hughes dal 1956 al 1963, anno in cui si tolse la vita per ragioni non chiarite, ma che includono il fallimento del suo matrimonio. Per molti osservatori – a cominciare dalla romanziera Emma Tennant, altra ‘vittima’ di Hughes che lo rappresentò come Barbablù nel memoir Burnt Diaries (1999) – Hughes fu anzi un’autentica reincarnazione dell’orco di Perrault, che, con la sua dubbia etica relazionale, avrebbe causato la morte di Sylvia e indotto a un copycat suicide la donna che di Sylvia aveva preso il posto, Assia Wevill.

Quanto a Heaney, in seguito amico e collaboratore di Hughes, per sua ammissione si appassionò alla poesia contemporanea dopo aver letto, da studente a Belfast, il già affermato animal poet dello Yorkshire, del quale ammirò soprattutto la capacità di congiungere opposte tradizioni e culture: poesia anglo-sassone e post-chauceriana, cultura dialettale e cultura nazionale ufficiale. Di Plath, invece, Heaney fu occasionale critico e sapiente intertestualizzatore.[1]

 

1. Il bluebeard di Sylvia Plath: piccoli mostri e stanze oscure

I am sending back the key
that let me into bluebeard’s study;
because he would make love to me.
I am sending back the key;
in his eye’s darkroom I can see
my X-rayed heart, dissected body:
I am sending back the key
that let me into bluebeard’s study.
S. Plath, Bluebeard, in Ead. 1989, p. 305

 

Questo raffinato esercizio giovanile è composto da otto versi monorimi terminati in [i] e racchiusi da un’envelope. Per envelope, ‘busta’, s’intende la cornice determinata dalla ripetizione, a inizio e fine testo, di uno o più versi uguali (qui, vv. 1-2, 7-8). La trouvaille di Plath consiste nel fatto che la sua ‘busta’ contiene una lettera. La poesia è una lettera con cui l’io poetico accompagna la restituzione della chiave della stanza segreta (nella fiaba il luogo dove Barbablù nasconde i cadaveri delle mogli uccise). A chi è indirizzata la lettera-poesia? Il lettore non funge da primary addressee: è solo chiamato a testimoniare l’espletata restituzione della chiave; e neanche Barbablù pare il diretto destinatario della lettera. Con tono ostentatamente impersonale e burocratico, l’io poetico dice ‘restituisco’, non ‘ti restituisco’. E parla di Barbablù in terza persona. Malgrado l’io poetico non si degni di rivolgerglisi direttamente, la poesia-lettera ha comunque Barbablù, il proprietario della chiave, come implied addressee: un destinatario – prima diminutio dell’uxoricida seriale – indegno di allocuzione diretta e di sciali emotivi da parte del mittente. Seconda diminutio, il nome dell’orco è sprezzantemente minuscolizzato: bluebeard.

Anche la litania delle monorime sottolinea, del resto, il tedio delle pratiche interazionali che regolano i rapporti fra i sessi, la prevedibilità dei comportamenti iterativi del maschio: «he would make love to me» (v. 3). La curiosità che, secondo molti commentatori della fiaba archetipa, motiva l’eroina di Perrault, qui non ha ragione di esistere. Sylvia conosce in anticipo ciò che si nasconde dietro quella porta, e, come direbbe Eliot, pre-sofferse tutto.[2] La chiave può quindi essere restituita. Non c’è alcun segreto da scoprire.

La poesia parla inoltre di uno studio, non della solita camera, come a sottolineare che il maschio si attiene a una procedura sistematica, da protocollo scientifico. Se entrasse nello studio, la donna sarebbe reificata, passata ai raggi X. Come la Sylvia empirica, che subisce l’elettroshock e patisce l’asimmetria di genere imposta dal prepotere accademico maschile, l’io poetico si pre-vede medicalizzato, sezionato. Sa che l’aspetta uno sparagmos («dissected body», v. 6), uno smembramento e sacrificio rituale.

Secondo l’imagologia della middle class americana anni Cinquanta, Sylvia doveva rinunciare alla propria ‘nomadicità’ di soggetto in libera evoluzione, per chiudersi in quella che Montaigne chiamava la gabbia d’oro del matrimonio: essere moglie, non poeta; oggetto, non soggetto ocularizzatore. Ma Sylvia trasgredisce. E la sua più audace trasgressione non è rifiutarsi di entrare nello studio di Barbablù, bensì scrutare dentro la vera stanza proibita: la camera oscura («darkroom», v. 5) che si apre dietro l’occhio maschile, dove ella scorge le tenebre (dark room) della routinaria arroganza dell’orco. Eresia visiva, rovesciamento delle consuete pratiche di ocularizzazione che comporta un rovesciamento culturale.

 

2. La versione di Ted: Sylvia come Barbablù di se stessa

Fairy Tale, palpitante filza di sessantatré prosastici non-versi, è tratta da Birthday Letters (1998), la raccolta in cui Hughes, dopo un riserbo durato oltre trent’anni, finalmente dice la sua sul rapporto con Sylvia Plath. Il testo interpreta allegoricamente la vicenda della coppia rielaborando due fiabe, Barbablù e La fata dell’alba, un racconto folclorico, quest’ultimo, assai diffuso nell’Europa dell’Est e tradotto in inglese da Andrew Lang [fig. 1].

In Fairy Tale ruolo e funzione dei personaggi della fiaba di Perrault vengono mischiati e ridefiniti. Intanto, a differenza di quanto accade nella tradizione, è una figura maschile, il poeta, che funge da quest hero, soggetto curioso e oltrepassante. La ‘funzione Barbablù’ è inoltre svolta da due personaggi: Sylvia, che ha annientato i suoi «earlier lovers» (v. 18) (in Hughes 2003, p. 1146) e custodisce gelosamente un segreto nella inaccessibile quarantanovesima stanza del proprio palazzo (la sua anima); ed il padre di Sylvia, l’incubo notturno della poetessa, «the ogre» che, con la sua anaffettiva foreigness, le ha instillato l’odio per il maschio [fig. 2].

Ted ha accesso a quarantotto stanze del palazzo (la sorridente vita diurna di Sylvia), ma non all’ultima camera della sofferta esistenza psichica notturna della compagna (il numero 49 rimanda, secondo varie tradizioni, incluso l’esoterismo di John Dee, alla conoscenza perfetta). Se, nella quarantanovesima stanza esplorata, Petru, l’eroe della Fata dell’alba, trova infine la creatura eponima e il pozzo della sapienza cosmica, al culmine della cerca Ted accede invece alla completa conoscenza di Sylvia. Il poeta non attinge a questo sapere ultimo da un magico pozzo, ma precipitando egli stesso nell’abisso («abyss», v. 63) insieme al suo sinistro doppio, l’orco-daddy, l’ombra che Sylvia rifugiava ostinatamente in fondo alla sua anima. Appena il segreto è verbalizzato, l’orco sprofonda con Ted, il quale sconta così l’aver nietzscheanamente guardato troppo a fondo nell’abisso. Senonché, mentre sta per precipitare, Ted inciampa («tripped», v. 61), come per fatalità, nel cadavere di Sylvia.[3] Insomma, la sorte di Sylvia-Barbablù fu decisa da anamnesi e destino. Hughes si riconosce il solo torto di avere amato un’altra donna, ovvero aver spalancato la stanza proibita e messo a nudo la vulnerabile intimità psichica di Sylvia usando un filo d’erba come magica chiave (v. 57), un passe-partout che in realtà rappresenta Assia Wevill.[4] Giochi lugubri dell’amore e del caso. Imperterrita riaffermazione della vita nonostante tutto: nonostante l’abbraccio con l’Unheimlich da parte dell’improvvido soggetto scopico, cui basta uno sguardo sull’orrore («glimpsed», v. 60) per perdersi dentro di esso.

 

3. Blackberry-Picking: Heaney Barbablù della natura

 

for Philip Hobsbaum

 

Late August, given heavy rain and sun
For a full week, the blackberries would ripen.
At first, just one, a glossy purple clot
Among others, red, green, hard as a knot.
You ate that first one and its flesh was sweet
Like thickened wine: summer’s blood was in it
Leaving stains upon the tongue and lust for
Picking. Then red ones inked up and that hunger
Sent us out with milk cans, pea tins, jam-pots
Where briars scratched and wet grass bleached our boots.
Round hayfields, cornfields and potato-drills
We trekked and picked until the cans were full,
Until the tinkling bottom had been covered
With green ones, and on top big dark blobs burned
Like a plate of eyes. Our hands were peppered
With thorn pricks, our palms sticky as Bluebeard’s.
 
We hoarded the fresh berries in the byre.
But when the bath was filled we found a fur,
A rat-grey fungus, glutting on our cache.
The juice was stinking too. Once off the bush20
The fruit fermented, the sweet flesh would turn sour.
I always felt like crying. It wasn’t fair
That all the lovely canfuls smelt of rot.
Each year I hoped they’d keep, knew they would not.
S. Heaney, Blackberry-Picking, in Id. 1990, p. 5

 

Blackberry-Picking consta di dodici distici a base pentametrica, entro cui ricorrono i proverbiali, schioccanti monosillabi ascritti all’Heaney-speak dal dedicatario del testo, il poeta e critico Philip Hobsbaum. Nella prima parte della poesia (vv. 1-16), Heaney, auctor adulto, rievoca le gesta infantili dello Seamus agens e, in particolare, il sensuale piacere legato alla raccolta delle more. Il piccolo eroe poetico e i suoi sodali, come tanti Barbablù (v. 16), raccoglievano le more con un frisson autenticamente erotico («flesh», v. 5; «tongue», «lust», v. 7), fino a spremerne un succo simile al sangue. Imprese di un’efferatezza degna del sanguinario archetipo di Perrault.

Nella seconda parte del testo (vv. 17-24) si ricorda invece che i ragazzi depositavano le more nei contenitori deputati, dove esse presto fermentavano e si coprivano di una lanugine repellente, fino a maleodorare e farsi, da dolce vino che erano, succo acidulo. Una mutazione che avvilisce gli imberbi sanguinari. Ogni anno, i piccoli Barbablù sterminano una serqua di ‘mogli naturali’, le chiudono nel loro palazzo (una stalla), sperando di custodirne l’originaria dolcezza, e ogni anno esse li deludono. Ogni anno, la natura promette dolcezza e rende poi marciume. Ciò spegne nel giovane Heaney l’amore per la natura, causando la precoce Death of a Naturalist [fig. 3].

Gli inquietanti occhi delle more-mogli (v. 15) continueranno tuttavia a fissarlo e affascinarlo, malgré lui, per il resto del suo percorso di poeta, Barbablù resipiscente. La rapida visione dell’orco colta dallo sguardo di Ted lo ossessionerà per la vita. Lo sguardo gettato da Sylvia sul secretum mascolino ne segnerà in perpetuo la fragilità affettiva. Nelle rivisitazioni della fiaba di Perrault da parte dei tre poeti, vedere è una condanna o una reprobazione: è vedere troppo. Sottrarsi all’egemonia dello sguardo, di Barbablù o delle sue mogli, magari per figgere gli occhi sul mostro, significa svuotare la fiaba della sua valenza pedagogica e potenziarne l’ambiguità. Non a caso, intorno agli anni Sessanta, della cui cultura emancipatoria i tre autori sono sostanzialmente figli, si parlò di didassi e ricerca come anti-pedagogia. Le favole cessavano di essere ‘libretti di istruzioni’ e diventavano mito soggettivo, controsguardi sul mondo e sull’io. Continuavano, come dice Benjamin, a contenere ‘un qualcosa di utile’, ma ormai esistenzialmente sperimentabile solo a prezzo di decisioni arrischiate.

 

 

Bibliografia

J. Bate, Ted Hughes: The Unauthorised Life, London, William Collins, 2015.

S. Benson, Cycles of Influence: Fiction, Folktale, Theory, Detroit, MI, Wayne State U.P., 2003.

S. Heaney, New and Selected Poems 1966-1987, London, Faber, 1990.

T. Hughes, Collected Poems, London, Faber, 2003.

D. O’Connor, Ted Hughes and Trauma: Burning the Foxes, London, Palgrave Macmillan, 2016.

S. Plath, Collected Poems, London, Faber, 1989.


1 In particolare, Blackberrying (da Crossing the Water, 1971) di Plath è ripresa da Heaney in due poesie: Blackberry-Picking e North (1975), la title-poem della sua raccolta più nota.

2 Condivido l’interpretazione di Stephen Benson (2003, p. 202), secondo la quale l’io poetico rifiuta la chiave ‘magica’ ancor prima di entrare nella stanza.

3 Sicché si è potuto commentare: «Birthday Letters is plagued by Sartrean ‘Bad Faith’, repeatedly denying free will in the face of the cosmos» (O’Connor 2016, p. 172).

4 Non a caso il passe-partout è una «skeleton key» (v. 55), definizione che evoca equivocamente la morte. Sull’episodio del filo d’erba cfr. Bate 2015, pp. 177-194.