«[…] tutto, nell’assieme, è assai bello in quei poetici arabeschi che fabbricò da antiche fiabe».
F. Schlegel, Frammenti dell’Ateneo, 418
Commenterò tre poesie, di altrettanti poeti di lingua inglese del secondo Novecento, entro le quali la fiaba di Barbablù emerge come tema centrale, significativa allusione o ipotesto strutturante. Si tratta di Bluebeard dell’americana Sylvia Plath (testo scritto prima del 1956 e incluso negli Juvenilia della poetessa), Fairy Tale dell’inglese Ted Hughes (da Birthday Letters, 1998) e Blackberry-Picking dell’irlandese Seamus Heaney (da Death of a Naturalist, 1966).
I poeti in questione erano legati da stretti rapporti affettivi e professionali. Plath era stata sposata con Hughes dal 1956 al 1963, anno in cui si tolse la vita per ragioni non chiarite, ma che includono il fallimento del suo matrimonio. Per molti osservatori – a cominciare dalla romanziera Emma Tennant, altra ‘vittima’ di Hughes che lo rappresentò come Barbablù nel memoir Burnt Diaries (1999) – Hughes fu anzi un’autentica reincarnazione dell’orco di Perrault, che, con la sua dubbia etica relazionale, avrebbe causato la morte di Sylvia e indotto a un copycat suicide la donna che di Sylvia aveva preso il posto, Assia Wevill.
Quanto a Heaney, in seguito amico e collaboratore di Hughes, per sua ammissione si appassionò alla poesia contemporanea dopo aver letto, da studente a Belfast, il già affermato animal poet dello Yorkshire, del quale ammirò soprattutto la capacità di congiungere opposte tradizioni e culture: poesia anglo-sassone e post-chauceriana, cultura dialettale e cultura nazionale ufficiale. Di Plath, invece, Heaney fu occasionale critico e sapiente intertestualizzatore.[1]