Martin Scorsese, Hugo Cabret

di

     

Hugo Cabret (Asa Butterfield) e suo padre (Jude Law)Per il suo ventiduesimo lungometraggio Martin Scorsese ricomincia dal graphic novel di Brian Selznick, The invention of Hugo Cabret (La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, Mondadori, 2007) e torna sui passi del cinema di George Méliès, servendosi della più avanzata tecnica 3D (il CPG Certified). La profondità è, in prima battuta, il trait d’union fra il maestro di Flushing ed il mago di Montreuil (cioè il luogo dove, nel 1897, Méliès aveva costruito il suo laboratorio per le riprese): basti leggere come il cineasta francese, in alcuni scritti, propugni una fotografia capace di «distaccare» gli elementi principali da quelli secondari. Scorsese metabolizza l’assioma applicandolo alla prospettiva di Gare Montparnasse – luogo già efficacemente rappresentato nei disegni di Selznick – dove l’elemento spaziale è fondamentale e tuttavia privo di quel minaccioso incombere che lungamente ha assediato il protagonista scorsesiano. La stazione parigina non è solo metafora di destini umani che s’incrociano fuggevoli, ma anche, più significativamente, il posto in cui i vecchi (Monsieur Frick e Madame Emile) e i giovani (l’ispettore Gustav e la fioraia Lisette) possono ancora innamorarsi; questi personaggi, ibridi tra il colorismo di Tim Burton e le moltitudini di Fellini, ricordano da vicino i bizzarri teatranti (folletti, nani, fate) del teatro di féeries, gli spettacoli di magia e prestidigitazione dell’Ottocento che Méliès traspose sullo schermo dopo la folgorante visione del Cinématographe Lumiere (era il 1898), descritti dallo stesso regista nei Documents pour completer l’histoire du Théatre Robert-Houdin.

Centro nevralgico del testo filmico è il piccolo Hugo Cabret, abilissimo nel riparare qualsivoglia meccanismo e non meno brioso appassionato di cinema: dunque attento osservatore. Nel libro di Selznick il cinefilo è invece Étienne, ragazzo mezzo cieco che studia per diventare operatore, un personaggio illuminante ma grande assente del film, dove invece viene reiterato quell’insistito scrutare del nostro protagonista attraverso le serrature, gli ingranaggi, i grandi numeri degli orologi di Gare de Montparnasse. In simbiosi col piccolo Pawel (Wojciech Klata) di Dekalog, jeden (Decalogo 1, di K. Kiesloswki, Polonia, 1988) che occhieggia il padre professore framezzo le pile di libri e i banchi universitari – i due ragazzetti si somigliano parecchio –, le soggettive di Hugo non ci restituiscono una visione frammentata della realtà bensì focalizzano le cose maggiormente importanti: l’aggiustare un misterioso automa (lascito del padre) con l’aiuto dell’amica Isabelle e il sollecitare l’ex cineasta Méliès, ora giocattolaio, a ricordare il glorioso passato. L’istinto di Hugo, spettatore accorto ed educato allo sguardo, inevitabilmente s’indirizza sulla vicenda di un vecchio sognatore che subisce, per converso, i guardamenti dell’automa-fantasma venendone perseguitato: si veda l’emblematica sequenza in cui Méliès sfoglia velocemente il taccuino ‘animando’ i disegni del robot, che si rivolge verso di lui. La realtà delle cose pare compenetrata nella struttura dell’ingranaggio (perfino la gamba dell’ispettore Gustav è tutta rotelle e giunture) e la ferrigna marionetta – gelida ed inquietante nei carboncini di Selznick, umanizzata e dunque meno efficace nel film – ammonisce l’uomo di cinema, che tuttavia conosce l’ossessione così a fondo da esorcizzarla, manipolandone le intessiture. Méliès rimaneggiava gli avvenimenti storici (L’affaire Dreyfus, 1899; Le couronnement du roi d’Angleterre Edouard VII, 1902), profanava giocosamente i temi religiosi (La tentation de Saint Antoine, 1898; Christ marchant sur les eaux, 1908), sconfiggeva i mostri col montaggio (arresto della ripresa e sostituzione del soggetto). Scorsese, a sua volta, mischia i pezzi dell’intera opera mélièsiana in una sinfonica messa in serie finale – riconosciamo Voyage dans la Lune (1902), Le mélomane (1903), Voyage à travers l’impossible (1904) – cui idealmente si allacciano, a nostro dire, le ‘visioni’ di Hugo – una sovrapposizione tra le strade di Parigi e un’enorme ruota dentata, i sogni che mischiano gli accadimenti reali (il deragliamento di Montparnasse nel 1895) con i film (L’arrivée d’un train en gare de La Ciotat, 1896), i disegni di Méliès che si animano sospesi a mezz’aria.

Risulta evidente come il contemporaneo 3D costruisca la propria ragion d’essere quasi tornando alle origini della settima arte. Non è un caso: frugando tra le immagini archetipiche del muto, il cinema dell’oggi, in debito di stupore verso lo spettatore, tenta di risemantizzare la totalità del visibile tramite l’amplificazione tridimensionale, proseguendo così l’ambizione, propria del cinematografo del Novecento, a riprodurre il sogno degli uomini dilatandone la dimensione visiva.

Con qualche sbavatura di autocelebrazione, Hugo Cabret, squisitamente metonimico e volante, si fa testimone di un mondo dove bandita è la fuggevolezza, prepotente la memoria.