Romeo Castellucci, Giulio Cesare. Pezzi staccati

di

     

 

ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος,

καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν,

καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος

Giovanni 1, 1

 

«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». In principio, dunque, la parola. Il Vangelo di Giovanni è pervaso da questo λόγος divino: «Se perseverate nella mia parola» (Gv 8, 31); «Se uno osserva la mia parola» (Gv 8, 51); «Chi ascolta la mia parola» (Gv 5, 24). Si tratta del Verbo creatore attraverso cui il mondo tutto viene plasmato: «Dio disse: “Sia la luce!” E la luce fu» (Gn 1, 3).

In principio è la parola, la parola è Dio. Ma ne siamo proprio sicuri?

L’occidente per lungo tempo si è ingozzato di λόγος arrivando ad affermare che «Tutto ciò che è razionale è reale» ma nel secolo breve la disfatta è stata tematizzata, la notte (della ragione) è giunta -portando con sé nuove (in)certezze: «Non chiederci la parola […] sì qualche storta sillaba». E di-storto è il verbo che possiamo recuperare nella messinscena del Giulio Cesare. Pezzi staccati di Romeo Castellucci, storico allestimento della Socìetas Raffaello Sanzio (1997), riproposto al CRT Teatro dell’Arte di Milano (15-20 marzo).

Alla tradizionale struttura del teatro (con palcoscenico e platea) viene preferito il salone d’onore della Triennale: aula rettangolare di vaste dimensioni capace di accogliere un centinaio di persone, per lo più giovani, tutti seduti su poche file di cuscini bianchi se non, addirittura, per terra. Nella parte che intuiamo essere riservata all’azione un solo piedistallo bianco con su quanto occorre per la prima sequenza drammatica: il monologo del ciabattino.

Il primo attore (Sergio Scarlatella) è l’unico ad essere munito di ‘badge’ con nome identificativo «…vskji», residuo di una probabile apocope sul nome del grande maestro russo autore del (più) celebre metodo di recitazione. Dopo aver preso posizione accanto al piedistallo …vskji attiva la sonda endoscopica e comincia a ‘spiare’ alcuni particolari del suo corpo: in un clipeo sul fondo della scena vediamo la proiezione – distorta per l’eccessiva vicinanza – dapprima del nome, poi della barba, dell’orecchio, della bocca e quindi del naso. La sonda penetra le narici e scivola sino alla glottide per svelare il backstage del processo fonatorio e mostrarci, così, la fabbrica della parola, le sue viscere, la sua origine; se crediamo infatti che in principio era il verbo non è bene dimenticare che «il λόγος si è fatto carne» (Gv 1, 14). La parola è carne ed è indissolubilmente legata al corpo, l’inchiostro viene dopo. Ciò che la sonda ci restituisce è una cavità abitata: muscoli e membrane che si muovono attivando la meccanica della voce; vediamo il processo non già il risultato, il mattone e non l’intonaco. La parola è nuda, esposta, fragile.

Il secondo segmento ha come protagonista Cesare (Gianni Piazzi), vera e propria vittima sacrificale. L’attore entra scalzo e avanza a piccoli passi, come anziano bisognoso di un appoggio; la tunica rosso scarlatto non nasconde la sua debolezza. Non ha parole da consegnare, Cesare, solo qualche movimento scomposto e repentino, sempre puntellato da un impulso sonoro (il rumore di fondo richiama il travaglio di un vulcano in attività). Cesare si rivolge forse più a se stesso che a noi, è (quasi) un momento di linguaggio egocentrico in cui gesto e suono si rincorrono. Forse, come il Moses di Schönberg (messo in scena da Castellucci all’Opera Bastille nell’ottobre 2015), vorrebbe gridare «O Wort, du Wort, das mir fehlt!» (O parola, parola che mi manca).

Coup de théâtre: viene portato in scena un magnifico stallone nero; uno degli attori (con fatica studiata) gli fa prendere posizione, di profilo rispetto al pubblico. Il manto dell’animale diventa pagina del vecchio testamento e con vernice bianca sono tracciati alcuni caratteri: «Mene, Tekel, Peres». L’enigma è tratto dal quinto capitolo del libro di Daniele e si riferisce alle dure parole che il Dio di Israele rivolge al Re Baldassàr, figlio di Nabucodònosor, per aver reso lode «agli dèi d’argento, d’oro, di bronzo, di ferro, di legno, di pietra, i quali non vedono, non odono e non comprendono» (Daniele 5, 23). Daniele è l’unico che sa interpretare il messaggio divino: «Mene: Dio ha contato il tuo regno e gli ha posto fine; Tekel: tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato insufficiente; Peres: il tuo regno è stato diviso e dato ai Medi e ai Persiani» (Daniele 5, 26-28). Cesare, quindi, come Baldassàr?

La scena si chiude con una sorta di ‘maternità’ in tableau: i quattro attori accerchiano l’impotente dittatore (munito per l’occasione di finta mammella) e, dopo un momento di posa in cui uno prende il latte dal suo capezzolo, in tre lo sigillano dentro la sua tunica. I congiurati, infatti, vogliono non già il suo latte ma il suo sangue. Una volta disposto a terra …vskji trascina la salma a occhi chiusi, tagliando le file degli spettatori (costretti a spostarsi), finché non giunge all’esterno della sala.

Il terzo e ultimo monologo è quello di Marcantonio (Dalmazio Masini), discorso celeberrimo in cui attraverso l’uso dell’arte retorica il militare romano riesce a imporre la sua vittoria. Di quelle parole, però, solo il fantasma: l’attore è laringectomizzato e quindi capace solo di fiati, sibili, gorgoglii di sillabe, frattaglie di verbo. La parola, manipolata, combatte con l’aria, insieme ciò che la afferma e nega, in un doppio piano sonoro in cui si lotta per esistere. Nel frattempo si accende la sequenza di lampade disposta su due piedritti come una ribalta sospesa. Sul fondo ricompare Cesare che dà a Marcantonio una spugna con la quale impiastricciarsi il volto di rosso. Voci registrate si percepiscono dal fuori campo, la scena rimane deserta, le lampade si spaccano una dopo l’altra, con ritmo preciso. A ogni deflagrazione corrisponde una sottrazione di luce. Alla fine il buio. Ci alziamo, ma il vulcano ricomincia a borbottare…

Il teatro di Castellucci è una scuola di insicurezza che fa a meno di staccionate e che assume il limen come luogo privilegiato dell’essere.