Una mostra e uno spettacolo per Fo-Arlecchino

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Premessa

Nell’ambito di Paratissima off si è svolta dal 31 ottobre al 4 novembre 2018 la mostra FO – ARLECCHINO. 33 volte Dario Fo, 33 bozzetti originali a trentatré anni dalla XXXIII Biennale Teatro di Venezia, curata da Sergio Martin negli spazi della galleria d’arte Volume OTTO di via Pinerolo 8, a Torino.

 manifesto evento

Emozionante vedere i 33 bozzetti di Dario Fo creati per dare forma allo spettacolo Hellequin, Harlekin, Arlekin, Arlecchino presentato alla Biennale Teatro di Venezia nel 1985, ma anche consultare la documentazione storiografica teatrale e guardare il video sull’Arlecchino di Fo, a cura di Ferruccio Marotti, e il promo delle prove. C’erano poi maschere e tabarri, forniti dal laboratorio artigianale Balocoloc di Venezia e Orlando: mantelli realizzati su bozzetti di Renato Guttuso. A corredo dell’esposizione tre chiavi di lettura della maschera: il manifesto Arlecchino creato dall’illustratore e scenografo Lele Luzzati per Silvio Bastiancich (fondatore del Teatro Bagatto di Torino); il collage Lotta. Ancora per Dario Fo e Franca Rame di Pablo Echaurren, pittore, fumettista e scrittore divenuto popolare tra i giovani degli anni Settanta per la copertina del best seller Porci con le ali, e figlio del pittore surrealista cileno Roberto Sebastian Matta. Vi si è aggiunta un’istallazione del pittore, scultore e scenografo Vincenzo Fiorito dal titolo Scusi per andare dove dobbiamo andare….

 mostra FO – ARLECCHINO. 33 volte Dario Fo bozzetto Guttuso ‘tabarro’

Non è mancata – considerato il soggetto – la nota gastronomica: Cristian Barbato ha creato appositamente per la mostra gli Sbergnòt de Arlechin, dolcetti ripieni di frutti e ingredienti aromatizzati tipici della stagione autunnale, rivisitati attingendo dalla tradizione culinaria bergamasca. Sbergnòt in bergamasco significa cappello logoro e questi nuovi dolci ricordano la forma del copricapo di Arlecchino. Lo chef non solo li ha fati degustare ma ha presentato un video in cui illustra come eseguire la ricetta https://www.youtube.com/watch?v=sMZkRXmJ_jM&t=29s

Come già detto, il curatore della mostra è Sergio Martin, amico intimo e collaboratore di Dario Fo e di Franca Rame, nonché co-curatore, insieme a Isabella Quarantotti De Filippo, del volume Eduardo De Filippo. Vita e opere 1900-1984 (Mondadori, 1986), cofondatore del Teatro Juvarra e del già Cafè Procope di Torino alla fine degli anni Ottanta, sotto la sua direzione artistica fino al 2003; mentre l’allestitore è il gallerista e artista Gerardo Di Fonzo.

 Franco Quadri, Dario Fo e Sergio Martin, mostra Teatro dell’Occhio, Riccione Dario Fo e Franco Quadri davanti opera di Roberto Sebastian Matta

 

1. L’Arlecchino senza maschera di Fo

Per la copertina del mio libro Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento,[1] dedicato ai due caposaldi del teatro italiano secondo novecentesco – per quanto il più vecchio cominci prima con opere-spettacolo come Sik-Sik, l’artefice magico e Natale in casa Cupiello – ho scelto l’opera Lezione di musica di Gino Severini. Vi si raffigura un Pulcinella con maschera, zuccotto e chitarra e un Arlecchino senza maschera e con flauto di Pan tra le mani.

Anche se, per Eduardo, Fo «è un Pulcinella che si è tolto la maschera»,[2] che lui non si sarebbe mai levata, la fondamentale maschera partenopea non appartiene alla serie di ‘autoimmagini’ dell’attore-autore lombardo: nello zanni e nel giullare di piazza, nel comico dell’Arte, nel Ruzante e in Arlecchino, e in Francesco jullare di Dio, Fo si riconosce come in teatranti protesi a comunicare col pubblico, oltre qualsiasi quarta parete innalzata dal potere, politico e scenico. Persino Eduardo diventa un’autoimmagine; e certamente il nostro fa riferimento alla tradizione comica partenopea, ma attraverso Razzùllo (meno protagonistico dell’arcaico Pulcinella, al quale Fo dedica un grammelot, il Grammelot napoletano di Razzùllo). Tuttavia è vero che i suoi alter ego – o ‘personaggi mediatori’ secondo Meldolesi – si tolgono la maschera, come può farlo però un attore epico, sdoppiandosi. L’esagerazione conferisce alla mimica di Fo il tono del suo atteggiamento emotivo, ma gli consente anche di assumere la strategia dell’‘altro’ e la dimensione extra-quotidiana del volto e dell’evento teatrale. La maschera-volto offre sia all’attore sia allo spettatore la possibilità di attuare un processo di distanziamento dalle situazioni rappresentate, assolvendo così alla funzione di medium nei confronti della mimesi scenica. Un doppio efficace, privo di ambiguità: un segno forte di identità/differenza a sottolineare la coscienza della finzione, elemento saliente dello spettacolo.

Ecco, paradossalmente e nonostante le sue lezioni di teatro sulla recitazione con e senza la maschera nonché il suo elogio dei Sartori, arrivo a pensare che Fo non ami la maschera in quanto protesi, perché questa gli impedisce di valorizzare il suo straordinario andamento mimico. Per esempio, realizza l’effetto di ‘primo piano’ attraverso l’immobilizzazione improvvisa dei lineamenti del viso, volto verso l’alto in modo da porre in rilievo la curvatura della bocca, con gli angoli all’ingiù per il tragico o il patetico parodiato, e all’insù per l’effetto comico di una risata contagiosa. Da quella curva vengono fuori i denti da cavallo (ma anche un po’ mordaci), sovrastati perpendicolarmente da un’altra curvatura importante, quella del naso, mentre gli occhi si strizzano in due brevi fessure oppure, tondi e spalancati, quasi strabuzzanti, sprizzano scintille dal fondo di un’espressione infantile. Non si tratta di una vera e propria deformazione, né di una disarticolazione burattinesca – come invece avviene per la mascella di Totò –, ma di una accentuazione di difetti fisiomimici valorizzata dalla fissità imprevista, sorprendente, e dall’inclinazione della faccia. Del resto, in generale, ai gesti mimici d’espressione pura Fo preferisce quelli referenziali: deittici, iconici e anche simbolici. Indica spesso con gli occhi (usati come faretti o riflettori), richiama attraverso il proprio i volti dei personaggi dei quali sta parlando, sovrapponendo, si direbbe, lineamenti e atteggiamenti altrui ai suoi. È un gioco più sottile di quanto potrebbe sembrare a prima vista, perché Fo non vuole imitare ma alludere, ad ogni livello, della scenografia, dei costumi, della gestica.

 mostra FO – ARLECCHINO. 33 volte Dario Fo

L’attore ricorda come, le prime volte che recitava l’Arlecchino, non si sentisse a suo agio con la maschera: si sentiva come capovolto, un corpo decapitato. Non a caso, nel Prologo al suo Hellequin, Harlekin, Arlekin, Arlecchino del 1985,[3] egli si presenta senza maschera – quelle sartoriane sono appese alle sue spalle – ovvero con la parte superiore del viso dipinta di nero, a fare apprezzare l’effetto di una specie di seconda pelle, e mettendo a fuoco e in chiaro le palpebre (e quindi lo sguardo) e la bocca. Come al solito giustifica ‘storicamente’ la sua scelta, diffondendosi sull’originaria faccia del prototipo (portava un maquillage), sul suo girovagare dall’Italia all’Europa attraverso l’affermazione in Francia di Tristano Martinelli, e sul suo ritorno in Italia solo con Gherardi; una funzione l’Arlecchino, che non solo s’adatta (a suo modo) a ogni parte, ma che contiene gli antichi clowns dei fabliaux, fabulatori e giullari, comici dell’Arte, lasciando tracce ‘diaboliche’ – mediante i lazzi – nel Varietà, nel cinema muto di Max Linder, nello stesso Charlot...

 disegno di Dario Fo, Biennale Venezia

Come al solito Fo si documenta: ne sono convinta; ricordo un Convegno di studi a Mantova su Tristano Martinelli del 1999, cui l’artista non mancò mai, reinventando nella sua performance finale tesi, antitesi e sintesi di quanto aveva sentito (e regalando agli spettatori copie di un suo disegno di Arlecchino che proietta l’ombra d’un omino nero con l’ombrello, disegno che campeggia dietro la mia scrivania). Si documenta, copia e rielabora spesso ribaltando la prospettiva: proprio perché giullari e comici dell’Arte, come i clowns e gli stessi fabulatori del Lago Maggiore diventano ‘autoimmagini’ di una tradizione teatrale della quale Fo si sente privo, e di cui avverte la necessità per sperimentare il ‘nuovo’ nel teatro.

Infatti, l’«autotradizione» (De Marinis) serve a Fo per colmare un vuoto, una discontinuità: quindi la Commedia dell’Arte – ispiratrice dello spettacolo messo in scena per la prima volta il 18 ottobre 1985, al Palazzo del Cinema del Lido di Venezia per la XXXIII Biennale Teatro curata da Franco Quadri – va considerata come stagione della fantasia dell’attore e come condizione che contrasta le forme e i ruoli codificati del teatro borghese. Si tratta di una fonte soggettiva, cui attingere con l’arbitrio del comico che rielabora materiali e figure della tradizione nel loro valore d’uso, e con l’impertinenza del ‘comico in rivolta’ che specchia la propria situazione presente in quella delle ‘voci eretiche’ del passato, e le fa essere ancora corrosive attraverso nuove incarnazioni. D’altra parte, la tendenziosità di certe inesattezze storiche e la suggestione ideale di tante autoimmagini non mancano di aprire prospettive utili quando rivelano un livello più profondo di coerenza: nel caso di un attore-autore come Fo, capace per quelle vie di ricomprendersi nella dialettica fra passato e presente della condizione attorica, vicenda collettiva del popolo.

Lo spettacolo in questione si suddivide in due atti (o tempi). Il primo esordisce naturalmente con il Prologo (che contiene anche spezzoni di antiprologo, ovvero sfottò nei confronti degli spettatori) e comprende una specie di commedia in commedia, dove tutta l’azione consiste nel tentativo di Marcolfa (Franca Rame) di recitare a sua volta un Prologo, continuamente interrotta da Arlecchino e le altre Maschere, impegnati a metter su un sipario (che manca, e senza il quale – pare – non si può incominciare a rappresentare la commedia). Il secondo atto si articola invece in quadri esemplari: I becchini, La serratura, L’asino e il leone. La struttura dell’insieme, a ben guardare, è epica: non solo Fo, nel Prologo, rivolgendosi agli spettatori si diffonde sulla storia di Arlecchino (di cui indossa già il costume), attribuendogli le proprie caratteristiche di attore-autore (scurrilità, insolenza, gioco politico…) e recitando poi il pezzo noto del fallotropo, ma l’azione successiva procede appunto alternando i vari incipit di Marcolfa – che tuttavia la prima parte della storia della ‘contessa Isabella’, del Magnifico suo sposo e di Eleonora puttana riesce a raccontarla – alle canoniche interruzioni da parte del capo (Arlecchino) e dei suoi aiutanti: portare nel sottopalco un lungo bastone, innalzarlo, e, attraverso una corda i cui capi sono tenuti anche da qualche spettatore, simulare così un sipario che assomiglia all’albero di una nave. Non manca il Capocomico, a farci ripensare a una lontana allusione pirandelliana, dal momento che la commedia non s’ha da fare. Nel secondo atto (come accennato) si succedono brevi azioni accomunate dal sesso, dalla fame e dalla morte, temi tragicomici per eccellenza secondo Fo. In I becchini (l’allusione qui è shakespeariana), che sono poi Arlecchino e Razzùllo, s’intrecciano le riflessioni strampalate dei due sul morto suicida che occuperà la fossa con apparizioni di teschi e scheletri, e perfino di mani scheletriche, ma soprattutto con lo svolgimento di un funerale paradossale cui partecipano la Vedova, suo fratello e suo cognato (innamorato di lei), il suo amante (con una piuma rossa sul cappello) e il prete (innamorato dell’amante). L’intrigo provoca altri tre morti, ma alla fine i superstiti parteciperanno al gran pranzo delle esequie; cui s’aggiungono i teschi, ma non le mani scheletriche perché «L’è un pranzo de’ siòri questo, se magna sénsa mani!» (Arlecchino). La serratura è una divertentissima allegoria erotica, cui partecipano soprattutto Franceschina (ancora la Rame), custode intemerata, appunto, di una vergine serratura, e Arlecchino, che armato di un chiavone, vorrebbe infilarvelo; ma vi partecipano anche i cosiddetti facchini (Razzùllo, Scaràcco e Ganassa) che usano la leva a balanza per sollevare un tavolo su cui sarà posta l’enorme serratura. Sesso e fame si mescolano nei tentativi di Arlecchino di sedurre (con salsicce) Franceschina, la quale per un attimo è attratta dall’Uomo con la chiave d’oro. Un dramma di oggetti: alla fine «El ciavetòn» muore perché senza anima, e Arlecchino commenta: «Oh tragedia d’amore!». Quanto a L’asino e il leone, sono invece gli animali a fare da padroni: qui Arlecchino è un pavido, che entra in scena scappando da cani abbaianti, disprezzato perciò da Franceschina, e preso in giro da Razzùllo e Scaràcco. Dapprima i due compari si travestono da asino, e costringono Arlecchino a riconoscere che l’animale è il padrone. Poi però appare alle spalle della maschera – di nome e di fatto, perché qui eccezionalmente e coerentemente il preteso eroe indossa la mezza maschera (da gatto) – un leone vero (si fa per dire) con il quale Arlecchino gioca amabilmente (convinto che si tratti di un altro scherzo) e che gli si affeziona... Quanto ai personaggi-maschera, vi compaiono quelli che l’attore fa risalire ai ‘suoi’ fabulatori, dai quali ha «imparato per lezione orale diretta» le storie «dei villani, classici personaggi di cafoni legati nella tradizione a Pulcinella, ad Arlecchino, alla Marcolfa e alla Franceschina»[4] (Pulcinella escluso).

Con l’incoronazione carnevalesca – e bachtiniana – di Arlecchino incomincia lo spettacolo (canzone: «L’eroe, l’eroe, l’eroe, l’eroe/della vitto-o-ria sia adesso il nostro re [...]»), con il suo scoronamento finisce (canzone: «Zompa, zompa a lo pendjòne, Arlecchino è ’nu gran cojòne [...]»). Eppure, questo «contro ruolo» – nell’occasione stessa della mostra torinese Dario Fo fa l’Arlecchino – 33 volte Dario Fo – proprio per la ricorrenza mitologetica del numero (i disegni sono 33) mi ha fatto pensare all’età (presunta) della morte di Cristo; figura anch’essa facente parte delle autoimmagini di Fo. Ovvero, figura evocata nel corso di falsi dialoghi in cui l’autore del monologo, generalmente un personaggio ‘basso’, fingendo di parlare con Jesus ne disegna nell’aria l’immagine. Penso a La nascita del giullare dov’è Cristo a donare al villano, con un bacio, la parola che «bucherà e andrà a schiacciare come una lama vesciche dappertutto e a dar contro ai padroni, e schiacciarli, perché gli altri capiscano, perché gli altri apprendano, perché gli altri possano ridere (riderci sopra, sfotterli)»;[5] e ancor più al Matto sotto la croce, dove il Cristo è reinventato da Fo in tutta la sua potenza fisiologica:[6] l’attore si erge maestoso a occhi sgranati e bocca spalancata verso il proscenio. Eppure, creatura funzionale, se in La resurrezione di Lazzaro delude apparendo «un fiulin, boia».[7]

Nello spettacolo su Arlecchino la figura del Cristo non compare, a meno che non si riconosca anche in questa maschera perlopiù senza maschera non tanto «l’attore come Cristo arlecchino»,[8] secondo Puppa, quanto le vestigia di quel ‘Briccone divino’ cui fa riferimento Eva Marinai nel suo contributo Jesters, tricksters, imagines agentes. Mitologemi e “personaggi mediatori” nella retorica di Dario Fo (in corso di stampa).

Due parole soltanto sui disegni (che prendo in prestito da Carlo Titomanlio): mostrano l’impeto naïf dei dipinti degli anni Novanta, scoprono uno spirito zoomorfo dal piglio veloce e impressivo nei personaggi della Commedia dell’Arte, oppure un erotismo ironico; c’è alla base una ricerca sul gesto e sul colore, attraverso cromie brillanti, sature e quasi espressioniste, ma anche sul dinamismo trasvolante che rispecchia le danze in scena, mentre il segno s’illanguidisce nei ritratti dedicati alla Rame, compagna di vita e d’arte.

 


1 A. Barsotti, Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento, Roma, Bulzoni, 2007.

2 Da un’intervista a Gigi Dall’Aglio (che ha lavorato con Eduardo a una nuova versione del Figlio di Pulcinella per la Compagnia del Collettivo) del 15 marzo 1987, citata in S. De Matteis, ‘Identità dell’attore napoletano’, Teatro e Storia, V, n. 1, aprile 1990, p. 104n.

3 Faccio riferimento al libro più video, D. Fo, Arlecchino. Hellequin Harlekin Arlekin, con Dario Fo e Franca Rame, regia video di Ferruccio Marotti, Teatro Tenda, Roma, 1° dicembre 1985; testo e traduzione a cura di Franca Rame, Torino, Einaudi, 2011.

4 D. Fo, Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione, con L. Allegri, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 19.

5 Id., Mistero Buffo, Torino, Einaudi, 1977, p. 80.

6 P. Puppa, Il teatro di Dario Fo. Dalla scena alla piazza, Bologna, Marsilio, 1978, p. 117.

7 D. Fo, Mistero Buffo, cit., p. 110.

8 P. Puppa, Il teatro di Dario Fo. Dalla scena alla piazza, cit., p. 99. Si fa qui riferimento, per l’archetipo di Cristo-Arlecchino ad A. Fontana, ‘La scena’, in Storia d’Italia. Caratteri originali, vol. I, Torino, Einaudi, 1972, pp. 793-795 e a H. Cox, La festa dei folli, Milano, Bompiani, 1971.