Roberto Saviano, In mare non esistono taxi

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Nel volume In mare non esistono taxi (Contrasto, 2019), Roberto Saviano racconta il fenomeno migratorio che interessa il Mediterraneo attraverso un equilibrato connubio tra parole e immagini.

Apre il libro una sezione introduttiva, ‘La grande menzogna’, nella quale l’autore presenta gli obiettivi del lavoro: «Questo libro sarà testimonianza, testimonianza attraverso le parole, ma soprattutto attraverso le immagini» (p. 15). Saviano si sofferma quindi sulle cause delle migrazioni e, dati alla mano, smonta i pregiudizi e le fake news, ricostruendone anche l’origine e il processo di diffusione. Per Saviano, nell’ultimo decennio la percezione del fenomeno migratorio è stata pesantemente influenzata dalla sua rappresentazione nella narrazione politica, che ha reso i migranti vittime mute della propaganda.

A questa lunga premessa iniziale, nella quale necessariamente le parole sono più presenti rispetto alle immagini, segue la sezione centrale del libro, costituita dalle interviste ai fotogiornalisti Giulio Piscitelli, Paolo Pellegrin, Olmo Calvo, Carlos Spottorno, e a Irene Paola Martino, infermiera della nave Bourbon Argos. Le interviste sono intervallate dai testi di Saviano. Tra le pagine delle conversazioni prevalgono naturalmente gli scatti degli autori intervistati; nel resto del libro trovano invece spazio anche fotografie di altri autori, più o meno conosciuti dal grande pubblico. Inoltre, in questa sezione le immagini sono decisamente più presenti, ma non ostacolano e non interrompono mai la lettura; al contrario, la arricchiscono di dettagli anche grazie alle didascalie esplicative. Attraverso le parole e il corredo illustrativo vengono ricostruite le tappe del viaggio compiuto dai migranti dall’Africa all’Europa: l’attraversamento del deserto, l’esperienza nei centri di detenzione in Libia, il viaggio in mare e il salvataggio.

Per Saviano è impossibile raccontare l’immigrazione senza le immagini, innanzitutto perché la fotografia costituisce «l’archetipo della testimonianza» (p. 13) e quindi, come tale, supporta l’informazione, ovvero l’unico strumento che può arginare e sconfiggere il pregiudizio e il razzismo. Gli scatti inclusi nel volume, inoltre, hanno la funzione di restituire un volto ai protagonisti di un fenomeno che di solito è descritto solo in maniera astratta, attraverso dati e statistiche. Come emerge dalle interviste, la fotografia ha anche l’importante compito di colmare la distanza tra chi osserva e chi viene ritratto, cercando di dare concretezza allo sguardo e ai corpi, perché è proprio quando manca questa concretezza che «tutto diventa più astratto ed emerge la paura» (p. 75). La capacità di immedesimarsi nell’altro scatta proprio quando «i numeri si trasformano in persone, che hanno un nome, che esistono, sperano e sognano» (p. 150). Le menzogne, invece, hanno l’effetto di rendere chi le ascolta privo di empatia: ci si rende conto della presenza dello straniero solo quando disturba l’immaginario comune, quando il suo corpo «non denutrito» ci fa pensare che non stia morendo di fame e che, quindi, non abbia il diritto di lasciare il suo paese alla ricerca di condizioni di vita migliori, di un futuro. Eppure i segni sui corpi ci sono: «i cheloidi delle cicatrici, gli occhi accecati da lame e calci, i denti spezzati» (p. 65), i ventri delle donne incinte, le ferite della‘malattia dei gommoni’. Ma ci sono anche le ferite all’anima e alla dignità, molto più profonde, impossibili da notare perché invisibili.

Le conversazioni hanno anche lo scopo di affrontare alcuni temi cruciali del fotogiornalismo: il ruolo della fotografia come testimonianza al giorno d’oggi, il confine tra la necessità di testimoniare e quella di intervenire direttamente in situazioni di pericolo per i soggetti ritratti, l’importanza della bellezza. Nelle parole dei fotogiornalisti prevale un atteggiamento di disincanto nei confronti della funzione che il linguaggio fotografico ha nella nostra epoca: oggi ‘consumiamo’ troppe immagini, e lo facciamo molto velocemente. È frequente la riflessione sull’impatto di due foto di uguale potenza, ma che hanno suscitato reazioni diverse in relazione al differente peso delle fotografie nel momento storico in cui sono state realizzate: l’immagine di Kim Phúc del ’72 in Vietnam e lo scatto che ritrae il piccolo Alan Kurdi nel 2015. La fotografia ha perso qualcosa in termini di portata comunicativa, ed è più difficile che un’immagine fotografica dia una scossa forte alla società, come invece accadeva nel passato. Tutto questo non si traduce, però, in una perdita di fiducia nel mezzo. Permane, come emerge nella conversazione con Paolo Pellegrin, la percezione della fotografia come «un piccolo seme che a volte riesce a impiantarsi nell’altro» e a cambiare le cose (p. 73). La bellezza dello scatto, inoltre, ha un ruolo critico nella comunicazione: è necessaria prima di tutto come forma di rispetto nei confronti di chi viene ritratto, ma – soprattutto nella nostra epoca – anche per catturare l’attenzione del fruitore dell’immagine, per spingerlo a leggere ancora e a documentarsi in autonomia su quanto ha visto.

Nel capitolo conclusivo del volume, Saviano rivolge ai lettori un doppio invito. Il compito dei governi, difficile da realizzare perché non assicura consensi e voti nell’immediato, è garantire un accesso legale sia ai rifugiati che ai migranti economici, per evitare che chi arriva venga ridotto in schiavitù; la presenza in Europa anche di una sola persona che lavora senza diritti equivale a boicottare i diritti di tutti i lavoratori europei, «che sempre più vedranno erodersi le garanzie sociali acquisite in decenni di battaglie» (p. 172). Il nostro compito è invece non rimanere in silenzio; continuare a parlare, anche se gli slogan-menzogna del razzismo sono brevi e facili da assimilare, mentre le parole di chi crede nell’uguaglianza e nell’accoglienza necessitano di tempo e attenzione per l’ascolto; fare tutto ciò che possiamo, anche solo esprimere ciò che pensiamo, perché «il singolo agire, pur se impercettibile, è l’unica strada che accorcia le distanze tra l’impossibilità di cambiare il corso delle cose e il cambiarlo veramente» (p. 145).