Emma Dante, Bestiario teatrale

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Può l’arte precorrere la realtà? Può l’invenzione drammatica auscultare e poi manifestare, nella contemporaneità senza confini e distanze, nell’oggi del ‘liberi tutti’, la ventura perdita di libertà, la privazione di spazio, l’estenuante dilatazione di tempo?

In anticipo sulla catastrofe di fine ventennio, il nostro, che ancora altera la percezione del tempo e l’autonomia negli spostamenti, il teatro di Emma Dante, per anni, da anni, stava già portando in scena il senso claustrofobico del limite, reale o immaginario, dello spazio chiuso, affollato dai vivi e dai morti, del luogo di transito tra le due condizioni.

Il Bestiario teatrale (Rizzoli, 2020) della Dante si è drammaticamente riproposto negli ultimi anni nella realtà di molti; gli incubi proposti dalla regista sono divenuti atroci situazioni familiari deflagrate, orrori consumati nel chiuso di appartamenti; confermando amaramente, ancora una volta, l’universalità e la capacità di scandaglio antropologico della macchina teatrale, quando questa è alimentata da autenticità.

Foto di copertina a cura di Hannah Dare Walker

Bestiario teatrale è una raccolta di ‘drammaturgie per libro’, curata da Anna Barsotti, davvero molto particolare e presenta la produzione dell’autrice palermitana dal primo grande successo di mPalermu del 2001 al più recente Le sorelle Macaluso del 2014, spettacolo che riprende il discorso mai sospeso sulla famiglia, quella siciliana in particolare. I testi teatrali sono introdotti dalla prefazione di Andrea Camilleri, breve e vibrante analisi stilistica dei testi della sua stimata conterranea, e da un dittico di saggi firmati da Giorgio Vasta e da Elena Stancanelli, che descrivono il teatro e la storia della compagnia e incidono nell’intimità quotidiana del lavoro dell’autrice. La Dante stessa, un attimo prima che gli attori prendano la parola, arricchisce il libro con un commento, quasi artaudiano, in cui presenta la missione teatrale dell’attore.

Nel volume, Anna Barsotti, studiosa della primissima ora della scena e del libro della regista, quindi delle dinamiche sceniche e autoriali che vi soggiacciono, sceglie di proporre al ‘lettore di teatro’ i tre ‘filoni’ di narrazione principali che attraversano il percorso teatrale della Sud Costa Occidentale: il percorso familiare, quello fiabesco (al di là del corpus che riscrive le favole) e il classico. Le maglie di questo intreccio sono districate nella postfazione di ampio respiro che segue la raccolta dei testi teatrali.

Il primo filone comprende La trilogia della famiglia siciliana e Le sorelle Macaluso da un lato, Il festino e Cani di bancata, sotto un’altra prospettiva (di famiglie continua a trattarsi, ma con una componente sociale maggiormente presente). All’interno del versante fiabesco possono essere collocati Mishelle di Sant’Oliva, Le pulle. Operetta amorale e Operetta burlesca, testi in cui la favola veicola l’attualità cruda delle periferie e nei quali il travestimento e la questione di genere si mostrano nella loro nuda oscenità/genuinità. Infine, rimanda al classico l’operazione di Verso Medea che volta lo sguardo verso le radici ‘siculo-greche’ dell’autrice e verso l’origine dello stesso gesto teatrale. Ai titoli fin qui citati vanno inoltre aggiunti i Tre monologhi per Carmen Consoli (La sposa zoppa, Eva e la bambola, Il corvo del malaugurio).

Nell’alveo di questo ricco repertorio raccolto in pubblicazione, il lettore di teatro è chiamato costantemente a un esercizio di immaginazione scenica, alla spasmodica ricerca, dentro la trascrizione, di quei corpi vibranti, di quelle urla mute, degli affannosi respiri non scritti, delle musiche che il ricamo testuale perpetuamente evoca. Il ‘libro’ non potrà mai eguagliare la ‘scena’, in particolare nel caso di un teatro di scrittura scenica, di scrittura di corpo, come questo è. Non parliamo infatti di copione o di testo drammatico ma di «trasduzioni o riscritture per la stampa» (Barsotti, Postfazione, p. 419).

La questione della lingua e il lavoro dell’autrice sui testi, effettuato prima della pubblicazione dei ‘copioni’ degli spettacoli, è stato approfonditamente analizzato da Anna Barsotti in La lingua teatrale di Emma Dante (ETS, 2009). La studiosa rintraccia in questa modalità operativa un rimando al panorama del postmoderno che dall’isola di Sicilia si aggancia, per alcune caratteristiche (non per altre), alla drammaturgia contemporanea, o meglio al teatro postdrammatico, come lo definisce Lehmann, e al suo contradditorio rapporto con il testo:[1] il teatro dell’attore-autore Emma Dante, in qualche modo, nega il testo, pur ritornandoci. La Barsotti, analizzando criticamente le varie versioni dei copioni, dei testi e i video dei primi spettacoli della Sud Costa Occidentale, rintraccia un testo in continua evoluzione che viene scritto e riscritto nel corso delle prove e continuamente rivisto durante le repliche: un testo vivente. A variare, seguendo l’evoluzione degli spettacoli e degli attori, sono elementi quali il numero di battute e soprattutto l’uso dell’italiano e del dialetto palermitano.

Dunque la domanda, nel caso specifico, sembra essere la seguente: come si scrivono i corpi, elementi tanto centrali nella costruzione di un teatro che prende vita attraverso il lavoro in scena degli attori? Una risposta, se c’è, la propone Andrea Camilleri, illustre conterraneo che regala a questo libro una preziosa prefazione. Camilleri richiama l’attenzione del lettore proprio sul concetto di parola, parola teatrale, parola autentica, in quanto, dice lo scrittore: «una parola che si identifica con la cosa è la parola teatrale per antonomasia» e, a proposito della Trilogia, ne sottolinea la forza: «il peso specifico di ogni parola è incredibilmente molto alto, perché la sua massa è costituita dalla fusione di più sotto-significati» (Camilleri, p. 10); parole che esprimono da sole violenza, amore, sottomissione, minaccia, disprezzo. Battute scritte per i corpi e che scrivono i corpi.

Camilleri pone alla nostra attenzione due aspetti fondamentali del teatro di Emma Dante, la parola, o meglio la ‘parlata’, e il tempo, elementi affrontati entrambi con grande autonomia. A proposito del dato temporale si avverte la situazione di un ‘presente continuo’ in cui le dimensioni di passato, presente e futuro si amalgamano e coesistono nella rappresentazione, sulla scena. La questione del tempo è centrale anche per Giorgio Vasta che si sofferma, all’interno di un saggio contenuto nel volume, sulla creazione di uno spazio-tempo di coesistenza di vivi e morti, di prima e dopo, dopo e prima, uno spazio in cui avviene una sorta di «compenetrazione tra lutto e festa» (Vasta, p. 13).

Lo spazio-tempo del teatro della Sud Costa Occidentale è da Vasta collocato in quello stato di «tempesta neurovegetativa» che si osserva in chi è prossimo alla morte, quel momento in cui il malato sembra colto da improvvisa vitalità. Su questa scena, la parentesi di ritrovato vano benessere del moribondo si espande e diventa condanna o perenne illusione di vivere; status in cui alcuni dei personaggi rimangono perpetuamente bloccati. In quasi tutti i testi i morti convivono con i vivi, li confondono e si lasciano confondere in un gioco in bilico tra privilegio e rischio. Il palcoscenico diviene un non-luogo in cui «ai cosiddetti vivi sia concesso il privilegio (e sia fatto correre il rischio) di ritrovarsi al cospetto dei cosiddetti morti, e viceversa» (ibidem).

Ancora spazio e tempo sono concetti al centro dell’intimo cammeo che Elena Stancanelli dedica al volume; queste dimensioni sembrano mescolarsi, o sostituirsi, nel teatro dell’amica, con due specifici e personali orizzonti di riferimento: «famiglia e spazzatura sono gli estremi entro cui si muove il suo immaginario» (Stancanelli, p. 25). La famiglia evoca la compagnia, il palcoscenico, lo spazio. La spazzatura ha a che fare con l’utilizzo, con ciò che ha avuto vita e continua ad esistere; seppur come scarto, la ‘monnezza’ ha a che fare con il tempo. Questi due estremi si intrecciano e costituiscono il teatro di un’autrice «che non distoglie lo sguardo» (ivi, p. 21) da ciò che è spiacevole, imbarazzante, atroce, reale.

Racconta la Stancanelli dell’abitudine della Dante di recuperare dalla spazzatura oggetti da utilizzare in scena o con cui costruire la scenografia degli spettacoli. Questi oggetti, riportati in vita dalla dimensione dello scarto, dialogano con personaggi relegati ai margini o non più nella società perché deceduti, vivi però nella discarica dei ricordi di chi quel palcoscenico lo abita. Di chi, probabilmente, quella scena è costretto a viverla senza sosta.

Torniamo a casa, all’Isola e, senza troppa sorpresa, a Pirandello, autorevole predecessore, o al Beckett di Finale di partita, alla grande drammaturgia scritta su corpi. La stessa Dante, in fondo, introducendo questi suoi testi, pare rimasticare già ascoltate parole arrabbiate che denunciano ‘l’impossibilità di finire’ – per dirla con il gelido Hamm beckettiano –, l’ineluttabile destino dell’attore-autore legato a doppia mandata al pubblico, alla presenza e alla volontà dello spettatore.

 

Una volta dentro non possiamo più uscire. Siamo condannati a restare qui. Davanti a voi. In schiera, tremanti, precisamente spalla contro spalla […] Ma siamo stanchi. Nei nostri occhi già s’intravede la fine. Stiamo per cedere. Abbiamo capito che resistere non serve a niente. Vi chiediamo di chiudere gli occhi. Di smettere di guardarci. Vi chiediamo di ribellarvi. Per noi. Di liberarci! Se chiudete gli occhi. Se smettete di guardarci, noi possiamo uscire da qui e ricominciare a vivere (Dante, p. 31).

 

1 Cfr. H.-T. Lehmann, Il teatro postdrammatico, trad. it. di S. Antinori, postfazione di G. Guccini, Imola (BO), Cuepress, 2017.