In tutto c’è stata bellezza. Il giallo e la luce nelle memorie fototestuali di Manuel Vilas

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Nel suo ultimo libro In tutto c’è stata bellezza (2019), Manuel Vilas realizza un’autobiografia strettamente legata al vissuto dei suoi genitori, proponendo così un percorso memoriale che si dipana, in modo non lineare, sul filo dei ricordi personali e della storia spagnola degli ultimi decenni. Il presente contributo si sofferma in particolar modo sulla specifica modalità fototestuale adottata dallo scrittore, distinguendo tra fotografie inserite nel testo e altre soltanto descritte con procedimento ecfrastico. Il bianco e nero delle foto dialoga in maniera originale con la prevalente isotopia cromatica gialla presente nel testo, connotata da inflessioni disforiche e talvolta funeree in opposizione al vitalistico campo semantico della luce.

In his latest book In tutto c’è stata bellezza (2019), Manuel Vilas creates an autobiography closely linked to his parents’ experience, thus proposing a walk down memory lane that unfolds, in a non-linear way, along the thread of personal memories and the history of Spain in the last decades. This contribution focuses, in particular, on the specific photo-textual method adopted by the writer, distinguishing between photographs inserted in the text and others only described with an ekphrastic procedure. The black and white feature of the photos dialogues in an original way with the prevailing yellow chromatic isotopy present in the text, characterized by dysphoric and sometimes funereal inflections in opposition to the semantic field of light that is full of vitality.

Arriva per tutti il momento in cui «ogni uomo finisce per affrontare l’inconsistenza del suo passaggio nel mondo».[1] Diverse semmai sono le reazioni una volta raggiunto questo livello di consapevolezza, pur nell’immutabilità del desiderio di lasciare una traccia di sé, una testimonianza della propria esistenza.

Lo scrittore spagnolo Manuel Vilas (1962), nel suo libro Ordesa (2018), tradotto in italiano da Bruno Arpaia col suggestivo titolo In tutto c’è stata bellezza, s’immette entro un filone tendenzialmente di successo qual è quello del romanzo familiare in cui si intrecciano autobiografia e biografie, e lo fa optando per una modalità fototestuale che permette di agganciare alla catena significante dei ricordi alcune foto, tutte in bianco e nero, quali pregnanti inserzioni non-finzionali. Il medium verbale tende a prevalere su quello visuale[2] dal momento che, tra le oltre 400 pagine del libro, suddiviso in 157 paragrafi seguiti da un epilogo poetico, sono incastonate soltanto sette fotografie oltre alla riproduzione di un unico dipinto. Eppure quelle immagini, così ben integrate, anche a livello di layout, nel fluviale e digressivo andamento del discorso, svolgono un ruolo affatto secondario, perché oltre a dialogare con la parola scritta, vivono in stretta correlazione con i ben più numerosi riferimenti ecfrastici ad altre fotografie, soltanto descritte o mai scattate, immaginate o ritrovate, presenti nel libro. La mancanza di immagini è strettamente correlata all’assenza o comunque all’attenuarsi della memoria, sia in riferimento al contesto familiare[3] che, in un’ottica più ampia, ai tanti morti anonimi che «non sono stati motivo di fotografie ricordate. Sono nessuno, sono vento, e il vento non si mette in ridicolo» (p. 234).

Persino le riflessioni dell’autore a proposito del suo poco gratificante periodo di docenza, sono riconducibili alla stessa isotopia memoriale. Infatti, insieme alle più generiche considerazioni sull’alienazione lavorativa e le numerose problematicità del sistema educativo scolastico spagnolo, Vilas si sofferma a lungo sul fisiologico avvicendarsi delle generazioni degli alunni e della classe docente,[4] riflettendo su come la scuola, che dovrebbe essere uno dei principali luoghi di elaborazione e canonizzazione delle memorie collettive, tenda invece a non tramandare l’impegno di quanti ne hanno animato i suoi fatiscenti edifici: «Le scuole non conservano il ricordo di quei corpi. […] Non c’erano fotografie dei professori in pensione nei corridoi delle scuole. Non c’era memoria, perché non c’era nulla da ricordare» (p. 117).

Il nesso scrittura-visualità, centrale in questo romanzo di post-memories,[5] si arricchisce inoltre di una sottile tramatura musicale, evidente soprattutto nelle scelte onomastiche, dato che il narratore assegna a ciascun membro della sua famiglia il nome di un illustre esponente della storia della musica: Bach (il padre), Wagner (la madre), Vivaldi e Brahms (i figli), Monteverdi e Rachmaninov (gli zii), Maria Callas (una zia), Cecilia (la nonna, dal nome della Santa patrona della musica), Verdi (un amico). Ma, in fondo, sembra volerci dire Vilas, ciascuno di noi, anche senza entrare a far parte di un consolidato canone artistico, dovrebbe riuscire a essere un bravo compositore della propria vita, e il gioco nominale cui l’autore sottopone i suoi personaggi rappresenta in qualche modo la volontà di proiettare le persone da lui più amate oltre l’anonimato che è sinonimo di oblio.[6] Le maggiori difficoltà di nominazione riguardano i genitori dell’autore, di fatto ben poco competenti in materia di musica classica: nel caso del padre si assiste al passaggio dall’originario soprannome Gregoriano a quello di Bach; per la madre – nella vita reale appassionata delle canzoni pop di Julio Iglesias – l’autore attua una brusca transizione dal nickname mitologico di Euterpe (etimologicamente‘colei che rallegra’), musa della musica e della poesia lirica, al più grave Wagner, quasi a sancirne il ruolo drammatico interpretato nello snodarsi dell’intreccio.

Le evocazioni sonore, insieme ad alcune sequenze visionarie, tendono a marcare il carattere finzionale dell’enunciazione, mentre le foto divengono garanzia di autenticità del reale e duplice testimonianza, individuale e collettiva, del tempo che fu, mostrando foto dei genitori antecedenti alla nascita dell’autore («foto del padre prima di essere padre; è la foto di un uomo che non ha figli né moglie né radicamento», p. 86), e restituendoci anche uno spaccato della società spagnola, prima degli anni Cinquanta nella fotografia col padre che guida una Seat 600 (cfr. p. 15), quindi degli anni Sessanta (nell’immagine che raffigura i genitori mentre ballano un lento, cfr. p. 126), poi a metà degli anni Settanta quando il piccolo Manuel, autodefinitosi «bambino diabolico» (p. 369), è immortalato davanti a un cinema di Barbastro, cittadina della pianura aragonese che rappresenta un fondamentale ‘paesaggio dell’anima’ per l’io narrante insieme a Ordesa, meta di brevi gite fuoriporta coi genitori.

Le fotografie riportate nel libro appaiono dilettantesche, e propongono tutte ritratti con limitatissime aperture spaziali, ad esempio con la raffigurazione dell’interno di un bar in cui il giovane padre trascorre momenti di spensieratezza, o con l’illustrazione di uno spazio esterno innevato che vede il protagonista bambino, insieme ad altri compagni, impegnato in una lezione di sci a metà degli anni Settanta, in un’atmosfera di levità e «allegria universale» (p. 124). L’allegria è del resto una cifra comune ad entrambe le foto perché «ogni essere umano che comincia a vivere è allegro», e costituisce pertanto un autentico «momento di delizia visiva» (p. 86) da parte di Vilas la contemplazione della foto del padre enigmaticamente assorto nei suoi pensieri in un luogo affollato («Regna nel bar. È il bar della vita, è al centro», p. 89), non ancora consapevole o comunque dimentico della precarietà del destino suo e degli altri avventori presenti nel locale. Invece lo sguardo di chi a posteriori può solo contemplare l’immagine da un punto di vista esterno è tormentato, essendogli preclusa la possibilità di una partecipazione attiva alla scena rappresentata:


 

Tutti coloro che stanno in questa foto se ne sono già andati, sono stati – uno per uno – protagonisti di un’agonia in ospedale o di una morte improvvisa e di un funerale, tutti sono stati pianti, chi più, chi meno. Ma tutti loro hanno conosciuto mio padre prima che fosse mio padre; hanno potuto parlargli con tranquillità, hanno potuto conoscere un mistero che a me sarà nascosto per sempre; loro conoscono il mistero, tutti quelli che sono sepolti in questa fotografia. […] Io ho potuto conoscere mio padre quando era già mio padre. Se l’avessi conosciuto prima che lo fosse, avrei conosciuto la mancanza di necessità di me stesso; avrei conosciuto un mondo senza di me (pp. 86-87).


 

E a uno stadio ancor più iniziale della vita si pone l’immagine dei bambini sulla neve, occasione di una riflessione sociologica dell’autore a partire dal confronto tra l’umile giubbotto impermeabile di colore giallo del protagonista e i nuovi modelli di giacche a vento indossati dai più abbienti. L’allegria scaturisce comunque, oltre che dal ricordo individuale di una bella esperienza sportiva, dalla sensazione comune di vivere, nell’ultimo quarto del XX secolo, una condizione condivisa e generalizzata di miglioramento e progresso, metaforizzata dallo splendore dei raggi solari («Il giorno della vigilia di Natale il sole brilla sopra Cerler», p. 125).

Le fotografie amatoriali e provenienti da collezioni private, la cui autorialità rimane sconosciuta al lettore, non sono mai accompagnate da didascalie, ma vengono spesso introdotte dai due punti e impaginate nel corpo del testo secondo una peculiare strategia retorica che prevede una piena circolarità tra parole e immagini dal momento che queste ultime sembrano voler integrare e avvalorare il discorso verbale, ma sono anche in alcuni casi commentate, spiegate e talvolta riprese a distanza.[7] Si assiste dunque a una narrativizzazione delle illustrazioni inglobate nel tessuto testuale in cui quanto è illustrato viene, in qualche modo, ‘dilatato’ dall’immaginazione dell’autore, Spectator e non Operator delle foto, che prova a integrare con il suo discorso fabulativo ciò che l’immagine non riesce a spiegare; le foto consentono inoltre una sovrapposizione di tempi, l’irruzione del ‘prima’ nell’ora, riguardando un periodo antecedente la nascita dell’autore o della sua prima infanzia.[8]

Fondamentale è l’aspetto perturbante, e insieme epifanico, delle fotografie di famiglia, rilette secondo la pregnante isotopia della luce presente del romanzo, perché


 

la fotografia rappresenta ciò che abbiamo visto alla luce del sole; ciò che è stato sotto il sole e così come la luce ha modellato la vita degli uomini e delle donne; […] siamo stati capaci di mettere la luce dentro un foglio di carta; i miei genitori sono stati illuminati dalla luce del sole e quella luce si conserva ancora in quei fogli incartapecoriti, in quei ritratti consunti. La luce, che è stata condannata a discendere dal sole e ha finito per combattere contro i corpi umani, qui nella vita. Le foto dei miei genitori, ostinatamente, affermano che una volta sono stati vivi (pp. 156-157).


 

Aspre e laceranti sono invece le pagine dedicate alle malattie e alla morte di entrambi i genitori culminanti nella scelta della cremazione del padre su cui circolarmente si apre e si chiude la narrazione, dalla prosa dell’incipit all’inatteso e pregnante ‘canzoniere’ poetico conclusivo. Ci si trova dunque di fronte a un libro poderoso e contraddittorio, dall’andamento paratattico e anaforico, tanto più efficace, quanto più predilige un tono disincantato e spesso crudamente straniante.

Il senso di dissoluzione del corpo e di perdita definitiva segnato dal processo di incinerazione sembra suggerire al narratore un tremendo senso di colpa, un malcelato pentimento per una scelta irreversibile, ed è come se da questo punto di rottura scattasse il processo di ricostituzione post mortem delle relazioni perdute:

Siccome ho ordinato di bruciare il corpo di mio padre, non ho un posto dove andare per stare con lui, così me ne sono creato uno: questo schermo di computer. Bruciare i morti è un errore. Anche non bruciarli è un errore. Lo schermo del computer è il posto dove sta il cadavere adesso. […] Le cose non resistono come facevano anticamente, quando un frigorifero o un televisore o un ferro da stiro o un forno duravano trent’anni, […] c’è gente a questo mondo che ha passato più tempo accanto a un televisore o a un frigorifero che accanto a un essere umano. In tutto c’è stata bellezza» (p. 113).

 

Sin dalle prime pagine, la decisione di scrivere questa particolare autobiografia fototestuale è motivata da una crisi interiore esplosa quando «tutto è diventato giallo. Che le cose e gli esseri umani diventino gialli significa che hanno raggiunto l’inconsistenza, o il rancore. Il dolore è giallo, questo voglio dire» (p. 9). Insieme ai non-colori delle foto (ma nell’etimo di ‘fotografia’ è presente fòs, la luce), l’amarillo, parola particolarmente sonora nella lingua spagnola, si afferma, sin dalla copertina, quale colore dominante del romanzo, assumendo un valore inquietante, generalmente connotato da inflessioni disforiche, quasi fosse una variazione posticcia e antonimica del campo semantico della luce, come risulta dai successivi prelievi testuali. Ecco allora, ad esempio, che in una delle tante intersezioni delle storie familiari narrate dallo scrittore con la storia della Spagna contemporanea, la famiglia reale, più volte richiamata nel libro, «rappresenta la famiglia scelta perché su di lei ricada lo sfarzo giallo della memoria, quella memoria di cui sono prive migliaia e migliaia di famiglie spagnole» (p. 45); i rantoli del padre agonizzante vengono paragonati a un «nido di milioni di uccelli gialli, che infrangevano le pareti dell’aria» (p. 154) e una similitudine ornitologica di segno simile è ripresa anche a proposito dello stesso autore. Si sancisce così la progressiva identificazione, nel corso del racconto, tra padre e figlio: «Il mio cuore sembra un albero nero pieno di uccelli gialli che strillano e mi trapanano la carne come in un martirio» (p. 268). Similmente gialle sono, nel ricordo dell’autore, anche le scartoffie burocratiche compilate dal padre per ragioni di lavoro, mentre è la sua stessa vita a colorarsi di questa tinta (cfr. p. 318). Sembrerebbe quasi che questo colore alluda a un tipo di illuminazione artificiale tendente a precisarsi con l’approssimarsi all’età adulta («Con il tempo, però, tutto diventa giallo», p. 281), mentre la luce naturale caratterizza le prime fasi del percorso di vita, contraddistinte da autenticità e candore, unitamente a tutto ciò che può essere rischiarato dalla memoria, anche grazie al supporto delle immagini fotografiche. Entro questa singolare e sorprendente dialettica di giallo e luce si realizza quindi una sorta di contrappunto armonico tra i due ambiti di significazione continuamente intersecantesi nel romanzo, quello legato a una vagheggiata ‘età dell’innocenza’ e l’altro contrassegnato dalla presenza incombente del dolore, della malattia, del tempus edax, dell’ineludibile tendere verso l’approdo ultimo della morte.

È indubbio che, a livello manifesto, il discorso affabulatorio di Vilas sia orientato verso la dimensione della paternità che coinvolge l’autore sia nel ruolo di figlio (orfano per tutto il tempo narrativo della sua autofiction) che in quello di padre secondo un preciso processo speculare, chiaramente delineato sin dalle prime pagine del libro:


 

Mi guardavo allo specchio e vedevo non il mio invecchiamento, ma l’invecchiamento di un’altra persona che era già stata in questo mondo. Vedevo l’invecchiamento di mio padre. Potevo così ricordarlo perfettamente, dovevo soltanto guardarmi allo specchio e compariva lui, come in una liturgia sconosciuta, come in una cerimonia sciamanica, come in un ordine teologico invertito. Non c’era alcuna gioia né alcuna felicità nel reincontro con mio padre nello specchio, ma un altro giro di vite nel dolore, un ulteriore grado nella discesa, nell’ipotermia di due cadaveri che parlano (p. 8).

 

È al padre-Bach che l’autore dedica ampia parte delle sue riflessioni e illustrazioni, se pensiamo che delle sette foto pubblicate ben quattro sono quelle che lo raffigurano, laddove la madre è presente in una sola foto che la ritrae di spalle; è in lui che l’autore si specchia, ritrovando se stesso anche, e soprattutto, nei reciproci sbagli, nelle cadute, nelle fragilità del corpo e dello spirito espresse, per Bach, dall’iniziale povertà e poi dalla lunga malattia, mentre la vita dell’autore appare tragicamente segnata da un abuso sessuale infantile e dall’alcolismo.

Nell’immagine in cui il padre, visibile solo in parte, tiene per mano lo scrittore da piccolo, viene ben allegorizzato il senso del passaggio e della temporaneità insito nella vita di ciascuno, emblematizzato proprio dalla «soppressione visiva di mezzo corpo» (p. 244) della sagoma paterna.

Eppure, pur da una prospettiva più defilata, la figura materna svolge, nell’economia del libro, un ruolo cruciale: intanto perché è dal momento della sua morte che l’autore decide di comporre uno scritto autobiografico, ma anche perché la madre è definita una «narratrice caotica» (p. 21), come caotico (sia pur coerente e dalla logica stringente) potrebbe apparire il divagante procedere per continue anacronie dello stesso Manuel Vilas.

Se dunque al padre è riservato lo spazio dell’immagine dall’iniziale metafora dello specchio alla stessa pubblicazione delle fotografie che lo ritraggono da giovane, la madre detiene il primato dell’affabulazione, della tessitura di storie, anche quelle sulle sue malattie, arrivando persino con la sua voce a intrecciare le fila delle vite altrui, come quando, a causa di una telefonata, accelera inconsapevolmente la fine del matrimonio del protagonista. Ma soprattutto Vilas, nel suo libro così profondamente segnato dall’isotopia funerea, non può non vedere la madre-Wagner come principio vitale, associandola all’amore e alla vera luce, in cui lo stesso biondo dei suoi capelli e soprattutto la sua equiparazione al sole («Mia madre non sopportava il tedio della vita. Perciò andava in piscina o nei fiumi, […] perciò prendeva il sole, perciò fumava. Il sole e lei, quasi la stessa cosa», p. 152, corsivi nostri) si contrappongono alla polimorfia fittizia del giallo che colora ampia parte del romanzo, come risulta marcatamente in due episodi-matrice legati alle origini della vita e descritti in modo semanticamente affine. Ci riferiamo innanzitutto all’intensa sequenza in cui la madre, in attesa di un altro figlio, guida la mano dell’autore bambino «verso il suo ventre, e io rimango sorpreso, e poi vedo una luce che entra dalla veranda della cucina. Una luce che viene dalle stelle. Guardo dalla finestra e vedo una lontananza piena di dolcezza» (p. 64) in una sorta di moderna e laica Annunciazione. E poi, in pagine successive nell’intreccio a questa scena, troviamo l’‘invenzione’ narrativa del concepimento dell’autore stesso alla «luce della luna» (p. 377) che costituisce un delicato inno all’amore, alla giovinezza, al mistero della vita grazie a cui si è sottratti all’oscurità.

L’isotopia luminosa presente nel romanzo, mai peraltro disgiunta da quella luttuosa, rimarca come ci si possa sottrarre all’oblio della morte grazie alla luce della memoria, che può talvolta persino assicurare una forma di immortalità in presenza di importanti tracce materiche come la scrittura e le fotografie. Il procedere erratico della scrittura nello scavo delle tante storie familiari presentate nel libro assume quindi un valore prevalentemente costruttivo, conducendo Vilas alla scoperta catartica che «in tutto» – anche negli oggetti dismessi e consunti, nei semplici atti quotidiani ormai trascorsi, nelle relazioni più tempestose – «c’è stata bellezza».


 


1 M. Vilas, In tutto c’è stata bellezza, trad. it. di B. Arpaia, Milano, Guanda, 2019, p. 77. Le altre citazioni tratte da quest’edizione del libro saranno indicate nel corpo del testo e nelle note con la numerazione delle pagine posta tra parentesi.

2 Per lo studio dei fototesti cfr. almeno S. Albertazzi, Letteratura e fotografia, Roma, Carocci, 2017, pp. 97-125; R. Coglitore, ‘I dispositivi fototestuali autobiografici. Retoriche e verità’, Between, IV, 7, 2014 <https://ojs.unica.it/index.php/between/article/view/1170> [accessed 20.03.2020]; M. Cometa, R. Coglitore (a cura di), Fototesti. Letteratura e cultura visuale, Macerata, Quodlibet, 2016.

3 Il motivo delle fotografie in absentia connota, ad esempio, i discorsi sui nonni di cui, per il protagonista, è ancora più difficile ricostruire le rispettive storie, non avendoli conosciuti direttamente: «Se ne andarono dal mondo prima che io venissi al mondo, e se ne andarono senza lasciare una fotografia. Non lasciarono un triste ricordo» (p. 26); altre volte prevale il rammarico per le foto rimaste solo allo stato potenziale, come si verifica nel seguente passaggio riferito alla figura materna: «Avrei dovuto fare decine di foto di quella stanza. […] Mi mancano le foto, quello sì. Le tue passioni, mamma, la tua ossessione per la vita, le hai passate a me» (p. 282).

4 Infatti per Manuel Vilas le scuole «sono i luoghi in cui si crea la realtà, il senso della collettività, il senso della Storia, la celebrazione del mito che siamo una civiltà. Tutti quei ragazzi e quelle ragazze a cui ho fatto lezione, cosa sarà stato di loro? Forse alcuni se ne sono andati per sempre. E anche quei colleghi con cui ho lavorato andranno morendo. I loro visi svaniscono nella mia memoria. Vanno tutti nelle tenebre» (p. 117).

5 Secondo Marianne Hirsch, «postmemory describes the relationship of the second generation to powerful, often traumatic, experiences that preceded their births but that were nevertheless transmitted to them so deeply as to seem to constitute memories in their own right» (M. Hirsch, ‘The generation of Postmemory’, Poetics Today, XXIX, 1 (2008) <https://warwick.ac.uk/fac/cross_fac/ehrc/events/memory/poetics_today-2008-hirsch-103-28.pdf> [accessed 04.04.2020]). Il libro In tutto c’è stato bellezza rientra in questa tipologia di scritti, considerando il peso assunto nell’economia della storia dalle vicende familiari, spesso traumatiche e costantemente inscritte entro la cornice della storia spagnola. Cfr. anche Ead., Family frames: photography, narrative and postmemory, Cambridge, Harvard University Press, 1997.

6 Nel suo fototesto Vilas cerca di vivificare la cerchia dei suoi affetti familiari perduti non solo attraverso le parole e le immagini, ma anche con la musica: «Mi regalarono un giradischi per il mio dodicesimo compleanno; […] lì intuii che la musica mi avrebbe curato, sentii il potere curativo della musica; per questo ho chiamato i miei figli Vivaldi e Brahms. Che tutti i nomi si trasformino in musica. […] Forse mio padre dovrebbe chiamarsi Gregoriano e mia madre Euterpe. Dovrei trovare il nome di un compositore celebre per ogni persona che ho amato, e riempire così di musica la storia della mia vita» (p. 191).

7 È quanto avviene, ad esempio, nella foto inserita a p. 195, commentata sia nella stessa pagina che, più avanti, a p. 210: si tratta di un’immagine in cui è raffigurata la nonna dell’autore con uno dei suoi figli, ancora bambino, che tiene una torta tra le mani. Nella prima ékphrasis Vilas si sofferma sull’angoscia della donna che ha recentemente perso il marito e il primogenito, mentre – nel secondo richiamo alla foto – si trasferisce coll’immaginazione dal piano visivo a quello gustativo: «Si vede poco la torta nella foto, solo un angolo. […] Che sapore aveva una torta allora?» (p. 210).

8 Cfr. la nota distinzione tra Operatore Spectator compiuta da R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia [1980], trad.it. di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 2003, pp. 11-12. Barthes considera «la Storia […] quel tempo in cui non eravamo nati» (ivi, p. 66), sottolineando come «la vita di qualcuno la cui esistenza ha preceduto di poco la nostra tiene racchiusa nella sua particolarità la tensione stessa della Storia, la sua partecipazione. […] Il tempo in cui mia madre ha vissuto prima di me: ecco che cos’è, per me, la Storia» (ivi, pp. 66-67).