Arriva per tutti il momento in cui «ogni uomo finisce per affrontare l’inconsistenza del suo passaggio nel mondo».[1] Diverse semmai sono le reazioni una volta raggiunto questo livello di consapevolezza, pur nell’immutabilità del desiderio di lasciare una traccia di sé, una testimonianza della propria esistenza.
Lo scrittore spagnolo Manuel Vilas (1962), nel suo libro Ordesa (2018), tradotto in italiano da Bruno Arpaia col suggestivo titolo In tutto c’è stata bellezza, s’immette entro un filone tendenzialmente di successo qual è quello del romanzo familiare in cui si intrecciano autobiografia e biografie, e lo fa optando per una modalità fototestuale che permette di agganciare alla catena significante dei ricordi alcune foto, tutte in bianco e nero, quali pregnanti inserzioni non-finzionali. Il medium verbale tende a prevalere su quello visuale[2] dal momento che, tra le oltre 400 pagine del libro, suddiviso in 157 paragrafi seguiti da un epilogo poetico, sono incastonate soltanto sette fotografie oltre alla riproduzione di un unico dipinto. Eppure quelle immagini, così ben integrate, anche a livello di layout, nel fluviale e digressivo andamento del discorso, svolgono un ruolo affatto secondario, perché oltre a dialogare con la parola scritta, vivono in stretta correlazione con i ben più numerosi riferimenti ecfrastici ad altre fotografie, soltanto descritte o mai scattate, immaginate o ritrovate, presenti nel libro. La mancanza di immagini è strettamente correlata all’assenza o comunque all’attenuarsi della memoria, sia in riferimento al contesto familiare[3] che, in un’ottica più ampia, ai tanti morti anonimi che «non sono stati motivo di fotografie ricordate. Sono nessuno, sono vento, e il vento non si mette in ridicolo» (p. 234).