Giosetta Fioroni, oltre il dipingere

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La ricerca di Giosetta Fioroni si caratterizza, sin dagli anni giovanili, per la sua articolata complessità.  Tutto il percorso dell'artista si snoda però attorno ad alcuni temi ricorrenti, che costituiscono il filo rosso del lavoro di una vita e che sono affrontati da Fioroni attraverso differenti linguaggi. Questo intervento si concentra proprio sulle opere in cui Fioroni, facendo ricorso a soluzioni espressive per lei inusuali (dalla performance al cinema), ripropone le tematiche a lei care, mettendo in luce tutto lo spessore che è tipico del suo lavoro, sia sul piano linguistico, sia su quello dei contenuti.

Since the early years of her artistic research, Giosetta Fioroni’s work is characterized by an articulated complexity. All of the artist's career winds around some recurring themes which represent the common thread of her life's work and are faced through different languages. This essay focuses on the works in which Fioroni iterated her dearest themes through the use of expressive solutions (performance, cinema) that were unusual for her, highlighting the peculiar profoundness of her work, achieved linguistically and in the contents as well.

 

Nel catalogo della più recente mostra di Giosetta Fioroni, incentrata sull’attività dell’artista negli anni Sessanta, Marco Meneguzzo apre il suo saggio introduttivo ponendo la complessità della ricerca dell’autrice come elemento fondante di tutta la sua disamina, una complessità che risulta, quindi, ben evidente sin dai lavori che Fioroni realizza nel corso di quel decennio, nei quali essa trova tuttavia «una forma apparentemente semplice, apparentemente categorizzabile» nel riferimento alla pop art, o meglio alla cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo, anche se «tutt’altro che schematica».[1] In effetti, sin da quel tempo, la posizione di Fioroni è caratterizzata da modi decisamente personali e lo spessore della sua ricerca emerge soprattutto nel rapporto con la pop art americana, rispetto alla quale l’artista stessa ha in più occasioni preso convincentemente le distanze.[2] Anche i suoi famosi ‘argenti’, cui inizia a lavorare nel 1963 e che espone alla celebre biennale veneziana del 1964,[3] hanno caratteri ben differenti rispetto a quelli che caratterizzano l’immaginario pop. Tale diversità si gioca su più piani, su differenti registri e nel mettere in luce tutta l’articolazione del lavoro di Fioroni ne suggerisce sin da quel momento la fertilità degli sviluppi, evidenziandone pure la capacità di risolversi in una coerente per quanto aperta linea di ricerca che, nonostante i frequenti slittamenti linguistici, s’incentra intorno ad alcuni temi forti e ricorrenti i quali, come un filo rosso, collegano esperienze espressive soltanto apparentemente di segno diverso.

Della complessità e dello spessore della personalità artistica di Fioroni, certo, danno testimonianza numerosi fattori. In primo luogo, la sottile e al contempo fondamentale liaison con la letteratura, da lei tanto amata, e con il mondo letterario, frequentato dalla più giovane età e presto incarnato nella sua sostanza niente affatto accessoria dal rapporto con Goffredo Parise e con i tanti amici scrittori che si sono anche occupati della sua arte. La scrittura che entra, sin dall’inizio degli anni Settanta, esplicitamente dentro il suo lavoro e si sublima nell’interesse per la fiaba che, suscitato dalla lettura di Morfologia della fiaba di Wladimir Propp, ha perfettamente incarnato il sentire e l’intenzionalità dell’artista, mai disposta a fermarsi alla fenomenologica evidenza della realtà. Un capitolo, questo, che da solo meriterebbe una lunga e profonda analisi, con cui qui non intendiamo misurarci, anche se necessariamente questa tensione letteraria e soprattutto la dimensione metaforica propria della fiaba restano sottotraccia in tutta la produzione di Fioroni, sino ai giorni nostri, e dunque in qualsiasi riflessione su quella. Il fertile intreccio tra letteratura e figurazione si coniuga, a sua volta, con un altro binomio che può costituire un livello interpretativo di tutto il lavoro dell’artista: il rapporto della sua produzione visiva con la fotografia, o meglio con il fotografico, dato che per certi versi buona parte del suo lavoro, anche quando non mostra un evidente legame con la pratica o l’immagine fotografica – cosa che per altro spesso avviene – può considerarsi in qualche misura strettamente legato a quello sguardo.[4]

Procedendo con ordine, vedremo comunque che ci sono altri punti di vista dai quali avvicinare la ricerca di Fioroni, che permettono di metterne in evidenza l’articolata natura e al contempo la compatta coerenza, che ci consentono di cercare le basi di tutto il suo fare tra gli anni Sessanta e Settanta, con considerazioni che possono essere utili codici di lettura per affrontare tutto il suo lavoro, anche quello più recente, nel quale mutano le chiavi espressive ma non il senso ultimo, che evolve senza tradire l’origine, profonda.

Nelle tele e nelle carte che l’artista licenzia nel corso degli anni Sessanta una figurazione di chiara marca pop si caratterizza però per una spazialità dilatata che allude alla profondità della scena, per una tridimensionalità delle figure che, per quanto appiattita, non le scioglie mai completamente nell’arabesco di linee. Pur nella sintesi delle forme, la figurazione di Fioroni non si ferma mai sulla soglia di una sintetica iconicità. Nel 1964 l’artista dichiara: «a me interessava una cosa molto semplice, una certa narrazione legata ad una immagine cinematografica, che si ripete. Insisto sul fatto narrativo nel senso che ormai da un anno a questa parte, io ho cercato, ho desiderato di raccontare delle cose».[5] In quelle opere trovano spazio delle persone, degli oggetti, a volte dei capolavori della pittura del passato, intesi tutti come elementi che assumono se non una valenza simbolica sicuramente una significazione personale, che insomma non sono mai soltanto assunti come asserzioni di realtà. D’altro canto, sin dalle sue prime prove pittoriche, che risalgono al 1957 – nelle quali le figure sembrano sforzarsi di emergere dallo sfondo magmatico di colore e a volte dichiarano la loro presenza lasciandosi giusto intuire – Fioroni supera la piattezza del linguaggio informale e, rielaborando una nutrita serie di colte suggestioni,[6] dà vita ad un racconto per immagini, ad una forma di narrazione che si traduce in un percorso interiore, in quello che Germano Celant definisce «un guardarsi che trova il suo riflesso sulla superficie argentea delle pitture».[7] Il quadro, dunque, come uno schermo proiettivo. Come un mezzo per comunicare, per raccontare, in qualche modo raccontandosi. Sin da quegli anni, la pittura di Fioroni affronta soggetti lontani dalla tipica figurazione pop, e non solo in senso iconografico: nei suoi quadri non campeggiano le icone della modernità, ma persone, magari appiattite, annullate, a volte restituite in figure stereotipate, ma pur sempre persone con un loro spessore umano, con un loro carico esistenziale, con i sintomi del disagio che la società impone. Lo sguardo dell’artista sul reale non è passivamente accogliente, ma critico e attento.

Bene sintetizza Celant i caratteri della produzione di Fioroni in quel fondamentale momento che si colloca tra i Sessanta e i Settanta quando scrive di un

oscillare di Fioroni tra l’espressione di una identità di genere a un intimo scavo dell’identità personale che dal 1969 al 1975 si traducono in dipinti che riguardano la memoria ambientale e sentimentale, dei contesti urbani, da Venezia a Roma, e quella storica legata al nucleo di ricordi, tratti dagli album anni Trenta, segnati dal fascismo, al momento quindi della sua venuta al mondo. Tutto ciò mentre in parallelo l’artista sviluppa una metamorfosi interiore che si traduce nell’invocazione di un fare di fiaba che la riporta al pensiero dell’infanzia.[8]

È un percorso che Giosetta compie dentro di sé, in quel continuo, discreto, rispecchiamento che è la sua esperienza artistica. E in questo senso, l’intera produzione dell’artista assume una veste importante anche in relazione alla questione femminile. Come sottolinea Raffaella Perna, «già prima che il pensiero e la pratica del femminismo si riflettano sull’arte italiana, Fioroni – unica artista donna legata alla Scuola di Piazza del Popolo – compie scelte iconografiche diverse da quelle dei colleghi maschi, concentrandosi su figure femminili o legate alla sua infanzia per dar voce alle istanze del personale».[9] E questo già costituisce una scelta di campo, poiché a quell’altezza cronologica era fondamentale per le donne operare una pratica di autoanalisi: in un mondo al maschile, il primo passo che deve compiere una donna è mettere in gioco il proprio sguardo, il proprio punto di vista che si dà implicitamente come antagonista. È uno sguardo inedito, che si trasforma in una proiezione, in un riconoscimento, in un’asserzione di esistenza genuina, al di là del sistema delle convenzioni.

Quando nel marzo del 1967 presenta alla Galleria del Naviglio di Milano la mostra La donna in serie, Trini nota che «le nuove immagini della Fioroni, più lucide e meno decorative delle precedenti iterazioni di gusto pop, creano una tensione tra ciò che è immediatamente visibile e ciò che permettono di intuire: tra la realtà della pittura, un artificio come la foto e il maquillage, e quella delle belle ragazze».[10]

Giosetta Fioroni, Volto bicolore, 1966

D’altro canto, ricorda oggi la stessa autrice che «in quegli anni di femminismo… io ero sempre più interessata al femminile, ai sentimenti che queste donne esprimevano nello sguardo, nel movimento di una mano, nell’atteggiamento della figura».[11]

Così, le sue figure femminili in molti casi protagoniste solitarie, si stagliano sugli sfondi vuoti, in un’atmosfera più vicina alle inquietudini metafisiche che alla scoppiettante vivacità dell’universo pop, in un contesto che lascia intuire una realtà sottesa. Alla stessa logica risponde anche la scelta di mettere in scena i bambini, la cui presenza – anch’essa – rimanda a una dimensione autobiografica, alle dinamiche del riconoscimento. Queste figure traducono sulla scena quell’atmosfera malinconica che svela il meccanismo di base della poetica dell’artista: la memoria, il bisogno di tornare alle origini profonde, al proprio essere donna e alla propria infanzia. Giustamente, in un saggio che indaga in profondità lo spessore della ricerca di Fioroni, Gloria Bianchino[12] mette in parallelo il racconto da fiaba autobiografico con le strutture narrative delle sue opere e puntualizza con precisione la questione della memoria introducendo il ruolo fondamentale del rimosso nella ricerca dell’artista, come chiave di lettura del suo rapporto col passato, con l’infanzia così spesso evocata nei suoi lavori, da intendersi quindi non semplicemente come mitica età felice, bensì come momento nodale, con tutto il suo carico di angoscia che, latente, a volte riemerge prepotente nei suoi lavori.[13] Quanto mai lontana, quindi, dall’appiattimento sul presente accolto come mero dato di fatto, Fioroni approfondisce pure le suggestioni della realtà che la circonda riconducendola al proprio vissuto, o al vissuto collettivo, come risulta esplicitamente qualche anno dopo, in occasione della personale allestita a Firenze nel 1970, alla Galleria L’Indiano. Espone una serie di tele, realizzate tra il 1969 e i primi mesi del 1970, i cui soggetti sono ricavati da immagini di epoca fascista.

Giosetta Fioroni, Obbedienza, 1969

È interessante, per comprendere la dialettica che la pittrice instaura con il reale, riflettere sul suo testo pubblicato nella brochure della mostra:

Questi quadri che espongo, vogliono essere illustrativi e per così dire didattici. Sorgono da un’idea non ‘neofigurativa’, bensì ‘figurativa’ tout court di una visita da me compiuta non soltanto all’interno di me stessa, ma all’interno di me stessa dopo la giornaliera visita della società in cui vivo. L’aspetto di questa società nel suo complesso apparire di contraddizioni, di ebollizioni interne, di conflitti del profondo e della superficie (che prendono forma oggi più che mai politica), di innesti dubbiosi tra autentico e inautentico, di menzogna, di reale dolore, di rabbioso consumo dell’uomo infine, ha prodotto e produce dentro di me (figurativamente si capisce) al tempo stesso un sentimento di vuoto e di timore. Come dire una proiezione ‘impaurita’ di immagini che non si sottraggono al funebre, al dedito e amoroso e perfino tenero funebre della violenza. La partenza alla visita interiore sono state alcune immagini dei primi anni del fascismo. La coincidenza (figurativa) con la visita esterna nella nostra società, sono volti, vestiti e mode e soprattutto sentimenti che si aggirano, spesso fantasmi del consumo, del ‘remake’ funebre intorno a noi. Perché ho detto dall’inizio che i quadri che espongo vogliono essere in qualche modo illustrativi e didattici mi pare giusto chiarire che illustrazione e pedagogia sono nel mio lavoro, anzi nel sentimento del mio lavoro oggi, in questo particolare momento, elementi rischiaranti il ‘sonno della ragione’, ‘materie di insegnamento’ in una nuova, ipotetica ma non necessariamente utopica, ricerca di espressione figurativa popolare.[14]

Ecco la chiave dell’engagement di Fioroni, anche nei confronti della questione femminile, che resta sempre sottesa ma evidente in tutto lo sviluppo della ricerca dell’autrice. In un celebre brano, Goffredo Parise descrive la situazione:

L’ideologia figurativa di Giosetta Fioroni […] è la ricerca dell’infanzia perduta. Questa ricerca non è una ricerca vera e propria, cosciente, ideologica come quella degli impiegati dell’ideologia o delle ideologie correnti e passate, ma una raccolta giornaliera di stile. Lo stile di Giosetta Fioroni, cioè la parte espressiva e visibile della sua ideologia, è ‘rosa’. […] Oggi dire che uno stile è rosa potrebbe suonare quasi offensivo perché colpiscono gli stili rossi, o neri, o quelli in generale a tinte forti; e le tinte leggere e miste, come per esempio il rosa, il celeste e il grigio, sono da molti considerate tinte evasive e poco impegnate.[15]

Non bisogna, però, interpretare il ‘rosa’ come una cifra di delicatezza e di grazia, come attitudini tipiche della femminilità. Il senso di questa affermazione va cercato nella spiccata, e innata, tendenza di Fioroni a rifuggire il registro della sguaiata asserzione o della esplicita rivendicazione, anche in merito al suo essere donna. Il che non significa affatto che l’artista nei suoi modi manchi di determinazione, anzi. Il fare leggero, la mancanza di ‘tinte forti’ non deve indurci a intendere il discorso sotteso come meno profondo o significativo. Fioroni non urla (quasi) mai, invece osserva, dialoga, riflette, lascia spazio a considerazioni sottili e sentimenti – come la malinconia, il rimpianto o lo stupore – che si dispiegano in profondità, senza clamore, magari con dolcezza ma sempre con intensità. Fioroni si muove decisa ma con circospezione, si esprime poeticamente, tenta di far emergere il rimosso andando oltre l’evidenza e proprio per questo la sua espressione è in realtà forte poiché sedimenta e, lasciata decantare, si deposita, lavorando nel tempo. Proprio in quest’ottica, mi sembra si spieghi pure la naturalezza con cui Fioroni è spesso andata oltre la pittura, pur tornando poi tranquillamente a quella,[16] senza mai assumere atteggiamenti categorici.

Ci aiuta a capire meglio quanto la stessa Fioroni dichiara intorno al ‘quadro’, che concepisce

come un documento individuale: non-oggetto in un mondo dominato dagli oggetti. Come non-oggetto, in questo periodo, mi interessa anche molto una specie di ‘quadro visivo’… qualcosa che ha il tempo variabile e incerto dell’apparizione; in qualche modo legato non al teatro, bensì alla sua essenza, al tono magico che ne è all’origine. Un’epifania che coinvolge di volta in volta una condizione ‘tipo’: potrà essere avvenimento, visione, ricordo, oppure luogo o momento o altro. Un tentativo in questo senso è stata La spia ottica alla Tartaruga a maggio.[17]

Nelle parole dell’artista, scritte nel 1968, quando parla di un quadro visivo che non sia oggetto e che abbia il tempo dell’apparizione, mi sembra di poter leggere un’anticipazione dei caratteri di una serie di lavori che Fioroni ha realizzato tra il 1970 e il 1971: i quadri di luce.

Giosetta Fioroni, Laguna (paesaggio veneziano), 1970

Attraverso delle sagome di metallo inserite in un proiettore, che definiscono in estrema sintesi lo skyline di un paesaggio, realizza delle proiezioni di luce su tele smaltate bianche, che suggeriscono dei luoghi appena riconoscibili, carichi di suggestioni, come fossero fatti della sostanza dei sogni.[18]

Giosetta Fioroni, bozzetto per i quadri di luce

Il ricorso ad altri mezzi espressivi non è mai stato inteso dall’artista nei termini di un superamento o di un aggiornamento del proprio fare, bensì semplicemente come l’esito di una ricerca espressiva di ampia portata, che l’ha condotta a sfruttare ogni mezzo che risultasse congruo alle sue esigenze; quindi come una differente modalità di portare avanti il suo percorso, nel quale lo scavo interiore va di pari passo con la comprensione del mondo circostante e del proprio essere, donna, in quello. Metafora di questo suo bisogno di guardarsi, capirsi, e automaticamente anche di essere guardata e capita, è chiaramente La spia ottica.

 Giosetta Fioroni, La spia ottica, Teatro delle mostre, maggio 1968

Nel maggio del 1968, con questa performance si apre il Teatro delle mostre, quel «festival della disobbedienza», come lo definì Goffredo Parise, che fu organizzato da Plinio De Martiis presso la Galleria La Tartaruga di Roma. Il progetto redatto dall’artista prevedeva:

1. Una stanza completamente chiusa con dentro i mobili della mia camera da letto. 2. Nell’interno una donna compie i gesti abitudinari della sua giornata. Un normale sequenza di vita quotidiana. 3. Il pubblico della Galleria è costretto a guardare uno alla volta attraverso uno spioncino (Spia Ottica, lente da binocolo rovesciata) applicato sulla porta della stanza. 4. Vi sono due momenti che si fondono in uno. L’esperienza di chi guarda e il comportamento della donna che sa di essere guardata. Un’immagine inquadrata dalla lente che la rimpicciolisce, allontana e memorizza l’azione. 5. L’ambiente della galleria diventa polivalente e il Tempo è finto nel senso di una visione a metà tra il teatro e la lanterna magica. 6. Il tutto deve durare alcune ore e può ripetersi ad orario come uno spettacolo.[19]

Quindi, Fioroni allestisce un locale nella galleria con gli oggetti della sua camera da letto e invita l’attrice Giuliana Calandra a restare nella stanza compiendo gesti semplici e quotidiani mentre il pubblico guarda la scena da un buco nella parete, attraverso una lente, calandosi così apertamente nelle vesti del voyeur. Indubbiamente, «nel presentarci un frammento di vita in forma di immagine erotizzante Fioroni mette in scena la doppia alienazione alla quale la società dello spettacolo ci costringe: quella del soggetto dello sguardo, costretto a una perenne e passiva contemplazione, e quella del soggetto guardato, ridotto a oggetto stesso di consumo».[20] Questa azione però, nella sua semplicità, ci dà pure la misura di come tutto nel lavoro di Fioroni sia basato sul concetto di proiezione: l’artista mette in scena se stessa, ma lo fa attraverso un’altra persona svelando apertamente il meccanismo che sta pure alla base della sua pittura, fondata su un gioco proiettivo nel quale Fioroni si offre allo sguardo altrui attraverso le immagini che realizza. Colpisce la particolarità di questa azione, in primo luogo perché in essa l’aspetto performativo, basato sulla flagranza irripetibile dell’evento, sulla percezione diretta ed immediata dell’accadimento, viene qui quasi negato, come cristallizzato e chiuso dentro ai contorni dell’immagine che si vede guardando nello spioncino. Fioroni pone una distanza, un filtro tra ciò che accade e chi lo vede, dando vita ad una sorta di rappresentazione ‘in scala reale’ e in questo modo l’operazione si dimostra in netta continuità con le situazioni che Fioroni mette in scena nei suoi dipinti, ancorandosi perfettamente nel percorso dell’artista che pure non aveva mai fatto ricorso ad una esperienza espressiva di questa natura, né mai più lo farà.

Un atteggiamento affine, fondato su una sorta di volontà di oggettivazione, mi sembra che Fioroni lo avesse già messo in campo nel 1967 quando, in un anno caratterizzato da interessanti sperimentazioni,[21] ha realizzato quattro film – Gioco, Coppie, Solitudine femminile e Goffredo – sui quali vale la pena di soffermarsi.

In quegli anni molti artisti, soprattutto a Roma e nell’ambito della cosiddetta Scuola di piazza del Popolo hanno realizzato dei film. È chiaro che Fioroni possa esser stata suggestionata dall’ambiente che frequentava e che sia stata così invogliata a ricorrere a un mezzo espressivo il cui utilizzo rimane un caso isolato nel pur poliedrico cammino dell’autrice. Resta il fatto che, in questa fase della sua ricerca, nella quale l’artista mette a punto alcune dinamiche espressive e di senso che poi svilupperà in seguito seppur non linearmente, questi brevi film trovano una loro ragion d’essere tutta interna al suo percorso e non riferibile solamente a spunti esterni. In particolare, credo che la scelta di ricorrere alla cinepresa risponda anch’essa a quel desiderio di allontanarsi da sé, di concedersi la possibilità di guardare dall’esterno il proprio racconto – non privo d’intonazioni apertamente autobiografiche – che risulta evidente anche nella Spia ottica, e poi nei Teatrini.

Il registro su cui si collocano, più esplicitamente Gioco e Coppie, è quello del cinema amatoriale, secondo un atteggiamento che denota già una partecipazione, una sorta di coinvolgimento affettivo, che rimanda alla dimensione del cinema personale, ad una dinamica circolare, ad una dialettica tra soggettività e oggettività. Come se si trattasse di filmini di famiglia, Fioroni sceglie di immortalare i suoi amici, i suoi affetti (si possono riconoscere tra i protagonisti dei film Umberto e Silvia Bignardi, Talita e Paul Getty, Pino Pascali e Goffredo Parise) e li insegue con la camera nel gioco, nell’intimità esibita, riproponendo una registrazione immediata, quindi apparentemente non costruita, di brani di vita. Tale dimensione coinvolge lo spettatore in un gioco totale di rispecchiamenti, in cui egli si identifica con lo sguardo di Fioroni, la quale a sua volta partecipa emotivamente alla scena rappresentata, che pur non vedendola coinvolta assume il sapore di un diario autobiografico nel quale l’autrice mette in campo il suo essere, il suo sentire.

Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Gioco, 1967Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Gioco, 1967Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Gioco, 1967

In Gioco il tono è quasi surreale e, senza una partitura narrativa precisa, vediamo messa in scena un’azione che da intima diventa ostentata: Pino Pascali è il protagonista che, con una maschera di gusto sado-maso, si sottopone ad una depilazione, mentre viene guardato da dietro un cespuglio, mettendo sul piatto il tema del voyeurismo che, come si è detto, è un cardine del suo lavoro e anticipa il meccanismo su cui si fonda il senso della Spia ottica. Anticipazioni letterali di quest’originale performance si possono cogliere anche in Coppie, un secondo corto girato nel medesimo 1967.

Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Coppie, 1967Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Coppie, 1967

Questa volta al centro dell’attenzione sono gli atteggiamenti affettuosi, in realtà non privi di riferimenti più apertamente erotici, delle coppie di amici dell’artista. Ancora una volta l’atmosfera è straniante, alcuni gesti plateali (Bignardi che strappa il vestito di dosso alla moglie, lasciandola parzialmente nuda davanti all’occhio della cinepresa) si inseriscono in uno scorrere della cinepresa tra gesti quotidiani e momenti intimi, colti spesso da punti di vista originali, quando non un po’ spericolati. Lo sguardo di Fioroni indugia soprattutto sulle movenze e i comportamenti delle donne, sui loro gesti più tipicamente femminili – il trucco in particolare –[22] e alcune inquadrature, incentrate sugli atteggiamenti liberi e spontanei delle protagoniste, sembrano proporre la medesima visione offerta agli spettatori che guardavano dal buco della Spia ottica. Ancora più stretto è il legame tra quella performance e Solitudine femminile, un breve film che fu proiettato alla Galleria del Naviglio nel 1969 e di cui è protagonista la poetessa Rosanna Tofanelli Guerrini. Sin dalle prime inquadrature appare chiara l’impostazione del film: il corpo e il viso della protagonista vengono messi continuamente, e provocatoriamente, in relazione con immagini stereotipate da rotocalco, da rivista femminile, che restituiscono la donna che il sistema propone.

Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Solitudine femminile, 1967Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Solitudine femminile, 1967Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Solitudine femminile, 1967Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Solitudine femminile, 1967

Anche in questo caso, Fioroni non si limita a registrare fatti o azioni. La protagonista è seguita nel suo fare quotidiano, secondo l’idea che sostiene pure La spia ottica, ma sottoposta ad un gioco di confronti che in alcune inquadrature divengono vere sovrapposizioni con immagini di altri corpi e altri volti, che incarnano gli stereotipi sulla femminilità diffusi dai media, con la quale la donna è obbligata a misurarsi, giungendo ad un risultato straniante. Come in altre sue opere, Fioroni denuncia, con un linguaggio chiaro ed efficace seppur scevro di toni aggressivi, la condizione della donna, riprendendo il discorso da lei spesso affrontato anche nei dipinti a soggetto femminile, nei quali spesso mette in luce il dominio delle convenzione sull’immagine della donna.[23] L’utilizzo della telecamera, però, è un elemento significativo. Giustamente Celant osserva come

il processo di dislocazione praticato dall’artista perverte il reale e mette al centro la motivazione di un esserci ‘spiazzato’ e spiazzante che il film svela, rendendolo feticcio ed entità consumabile per altri. Ma perché ciò succeda è necessario per Fioroni che la figura sia sempre percepita in un recinto, che può essere il perimetro della tela dipinta, o l’inquadratura della fotografia e del cinema. Solo attraverso l’oggettivazione della soggettivazione, che rende il soggetto prodotto da consumare allo sguardo dell’altro, l’artista esce dall’autobiografico e trasmette e testimonia la totalità del soggetto, come distanziata e distaccata.[24]

È, infatti, evidente che in tutti questi casi Fioroni metta in atto una dinamica simile a quella della performance romana, nella quale il gioco dialettico tra chi guarda e chi è guardato viene arricchito dal fatto che l’autrice si identifica nell’attrice, che mima la sua quotidianità proprio nella camera da letto di Fioroni, ma non implica direttamente se stessa, tenendo un distacco che pone lei stessa nella duplice, paradossale condizione di colei che guarda e di colei che è guardata, cioè ancora una volta è come se Giosetta guardasse se stessa. Come nei film, il paradosso è che l’autrice fa in modo che l’azione si trasformi in immagine, poiché la percezione che si può avere dall’esterno degli accadimenti è mediata da un sistema ottico, che sembra assumere un ruolo oggettivante, distaccando, seppur in senso più simbolico che effettivo, il tempo della visione dal tempo dell’azione.

A proposito di tale intervento, Maurizio Calvesi ha scritto:

Giosetta, a un certo punto, ha in comune un modo con Duchamp: il buco da cui si spia un interno che è con psicoanalitica (cioè non evidente) evidenza, pur se dunque inconsciamente, il desiderio di spiare il Grembo attraverso al vagina. Rifugiarsi là, nell’intimità di quella stanza dove Giuliana Calandra si gode il tepore delle lenzuola, ‘mentre gli spettatori uno per uno facendo la fila, godono la falsa intimità della scena’. Bisognerà ammettere l’identificazione dell’autrice con l’attrice, e le molteplici implicazioni: Giosetta partecipa una propria aspirazione all’intimità; l’intimità – rifugio della stanza che la accoglie adulta (ma anche adulta è bambina) è una proiezione dell’intimità – rifugio dell’utero; la curiosità retrospettiva di Giosetta per il proprio passato si spinge, nel desiderio, fino a curiosare nell’orifizio materno; ma al tempo stesso altri vi curiosano, e Giosetta, adulta-bambina, si esibisce in questa intimità, contraddicendola, ovvero rivelandone la candidatura erotica; Giosetta attende la fecondazione degli sguardi, per ri-nascere dall’estremo stadio regressivo in cui si è spinta.[25]

La medesima spinta narcisista ed esibizionista, che si coniuga con questa pulsione regressiva, Calvesi la coglie chiaramente, e giustamente, nei Teatrini, nei quali l’artista mette nuovamente in scena se stessa, attingendo ad una temporalità personale per arrivare ad una dimensione quasi assoluta, quella cifra fiabesca, che connota il fare di Fioroni sino alle opere più recenti: da quel momento infatti l’artista sviluppa le premesse che qui si erano poste e la sua figurazione, che si arricchisce a volte di piccoli oggetti composti in essenziali forme di collage, altre volte di frasi o scritte che rafforzano le valenze dell’immagine, resta imperniata intorno ad atmosfere stranianti, quando non esplicitamente angoscianti, che si pongono ogni volta come una ulteriore tappa del viaggio intorno a se stessa in cui Fioroni ci accompagna per mano: quasi un manifesto, in questo senso, la scultura in resina in cui l’artista prende per mano se stessa bambina (Giosetta con Giosetta a nove anni del 2002).

Giosetta Fioroni, Casetta teatrino, 1968Giosetta Fioroni, Giosetta con Giosetta a nove anni, 2002

Fioroni ha presentato i suoi teatrini[26] in occasione della mostra inaugurata al Naviglio a Milano l’8 aprile del 1969, intitolata Oh! Quante belle figlie Madama Doré. Questi lavori, dunque, per quanto apparentemente di marca differente, si devono invece leggere come un lineare sviluppo rispetto alla Spia ottica: l’artista ricostruisce minuziosamente gli ambienti all’interno di ogni teatrino e fornisce allo spettatore la possibilità di guardare dentro, attraverso uno spioncino, andando così a curiosare in un mondo interiore, nascosto, come fosse l’intimità dell’artista. Ancora una volta si impone quel rimando all’età infantile, quando la madre costruiva per Giosetta universi in miniatura, nella quale l’autrice continua e continuerà a cercare se stessa. Lo stupore, la meraviglia, il disagio misto a piacere che colgono chi viola questi piccoli scrigni ricchi di oggetti e di suggestioni, ancora una volta costringono lo spettatore alla condizione psicologica del voyeur e spingono a identificare l’esperienza artistica con un’operazione di scoperta intima, di interpretazione simbolica. Gli oggetti, con tutto il loro bagaglio di memoria ed esperienza che custodiscono, diventano dei dispositivi capaci di scatenare pensieri ed emozioni. Tale mediazione risulta evidente anche nel quarto e ultimo film che ha realizzato Fioroni in quello stesso periodo, al quale mi pare opportuno dedicare una riflessione: Goffredo, che rispetto ai tre precedentemente citati, ha una differente natura, una particolarità che in qualche modo si lega proprio al potere degli oggetti, dei luoghi, dell’arte. Infatti, la macchina qui si muove non ad inseguire un’azione e nemmeno il protagonista, Goffredo Parise; con la cinepresa l’autrice raccoglie reperti, colleziona testimonianze visive, muovendosi in un universo di oggetti, che potremmo in qualche modo definire ‘d’affezione’, di immagini, di ritratti fotografici, di scritti, i quali, attraverso il montaggio in sequenza veloce, vanno a costituire un ritratto poetico dello scrittore, riuniti in un racconto per immagini.

Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Goffredo, 1967Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Goffredo, 1967Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Goffredo, 1967 Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Goffredo, 1967

Vediamo così scorrere di fronte ai nostri occhi foto di Parise da bambino, da giovane, particolari di un ritratto che gli ha fatto la stessa Fioroni (Ritratto di Goffredo Parise, una carta del 1965), copertine di suoi scritti come Il ragazzo morto e la cometa e Cara Cina, opere d’arte del passato e del presente, pagine di riviste, oggetti di luoghi e persone, che allo scrittore in qualche modo si riferiscono.

Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Goffredo, 1967Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Goffredo, 1967Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Goffredo, 1967Giosetta Fioroni, fotogramma dal film Goffredo, 1967

Un racconto visivo, in assenza diretta: il protagonista viene evocato ma non compare mai direttamente, non si è mai trovato di fronte alla macchina.[27] La modalità con cui Fioroni costruisce questa narrazione, di matrice poetica, è analoga a quella con cui spesso l’artista si misurerà, conducendoci in un viaggio nel suo mondo, nel quale anche lei con noi si immerge, ogni volta alla ricerca di nuove suggestioni attraverso tutti gli elementi che hanno fatto parte del suo vissuto.

 


1 M. Meneguzzo, Affondo nella superficie. 1956 – 1971: i primi quindici anni di Giosetta, in M. Meneguzzo, P. Mascitti, E. Bottazzi (a cura di), Giosetta Fioroni. Roma anni ’60, catalogo della mostra, Museo Marca, Catanzaro, 4 giugno – 31 agosto 2016, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2016, p. 20.

2 La più recente occasione in cui Fioroni ha ribadito al sua posizione è in Breve dialogo tra Giosetta ed Elettra, in M. Meneguzzo, P. Mascitti, E. Bottazzi (a cura di), Giosetta Fioroni. Roma anni ’60, p. 29.

3 U. Apollonio (a cura di), XXXII Esposizione Biennale Internazionale d’Arte, catalogo della mostra, Venezia, 20 giugno – 18 ottobre, Venezia, Stamperia di Venezia, 1964.

4 Per tutte le questioni attinenti al rapporto con la fotografia si rimanda al saggio di Raffaella Perna in questo stesso numero.

5 M. Calvesi, ‘Intervista a Giosetta Fioroni’, Marcatrè, 8-9-10, 1964, p. 235.

6 A tale proposito rimando a G. Celant, Giosetta Fioroni, Milano, Skira, 2013 e all’originale contributo di Gloria Bianchino in G. Bianchino, Giosetta Fioroni, catalogo della mostra, Salone delle Scuderie in Pilotta, Parma, 6 marzo – 18 aprile 2004, Milano, Skira, 2004.

7 G. Celant, Giosetta Fioroni, p. 28.

8 Ivi, p. 52.

9 R. Perna, Lo sguardo obiettivo della Scuola di Piazza del Popolo: alcune riflessioni sui rapporti fra arte e fotografia a Roma intorno al 1963, in Roma Pop City 1960-1967, Roma, Manfredi Edizioni, 2016, pp. 57-58.

10 T. Trini, ‘Mostre a Roma Milano Genova’, Domus, 450, maggio 1967.

11 Breve dialogo tra Giosetta ed Elettra, in M. Meneguzzo, P. Mascitti, E. Bottazzi (a cura di), Giosetta Fioroni. Roma anni ’60, p. 28

12 G. Bianchino, Giosetta Fioroni.

13 Esemplare in questo senso un lavoro duro e intenso come la serie Foto tratte da un atlante di medicina legale, presentate tutte insieme per la prima volta alla Libreria & Galleria Pan di Roma nel maggio del 1976.

14 G. Fioroni, Brochure della mostra Giosetta Fioroni, Galleria L’Indiano, Firenze, 7-17 marzo 1970.

15 G. Parise, ‘Alla ricerca dell’infanzia perduta’, Bolaffi Arte, 48, aprile 1975.

16 La polisemia del linguaggio di Giosetta Fioroni è stata recentemente oggetto di specifica riflessione in B. Carpi De Resmini, Oltre la pittura. Le tecniche artistiche nell’opera di Giosetta Fioroni, in Silvia Bordini, Le tecniche dell’arte contemporanea: le pratiche video: Introduzione, Napoli, ScriptaWeb, 2006.

17 ‘Dialogo tra Plinio De Martiis e Giosetta Fioroni’, Made in, Bollettino della Modern Art Agency, Dicembre 1968, Napoli.

18 Fioroni ha presentato queste suggestive opere realizzate con la luce in tre occasioni: nel 1970 a Roma, alla Galleria La Tartaruga e in occasione della celebre mostra Vitalità del negativo l’anno successivo a Milano, alla Galleria del Naviglio.

19 G. Celant, Giosetta Fioroni, p. 166

20 G. Simi, Rivoluzioni in cerca di sé: il Sessantotto intermediale di Giosetta Fioroni, in L. Cardone, S. Filippelli (a cura di), Filmare il femminismo. Studi sulle donne nel cinema e nei media, Pisa, ETS, 2015, p. 235.

21 Sempre nel 1967, infatti, Fioroni realizza i costumi di una edizione della Carmen, per il teatro Comunale di Bologna, con la regia di Alberto Arbasino e le scene di Vittorio Gregotti. Secondo le indicazioni del regista, Fioroni traduce tutta la simbologia visiva legata alla Spagna in una dimensione pop, utilizzando materiali originali, dal panno alla gomma piuma, dalla plastica al metallo.

22 Non dimentichiamo che nel marzo del 1967, in occasione della già citata mostra Donne in serie al Naviglio, Fioroni insiste proprio su questi temi: «la Fioroni si è ispirata all’artificio che distingue oggi le donne, sempre più simili fra loro, come manichini – mi dice – e sempre più somiglianti a delle maschere, con trucchi, posticci e altre finzioni» (Berenice, ‘La donna in serie’, Paese Sera , 18 marzo 1967). Già nel 1958, d’altro canto, in occasione di un’esposizione collettiva alla Galleria La Salita di Roma intitolata Mostra di oggetti d’uso ideati e realizzati dagli artisti, cui partecipano Aldo Mondino, Fabio Mauri, Titone, Giulio Paolini, Colombo, De Vecchi, Boriani, Schifano, Bignardi, Fioroni, Baruchello, Fioroni realizza i cosmetici e gli articoli da toilette.

23 In merito alla posizione di Fioroni rispetto alle rivendicazioni delle donne in quegli anni, mi pare significativo anche il suo rapporto con Giulia Niccolai, fotografa, artista e scrittrice, poi attiva nelle battaglia femministe. All’interno del film, infatti, compare in una inquadratura un foglio su cui è scritto che il titolo Solitudine femminile è della Niccolai. Inoltre, sulla copertina del suo romanzo Il grande angolo, edito da Feltrinelli nel 1966 compare la tela Doppia maschera che Fioroni ha licenziato in quello stesso anno.

24 G. Celant, Giosetta Fioroni, p. 44.

25 M. Calvesi, Giosetta e Cupido, in G. Fioroni, M. Mussio (a cura di), Giosetta Fioroni, Pollenza, La Nuova Foglio Editrice, 1976, p. 16

26 I teatrini sono realizzati in tipologie lievemente differenti: teatrino chiuso, con lente nel centro per guardare all’interno o con due lenti per guardare da diversi punti di vista, e teatrino aperto, che si può guardare a occhio nudo.

27 Vale la pena di sottolineare come questa modalità di costruire un film, attraverso un montaggio di immagini fotografiche, risulti particolarmente interessante a quell’altezza cronologica, quando questi modi ancora non si erano diffusi come è avvenuto in tempi più recenti.