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La ricerca di Giosetta Fioroni si caratterizza, sin dagli anni giovanili, per la sua articolata complessità.  Tutto il percorso dell'artista si snoda però attorno ad alcuni temi ricorrenti, che costituiscono il filo rosso del lavoro di una vita e che sono affrontati da Fioroni attraverso differenti linguaggi. Questo intervento si concentra proprio sulle opere in cui Fioroni, facendo ricorso a soluzioni espressive per lei inusuali (dalla performance al cinema), ripropone le tematiche a lei care, mettendo in luce tutto lo spessore che è tipico del suo lavoro, sia sul piano linguistico, sia su quello dei contenuti.

Since the early years of her artistic research, Giosetta Fioroni’s work is characterized by an articulated complexity. All of the artist's career winds around some recurring themes which represent the common thread of her life's work and are faced through different languages. This essay focuses on the works in which Fioroni iterated her dearest themes through the use of expressive solutions (performance, cinema) that were unusual for her, highlighting the peculiar profoundness of her work, achieved linguistically and in the contents as well.

 

Nel catalogo della più recente mostra di Giosetta Fioroni, incentrata sull’attività dell’artista negli anni Sessanta, Marco Meneguzzo apre il suo saggio introduttivo ponendo la complessità della ricerca dell’autrice come elemento fondante di tutta la sua disamina, una complessità che risulta, quindi, ben evidente sin dai lavori che Fioroni realizza nel corso di quel decennio, nei quali essa trova tuttavia «una forma apparentemente semplice, apparentemente categorizzabile» nel riferimento alla pop art, o meglio alla cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo, anche se «tutt’altro che schematica».[1] In effetti, sin da quel tempo, la posizione di Fioroni è caratterizzata da modi decisamente personali e lo spessore della sua ricerca emerge soprattutto nel rapporto con la pop art americana, rispetto alla quale l’artista stessa ha in più occasioni preso convincentemente le distanze.[2] Anche i suoi famosi ‘argenti’, cui inizia a lavorare nel 1963 e che espone alla celebre biennale veneziana del 1964,[3] hanno caratteri ben differenti rispetto a quelli che caratterizzano l’immaginario pop. Tale diversità si gioca su più piani, su differenti registri e nel mettere in luce tutta l’articolazione del lavoro di Fioroni ne suggerisce sin da quel momento la fertilità degli sviluppi, evidenziandone pure la capacità di risolversi in una coerente per quanto aperta linea di ricerca che, nonostante i frequenti slittamenti linguistici, s’incentra intorno ad alcuni temi forti e ricorrenti i quali, come un filo rosso, collegano esperienze espressive soltanto apparentemente di segno diverso.

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Il 23 febbraio del 2016 la redazione di Arabeschi ha incontrato a Roma Giosetta Fioroni, artista di rara sensibilità e straordinaria potenza visiva. Dentro la cornice del suo studio, luogo di incanti e fervida immaginazione, Fioroni ha ripercorso le tappe salienti della sua avventura disegnando con la sua voce quadri e paesaggi tutti da ascoltare.

Riprese audio-video: Maria Rizzarelli, Simona Sortino; Montaggio: Simona Sortino; Animazione: Gaetano Tribulato.

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Giosetta Fioroni (1932), pittrice italiana, scultrice, fotografa, regista e anche scrittrice, è un’instancabile artista che vive a Roma, la sua città natale. La vocazione all’arte è di famiglia; il padre scultore e la madre che dipingeva e faceva teatrini e marionette la vuole artista. Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Roma dove diventa allieva di Scialoja grazie al quale conosce Burri e l’Informale materico, le esperienze d’oltreoceano di Rauschenberg e Pollock, il cinema americano di Buster Keaton, ma anche il teatro francese e le avanguardie russe, Diaghilev e Stanislavskij.

Partecipa alla VII Quadriennale di Roma del 1955 ed è presente l’anno successivo alla XXVIII Biennale di Venezia. Nel 1957 è Emilio Vedova che tesse parole di elogio per i suoi dipinti astratti, «un’antipittura esistenziale», in una lettera inclusa nel catalogo della sua prima mostra a Milano.

Nel 1958 Fioroni frequenta l’amico Cy Twombly, pittore che, ispirato dalla mitologia classica e dal genius loci della Città Eterna, riempie di frasi, scritture e segni i suoi quadri di puro bianco; calligrafie di grande valenza estetica, nervose e incomprensibili ma raffinate e malinconiche, un pittore attento alla scrittura come lo sarà la stessa Fioroni che in quegli anni abbandona l’informale.

Lo stesso anno, mentre tutti guardano New York, Giosetta Fioroni parte per Parigi. Vivrà nella capitale francese fino al 1962. Qui conosce Tristan Tzara e gli altri dadaisti, respira l’aria del Surrealismo, si lascia incuriosire dal Nouveau Realisme e dal Neocubismo, incontra pittori, certo, ma è da sempre attratta dalla parola e dalla sua potenzialità iconica, così frequenta filosofi, scrittori e poeti, molto meno critici d’arte. Pierre Klossowski, Giancarlo Marmori, Samuel Beckett, Germano Lombardi sono gli amici che incontra nei caffè di Parigi, città che accoglie pure una sua personale.

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