Per un sillogismo quasi perfetto se è vero che un ventennio della vita di Goliarda Sapienza è dedicato all’arte della decima musa, e se è evidente che la maggior parte delle sue opere ha una esplicita marca autobiografica, sembra abbastanza ovvio e prevedibile concludere che il cinema sia una delle materie prime che nutrono la sua scrittura, per i temi, le immagini e le prospettive visuali che da quel mondo provengono e a quel mondo rimandano. Tale presenza tematica costante è un dato acquisito ed è stato messo a fuoco sin da subito dalla critica, che si è soffermata ora sulle tracce lasciate nelle sue pagine dall’esperienza di ‘cinematografara’,[1] ora sulla dimensione visiva della scrittura,[2] ora infine sulla più o meno ignota attività di (co)sceneggiatrice.[3] Facendo tesoro di questi importanti contributi si vorrebbero incrociare le acquisizioni che da essi derivano all’insieme delle altre molteplici prospettive di indagine applicate ai testi di Sapienza, per mostrare come le varie declinazioni dei temi provenienti dall’immaginario di celluloide intercettino altri motivi dominanti. In questa occasione si vuol soprattutto concentrare l’attenzione su un testo emblematico da questo punto di vista, Io, Jean Gabin, che rende evidente dalla lettura di ogni pagina la necessità di un’indagine volta a gettar luce sulle implicazioni identitarie insite nel modello di spettatrice narrato da Sapienza, tenendo conto del contesto culturale e della geografia sociale in cui è ambientata la sua Bildung.
1. La giornata di una spettatrice
Che la formazione riguardi principalmente la dimensione dello sguardo, che esso sia il vero protagonista della storia, che quella narrata sia la genesi di una visione del mondo e della vita è evidente sin dall’incipit del racconto. Io, Jean Gabin, romanzo postumo che si aggiunge agli altri capitoli dell’«autobiografia delle contraddizioni»,[4] dalla prima pagina esibisce una complessa trama di rimandi visuali e un fuoco incrociato fra dispositivi che annunciano gli assi tematici attorno a cui ruotano i ricordi di una Goliarda bambina, ritornata ancora una volta con la memoria nei vicoli del quartiere di Catania dove ha trascorso l’infanzia.
Io, che con Jean Gabin ho imparato ad amare le donne, mi trovo ora con la foto di Margaret Thatcher davanti – sul giornale, beninteso, che da buona cittadina postrivoluzione francese compro tutte le mattine –, e comincio a pensare che qualcosa non è andato per il verso giusto in questi ultimi trent’anni di democrazia. Jean Gabin non ne sapeva niente di lady di ferro, donne poliziotto, soldate e culturiste. I suoi occhi azzurri – di Jean intendo – sognavano una donna che fosse come un fiume, un grande fiume languido e vertiginoso che andava a nutrire con le sue acque limpide il mare. Questo ho imparato da lui, e per me la donna è stata sempre il mare.[5]
Come in Lettera aperta e ne Il filo di mezzogiorno, anche qui la ricerca del tempo perduto procede a ritroso, a partire dall’impasse che ha oscurato il legame fra il presente e il passato; anche qui, come negli scritti precedenti, il primo passo che l’io compie per riallacciare i fili della sua storia è quello di rivolgersi a una figura importante per la sua formazione (in Lettera aperta il prof Jsaya e ne Il filo di mezzogiorno Nica); ma in questo romanzo la dimensione visuale è marcata dal riferimento a una foto e a un’immagine di celluloide scelte per rappresentare la distanza fra l’oggi e tutti i suoi ieri.[6] Del resto, il racconto à rebours, perfettamente in sintonia con lo stile della narrazione memoriale di Sapienza, procede qui con un flashback la cui ascendenza cinematografica viene confermata nelle pagine successive dalla citazione di uno dei film più celebri della storia del cinema costruita tutta a partire da un inversione temporale. Il rimando a Le jour se leve – Alba tragica (1939) di Marcel Carné, oltre a rivelare immediatamente la predilezione per il divo del cinema francese, che diviene in queste pagine un vero e proprio interlocutore dei pensieri e delle azioni della protagonista, nasconde anche un preciso modello narrativo.
Come il personaggio (François) del film, a colloquio con le sue memorie, ricostruisce gli eventi che lo hanno condotto alla situazione presente, così la Goliarda adulta prova a riflettere su ciò che «non è andato per il verso giusto», in un gioco costante di specchi in cui la sua storia si riflette e si riverbera su quella del contesto in cui è nata e cresciuta e tenta di illuminare le strade che l’hanno condotta al suo presente, condensando il percorso della sua infanzia nel ricordo di uno spazio di tempo alquanto breve, incorniciato dalla rievocazione di due pellicole animate dalla presenza di Jean Gabin.
Il romanzo si apre, infatti, con la visione di Pépé le Mokò – Il bandito della Casbah (1937) e si chiude con quella di Le quai des brumes – Il porto delle nebbie (1938), mentre la maggior parte del racconto si concentra sul ricordo di una giornata trascorsa nel tentativo di recuperare il denaro necessario per poter vedere il film interpretato dal divo amato.
Il cinema è legato a doppio filo con le scelte messe in atto dalla scrittrice in questo testo anche nella misura in cui esso è esplicitamente inteso come arte della memoria:[7]
Rivedere le pellicole di Jean Gabin: sapevo come fare. Chiudendo gli occhi ripassavo una per una tutte le scene davanti allo schermo della memoria che possedevo fortissima come tutti quelli che del resto si guadagnano il pane e la libertà giorno per giorno. Per essere bandito, ladro, o solo ribelle, bisogna avere soprattutto memoria, altrimenti sei fottuto (IJG, p. 8).
Al di là del nesso spettatrice-attrice-scrittrice, che segna il percorso sui generis della formazione di Goliarda bambina protagonista di questi ricordi, la re-visione delle scene dei film «davanti allo schermo della memoria» situa Sapienza entro un modello di spettatorialità tipico della sua generazione. Un modello che si pone al di qua dell’invenzione delle tecnologie di riproduzione domestica dei film, in un orizzonte dunque in cui le figure apparse sul grande schermo finiscono per acquisire la rarefatta materialità dei fantasmi della memoria,[8] mantenute in vita solo attraverso un esercizio mnestico che qui viene rafforzato dall’abitudine di raccontare ai coetanei abitanti nel suo quartiere le storie degli eroi e delle eroine del grande schermo (cfr. IJG, pp. 20-21), svelando sin da subito gli intrecci fra vocazione performativa e tensione narrativa che caratterizzano il suo originale percorso di formazione. Intrecci che si riflettono anche nella peculiare interpretazione della Bildung di Sapienza, che non rinuncia mai alla libertà del divenire e che intende la formazione delle sue personagge come un processo dialettico mai concluso. [9] Del resto, l’autobiografia della spettatrice contenuta in Io, Jean Gabin, nell’enfatizzare il valore totalizzante rappresentato dal cinema come fonte primaria di alimentazione dell’immaginario della protagonista, risulta perfettamente coerente con il paradigma dell’audience cinematografica di tutta la sua generazione.[10] Le affermazioni di Sciascia («il cinema era allora tutto. Tutto»)[11] o di Calvino («il cinema è stato per me il mondo»)[12] e di molti altri autori loro coetanei valgono anche per Sapienza, che con questo romanzo si mostra in sintonia con una letteratura che celebra l’«età dell’oro della cinefilia» e considera il cinema come l’esperienza più rilevante dei propri ricordi, perché legata al tempo stesso all’«iniziazione all’amore e alla politica».[13]
Alla stregua di altri scrittori, la ragazzina protagonista di Io, Jean Gabin ha vissuto il cinema come un’esperienza che si consuma nella triangolazione fra la sala, lo schermo e la relazione con gli altri spettatori. Nelle memorie della spettatrice Sapienza si possono riconoscere almeno tre della quattro categorie di tematizzazione della decima musa enucleate da Emiliano Morreale e Mariapoaola Pierini nell’antologia Racconti di cinema.[14] Come dimostrano le storie raccolte in questa silloge, il cinema ha offerto alla letteratura, attraverso le fantasmagorie alimentate dallo star system hollywoodiano, nuove figure pronte a farsi personaggi da romanzo (i divi, ma anche le varie comparse, le maestranze e tutti coloro che girano attorno al fantastico mondo dello spettacolo), e contemporaneamente si è prestata a diventare simulacro della vita stessa. Allo stesso tempo ha creato un nuovo personaggio: il soggetto della visione, quello dello spettatore che vive il rapporto con il divo come «una relazione amorosa, talvolta erotica, mai consumata».[15] La protagonista della storia narrata da Sapienza percepisce la propria condizione di spettatorialità per certi versi in modo abbastanza canonico, avverte «il divario tra lo schermo e la platea» e si lascia nutrire, come tutti, dal desiderio «di ridurlo il più possibile, di cancellarlo».[16] Situa, tuttavia, la sua esperienza cinematografica in uno spazio definito, in un microcosmo che rispecchia i rapporti di forza esistenti all’esterno della sala.
Già nel primo capitolo la giovane spettatrice sembra cosciente del rapporto dialettico fra il suo sguardo e quello degli altri frequentatori del cinema Mirone; la relazione fra i suoi occhi (che si identificano con quelli di Jean Gabin) e quelli della donna che appare sul grande schermo si consuma in uno spazio in cui sono presenti altri occhi, che hanno a loro volta una diversa considerazione dei personaggi del film:
Bastava staccare gli occhi dallo schermo dove lei, bianca e ovattata, soffusa dalla luce-splendore dello sguardo di Jean, si faceva forza per non piangere e fare il nome del suo torturatore (sapendo la potenza di questi, desiderando che Jean non corresse rischi per difenderla); bastava staccare lo sguardo, dicevo, da quegli occhi tristi appena velati di lagrime trattenute e guardarsi intorno nella platea per capire che tutti quei mostriciattoli, femmine e maschi, nascondevano sotto la falsa ammirazione l’odio per la perfezione di quel viso che li umiliava (IJG, p. 4).
La preoccupazione per il giudizio del pubblico che la circonda, oltre a marcare il divario fra gli sguardi che si posano sulla medesima figura di celluloide, mostra la labilità del confine fra quella che Calvino, nella sua Autobiografia di uno spettatore, considera invece una linea di demarcazione molto netta fra il «mondo di fuori» e quello di «dentro».[17] A differenza dello scrittore ligure, Sapienza è consapevole del sottile filo di continuità che lega la sala al contesto del quartiere in cui è collocata. La lite (che racconta di seguito) con Concetta e la madre, due donne che hanno osato commentare ad alta voce l’apparizione della diva sullo schermo, manifestando diffidenza e incomprensione per una bellezza così lontana dai canoni della loro vita quotidiana, dimostra proprio come il cinema Mirone rappresenti una delle stazioni (sebbene non sia l’unica è però quella a più alta valenza simbolica per la costruzione dell’immaginario di Sapienza) della mappa del Bildungsroman[18] della protagonista, che vive in perfetta osmosi con lo spazio in cui è collocato.
L’altra scena del romanzo che si svolge dentro al cinema Mirone, nel tredicesimo capitolo, riconferma, verso la conclusione, questa asimmetria di sguardi ed evidenzia la consapevolezza della protagonista di essere una spettatrice atipica, la cui eccentricità rispetto al contesto la rende però la destinataria privilegiata del messaggio anarchico e libertario incarnato dal suo eroe. Immersa nella calca di «cento fiati affamati di pellicola», che entrano nella sala in cui sta per essere proiettato Il porto delle nebbie, la piccola ‘donna della folla’ sente di essere parte di un rito collettivo al quale non può aderire se non rimarcando una certa presa di distanza dal resto del pubblico:
Dentro sono la sola nella prima fila della galleria. È l’unica raccomandazione di mio padre: «Solo in galleria mi raccomando, non è per disprezzare il popolo, è che il popolo è quello che è, col tempo vedrai». Col tempo quei veri e propri animali che sputano in terra e in aria (fanno a chi fa il tiro più alto), si danno pacche, a volte si levano anche le camicie – se camicie si possono chiamare –, le sventolano, urlano, si chiamano con parole che solo a ricordarle le gambe tremano, si sdraiano in terra o russano oscenamente, è possibile che cambieranno? Non mi sembra possibile ma ognuno ha il suo sogno e io rispetto il sogno di mio padre come lui rispetta il mio. Se non fosse così vi sembra che un avvocato di grido permetta che la sua carusa vada al cinema sola alle due del pomeriggio – anche se in galleria – e ce la lasci fino a sera tardi? Anche se lassù c’è uno di quei dolcissimi delinquenti falliti che mio padre ha «sistemato» come sorvegliante e che con la lampadina tascabile ogni tanto nel buio illumina un cerchio intorno a me per verificare che nessuno mi tocchi (IJG, pp. 76-77).
Dentro il racconto della sala piena di fumo e di «sentore di fritto, dolciumi e sudore», in cui si riconosce un paradigma di spettatorialità che ha trovato ospitalità in molte pagine e in diversi film,[19] si avverte quello scarto dalla norma che segna la protagonista in ognuno dei capitoli delle sue memorie, in particolar modo in quelli in cui viene evocata la sua famiglia e la sua educazione anticonformista. Il primo dei segni di eccedenza della sua fisionomia di spettatrice è proprio quella solitudine (una ragazzina che negli anni Trenta andava al cinema da sola è certamente un’anomalia), che per un verso rappresenta il presupposto della libertà del suo sguardo, per altro traccia un confine fra sé e il resto del pubblico. Libertà ed eccentricità sono, del resto, riconosciute dalla voce narrante come le due facce della comune eredità ricevuta dalla famiglia, che ha scelto per la piccola Goliarda spazi alternativi a quelli deputati all’educazione canonica di una ragazzina benestante. La formazione della protagonista di Io, Jean Gabin si compie, infatti, non a casa e a scuola, come per tutte le coetanee della media borghesia, ma nelle strade del quartiere di San Berillo e al cinema. Alla voce del padre, evocata nel passo precedente, fa eco quella della madre che torna alla memoria di Sapienza proprio per affermare la fiducia nel valore pedagogico delle arti e della cultura:
«Il cinema col tempo diventerà un mezzo formidabile per diffondere cultura e progresso, Goliarda…» – queste, ormai l’avete capito, sono frasi di mia madre – «cultura e progresso non ai soliti, pochi privilegiati, ma a masse intere di popolo». In America sembra ci siano sale da diecimila persone, incredibile! Per la musica, lo sport, il cinema appunto… Quelle meraviglie gli americani le dovevano a Roosevelt, il più grande dei democratici viventi, diecimila persone che godono e si nutrono di cultura per uscire dallo stato di semibestie come queste qui sotto e mutarsi in cittadini modello con giacca stirata, camicia pulita e cravatta di seta! (IJG, p. 77).
Nella prospettiva del romanzo di formazione narrato in queste pagine, il cinema può essere considerato come una eterotopia (nel senso attribuito al termine da Foucault), separato dal territorio in cui si trova e specchio di esso, chiuso e aperto al tempo stesso, in grado di coniugare dimensioni e profondità differenti, quella tridimensionale dell’hic et nunc della sala e l’altra bidimensionale che si apre sullo schermo. Il filosofo francese cita, infatti, il cinema (e il teatro) come esempio eterotopico capace di «giustapporre, in un luogo reale, diversi spazi che sono tra loro incompatibili».[20] Il cinema, in altri termini, all’interno del romanzo di Sapienza costituisce un cronotopo potentissimo, di fondamentale importanza perché si configura foucaultianamente come un «contro-luogo», che contiene in se stesso la capacità di rappresentare, contestare e sovvertire il luogo reale di cui è parte.[21] Se la settima arte, dunque, (in particolare il fascino per le star dell’olimpo francese) offre uno dei motivi dominanti del testo, l’altro tema ad esso legato a doppio filo è costituito dall’ambientazione del romanzo nel quartiere catanese di San Berillo, nel quale Sapienza ha vissuto fino ai primi anni Quaranta, fino a quando cioè si è trasferita a Roma con la madre per frequentare l’Accademia d’arte drammatica diretta da Silvio D’Amico.
2. La mia casbah di lava
La Catania di Goliarda Sapienza, in realtà, costituisce lo scenario dei ricordi evocati anche in Lettera aperta, ma la dimensione cronotopica del primo capitolo dell’«autobiografia delle contraddizioni» sembra costruita in maniera antitetica rispetto a Io, Jean Gabin. Nell’opera d’esordio l’asse temporale segue il ritmo franto e inquieto delle memorie dell’infanzia riemerse a fatica, ingaggiando con il passato una battaglia che lascia le sue tracce nella costruzione della diegesi, in cui si sovrappongono diversi piani del presente, che affiorano come fotografie riemerse dalla cassapanca dei ricordi.[22] Alla dilatazione e dispersione del tempo si oppone la concentrazione in un punto dello spazio che coincide con la casa dell’infanzia, il cortile del palazzo di via Pistone, da cui l’io autoriale si allontana raramente. Il rapporto con il quartiere, inoltre, in questo primo libro – nato con una chiara finalità terapeutica, in funzione del recupero da una grave crisi depressiva (e dalle conseguenti nefaste sedute di elettroshock) – «non è affatto armonico».[23] Al contrario, in Io, Jean Gabin Sapienza ‘ritorna’ a Catania, rievocando strade, piazze, case e abitanti con una leggerezza che nasce probabilmente dalla volontà di riappropriarsi dello sguardo dell’infanzia posato su cose e persone, liberandosi del peso degli anni e della lontananza. Quasi tutto il racconto sembra svolgersi nell’arco di una giornata (durata che si dilata per ellissi e divagazioni, che aprono qualche breccia nell’uniformità dell’atmosfera del presente storico), mentre la dimensione spaziale si espande. Il fulcro della narrazione ruota attorno agli spostamenti di Goliarda bambina per i vicoli della Civita; la declinazione dello spazio si amplia e si illumina dei mille volti eccentrici che popolano il dedalo labirintico di un territorio animato da una ‘disperata vitalità’. Per certi versi, raccontare la trama del romanzo equivale a disegnare la mappa dei luoghi in cui si svolge: sintetizzare la passeggiata di Goliarda da via Pistone alle stradine circostanti è come tracciare il perimetro del microcosmo dove è cresciuta la protagonista. La proiezione appassionata della narrazione verso la geografia reale e immaginaria in cui si è compiuta la formazione dell’autrice può, in qualche modo, essere letta come un’opera di resistenza, di opposizione attraverso l’arma della scrittura alla devastazione dello spazio. L’unica breccia che si apre nel continuum della temporalità dell’infanzia è offerta dall’undicesimo capitolo, che avvicina il racconto allo scenario presente della narratrice, fino ad alludere alle motivazioni che stanno alla base della genesi dell’opera: «Hanno demolito il mio quartiere e non ci tornerò mai più. Quello che non hanno fatto i fascisti, sono riusciti a farlo i democristiani» (IJG, p. 69). Il ricordo si oppone, dunque, alla trasformazione violenta di corpi e luoghi, la parola si piega sulle ferite inferte al paesaggio dell’infanzia dal piano di sventramento di San Berillo attuato negli anni Sessanta. Ma di fronte alla distruzione del quartiere, la memoria si erge non in funzione della ricostruzione storica, perché quella che conta è «un’altra memoria, che in quel quadrilatero di case e vicoli ritrovi la libertà dell’origine, della vita di Goliarda che nasceva fuori dai vincoli sociali ma ugualmente […] era destinata a lasciarsene costringere».[24]
La prima domanda relativa all’ambientazione del racconto di Sapienza riguarda il nome del quartiere, che nella finzione del romanzo viene definito la Civita (alludendo dunque a quella parte della città che rappresenta il nucleo originario e centrale della Catania rinata dalla ricostruzione settecentesca successiva al terremoto del 1693) e che, nella realtà, è invece San Berillo (quartiere confinante con la Civita, generato dell’espansione caotica del centro urbano fuori dai suoi confini e popolato prevalentemente dai ceti subalterni). Probabilmente – come sostiene Anna Carta – la sostituzione toponomastica è legata all’etimo: Civita viene da civitas, cioè luogo della collettività. San Berillo rappresenta per «sineddoche la città»,[25] il suo cuore buono e vitale. Tuttavia, non bisogna dimenticare che la Civita evocata in Io, Jean Gabin viene descritta spesso sottolineando la sua dimensione marginale, il rapporto dialettico e la tensione distintiva fra i suoi abitanti e quelli dei quartieri benestanti. Proprio per questo la relazione fra la parte e il tutto sembra declinarsi in una chiave eterotopica. La rappresentazione del quartiere in cui si svolge la vicenda raccontata da Sapienza è anch’essa a sua volta un’eterotopia,[26] un «contro spazio» o «spazio altro», articolato al suo interno in altrettanti nuclei eterotopici nei quali la marginalità antropologica si trasforma in occasione di libertà e di resistenza al potere.
La casa in cui Goliarda ha trascorso l’infanzia è stata a tutti gli effetti «un’oasi di controcultura»,[27] un’isola antifascista in una città prevalentemente favorevole al regime, in cui la scrittrice ha ricevuto un’educazione senz’altro fuori dalla norma. Nel romanzo Sapienza sottolinea in più di un’occasione la percezione dell’originalità della propria formazione a partire dalla infrazione continua del confine fra spazio pubblico e ambiente domestico. L’elogio della strada che si legge sin dai primi capitoli enfatizza la percezione di tale differenza; la protagonista intende questo stigma come un ‘contro-privilegio’ che la rende simile al divo del cinema per cui nutre una passione sconfinata. Ritiene come Jean Gabin di essere nata «non dal privilegio ma dalla strada» (IJG, p. 18) e a lei, come all’attore francese, è negata per questo motivo la comoda e conformista istruzione scolastica.
Del resto, le immagini del grande schermo forgiano lo sguardo della protagonista e il loro effetto si estende anche al di là del perimetro della sala, che viene descritto attraverso il filtro della visione cinematografica come la «mia casbah di lava» (IJG, p. 3), con una chiara interferenza del film appena visto: Il bandito della Casbah.[28]
Anche da questo punto di vista il confine che separa la sala dalla strada risulta estremamente permeabile, la lente del cinema (e del teatro, che svolge una funzione analoga),[29] agisce continuamente nel disegno della visione straniante dell’infanzia della protagonista e del suo rapporto con lo spazio in cui ha vissuto. La casbah della Civita ha la stessa conformazione claustrofobica, la medesima opposizione allo spazio della città e l’analoga ambivalente relazione libertà-reclusione del film di Julien Duvivier. Come Pépé Goliarda può esercitare la sua libertà solo dentro lo spazio chiuso del suo quartiere, ma sente ugualmente il bisogno di uscire fuori. «Meditando quanto fosse duro vivere nella casbah dove tutto si sapeva in un battibaleno, sempre con cento occhi addosso che ti spogliavano di ogni privacy e possibilità di avere dei segreti», Goliarda vive dentro la Civita di Catania come Pépé dentro la casbah di Algeri, sognando «la sterminata metropoli dove era possibile nascondersi, essere anonimi, avere un segreto» (IJG, p. 6), vagheggiando una romantica e avventurosa fuga a Parigi. L’identificazione trasgressiva con il personaggio interpretato da Jean Gabin e con lo sguardo erotico posato su Gaby è, oltretutto, strettamente connessa alla dimensione dello spazio e alla sua percezione.
L’amore di Pépé per Gaby è legato alla nostalgia per la sua città: seguire lei significa al tempo stesso seguire la strada che porta verso il mare; per Goliarda la donna «è sempre stata il mare», lo spazio della libertà assoluta e sconfinata.
C’è, inoltre, una scena in cui Pépé confessa a Tania (Fréhel) tutta la sua insofferenza per l’esilio della casbah: insieme sognano la Parigi amata e rimpianta, che forse in qualche misura ritorna in modo meno esplicito, ma altrettanto significativo nel romanzo di Sapienza suggerendo l’innesco del meccanismo memoriale e la motivazione da cui scaturisce la narrazione.
Pépé: «Sono stufo di questa Casbah che non finirà mai…».
Tania: «Lascia le tue malinconie e fai come me Pépé: quando sono troppo triste cambio epoca».
Pépé: «Cambi epoca?»
Tania: «Sì, penso alla giovinezza, guardo la mia fotografia come se fossi davanti allo specchio; metto il mio vecchio disco di quando ebbi un gran successo al Varieté del Boulevard di Strasburgo, comparivo su uno scenario campestre con un proiettore rosso puntato sul mio viso pallido e cantavo…».
La foto da giovane che Tania osserva in soggettiva, e che insieme alla canzone costituisce un breve momento di cedimento alla nostalgia, sembra trovare riscontro nella medesima situazione da cui nasce il libro di Goliarda, anche se con un meccanismo rovesciato: la foto di Margaret Thatcher, a cui si oppongono i fotogrammi del film impressi nella memoria di Sapienza, dà l’avvio al dispositivo memoriale in cui la consapevolezza dell’impossibilità del nostos è amplificata dalla doppia distanza dello spazio e del tempo, proprio come nel film citato.
La simmetria fra la visione del film di Duvivier e quella di Carné si ripropone (anche se capovolta di segno) per la sottolineatura della mancanza di confine fra la sala e la strada e per il riverberarsi della percezione dello spazio proiettato sullo schermo e di quello che attende la spettatrice nel ritorno a casa.
Classica la musica in bianco e nero si svolge fra la pioggia fitta fitta punteggiata di bianchi sorrisi, sguardi chiari appena accennati, gesti lievi di colomba nel momento più furente del dramma, quando il destino per atroce che sia si conclude in pochi gesti sobri.
Esco che è già buio da tempo e fuori – potenza dell’immaginazione o forza del mito? – cade una pioggia così fitta e nera da essere sicuri a ogni cantone d’incontrare due piccole figure bianche disperate allacciate l’una all’altra per farsi forza e sfuggire al destino che questa volta ha il volto del vecchio nero e libidinoso e potente nemico di tutte le cose belle e pure. Cammino lenta sotto la pioggia come lui, Jean, non temo il ghigno del vecchio diavolo e glielo voglio dimostrare non tremando alla visione di quei corpi lunghi di draghi neri scolpiti nella lava sotto i balconi (IJG, pp. 81-82).
In realtà, il Porto delle nebbie non si chiude con una pioggia fitta, è dunque per un’inversione del processo di assimilazione fra il mondo di fuori e quello di dentro che il ricordo della pioggia all’esterno della sala si riverbera sulla rievocazione del finale del film, aggiungendo un dettaglio in quello «schermo della memoria» che alimenta la penna e l’immaginario di Sapienza.
3. L’arte di ricominciare
Finora, nell’analisi del profilo originale della Goliarda spettatrice protagonista di queste pagine, è emerso con evidenza il distacco fra lei e gli abitanti della Civita; in realtà il rapporto dialettico tra le due visioni del cinema e del mondo presenta anche molti elementi di scambio e di profonda sintonia, che paradossalmente gettano luce sulle anomalie dello sguardo di Sapienza. Gli spazi descritti in Io, Jean Gabin come luoghi della formazione, la strada e il cinema, sembrano entrambi legati in queste pagine a un’identificazione di genere libera, fluida e anticonformista. Basti pensare al rapido passaggio in cui l’educazione erotica della piccola Goliarda viene contesa dalle prostitute e dai trans di via Buda, che le si propongono come tutori per il «momento» in cui servirà essere istruiti su come «rimbecillire un uomo» (IJG; p. 23). Su questa linea di formazione che potremmo definire ‘queer’[30] ante litteram emergono altri indizi in cui l’architettura del quartiere, la metamorfosi dello spazio e delle sue decorazioni scultoree e le transizioni di genere paiono sorprendentemente correlate. Nel quattordicesimo capitolo, che fa seguito al racconto della visione del Porto delle nebbie, dedicato alla descrizione della notte alla Civita, i mostri barocchi delle sculture dei palazzi si animano, ricordando metaforicamente, nel magma ribollente delle forme, la loro origine ctonia. Nello scenario onirico campeggia quello che Sapienza definisce «l’Architetto di lava» (IJG, p. 88).[31]
La Civita la notte, quando tutti i bassi erano chiusi, svegliava i suoi mostri scolpiti in quella pietra affilata e nera d’inferno e cominciava a risuonare tutta di gemiti, grugniti, fiati lunghi di serpenti, mori, meduse, melusine. Le cento bocche dischiuse di quegli animali mezzo uomo e mezzo cavallo, mezzo donna e mezzo serpente e mezzo uccello agitavano le code e le ali nere (IJG, p. 86).
Il fondale di questa scena soprannaturale, disegnato enfatizzando volutamente l’atmosfera tenebrosa, tende a mettere in risalto la differenza fra gli abitanti del quartiere che hanno imparato a esorcizzare quelle creature perturbanti e i malcapitati outsider, i «mezzi catanesi», che restano vittime del terrore e dello spavento.
Noi c’eravamo nati, eravamo vaccinati ma loro, quei mezzi catanesi che abitavano fuori, nei palazzi di marmo tra i giardini, non potevano entrare nel recinto magico costruito da un diavolone di architetto uscito fresco fresco dalle viscere del Monte [cioè dall’Etna] insieme alla lava ribollente, e deciso a farsi un piccolo inferno per se stesso e per i suoi simili. Appena la lava calma e solenne era calata a purificare il vecchio quartiere malfamato, questo quasi duecentocinquant’anni prima che io nascessi, e s’era composta, immensa bara purificatrice, lui magro magro tutto in smoking, dicono, con pochi gesti della mano inanellata aveva fatto spuntare in una notte sola tutto quel guazzabuglio di stradine, piazzette, vicoli, angiporti (IJG, pp. 87-88).
L’architetto («il diavolone», «il mago» – come viene definito nelle pagine successive), che ha plasmato la materia vulcanica, il magma ribollente del sottosuolo e ha trasformato il paesaggio desolato in una casbah piena di mille vicoli, viene invocato, inoltre, anche come Santo che protegge e propizia le transizioni di genere, in un’evidente analogia fra le metamorfosi e la forma ambigua e ibrida dei corpi scolpiti nella pietra e quella degli altri ‘civitoti’ in transizione. Tonino di Via Buda, infatti, dopo averlo incontrato e aver chiacchierato con lui «era diventato mezzo uomo e mezzo donna»; «Ganu asseriva di avere parlato anche lui con l’Architetto, è per questo che mostrava il culo»; e Cesare, un ragazzino amico di Goliarda, cerca di procurarsi un appuntamento con lui per un suo segreto («segreto di pulcinella! Era chiaro, voleva diventare una ragazzina», IJG, p. 88). L’attenzione di Sapienza per quest’umanità libera dalle costrizioni eteronormative dell’identità di genere, e capace di intendere la propria sessualità in una chiave performativa, deve essere messa in relazione alla predilezione per un erotismo queer, che caratterizza molte delle figure di donne che si incontrano nelle sue pagine; e che presiede in particolare alla costruzione del suo unico personaggio finzionale, ossia Modesta, protagonista dell’Arte della gioia.[32]
La funzione pedagogica attribuita al cinema dalla voce narrante in Io, Jean Gabin si esplicita anche nell’acquisizione di un’identità eversiva, che presenta provocatoriamente sin dall’incipit un’evidente eccentricità.[33] L’attore francese, evocato già dal titolo come chiara figura di identificazione, il cui fantasma accompagna in veste di tutore della Bildung del suo immaginario la Goliarda bambina che si aggira per le strade della sua infanzia, viene riconosciuto come il modello da cui la protagonista ha appreso le regole dell’amore lesbico («Io, che con Jean Gabin ho imparato ad amare le donne […]»). L’eversione della spettatrice non si limita alla frequentazione solitaria della sala, ma si estende alla lettura del film e allo sguardo che si posa sulle figure proiettate sullo schermo. L’identificazione con l’immagine del divo rappresenta qualcosa di più della conferma del paradigma del Visual Pleasure (ri)elaborato da Laura Mulvey; la «transizione del suo sesso in un altro», per certi versi, appare perfettamente conforme al paradigma di una spettatorialità femminile costretta a fare i conti con la «tradizione culturale vecchia di secoli»,[34] che cristallizza la differenza sessuale in distinti ruoli di attività-passività rigidamente contrapposti (male vs female) e lascia alle donne come possibilità di identificazione quella della «immedesimazione regressiva» con l’eroe, in quanto rappresentante dell’unica soggettività agente nella storia narrata dal film. Nell’accostamento del modello dell’agency femminile disegnata da Mulvey, circoscritta all’identificazione con la figura maschile e messa in atto attraverso un processo di mascheramento,[35] alla figura di spettatrice proposta da Sapienza è possibile cogliere il potenziale libertario e trasgressivo di una fluidità identitaria capace di rompere le gabbie dei binarismi eterosessuali, pur riaffermando con forza la consapevolezza della propria soggettività femminile.
In Io, Jean Gabin la proiezione del sé nello specchio del grande schermo è più volte esplicitamente motivata dall’assunzione dell’azzurro punto di vista del divo francese (che si indovina dietro al bianco e nero della pellicola), come modello erotico ed eroico che investe ogni aspetto dell’esistenza, ma che pone l’accento in particolar modo sulla drammaturgia degli sguardi del personaggio maschile e di quello femminile. La spettatrice protagonista di Io, Jean Gabin sente il privilegio esclusivo di poter comprendere a pieno il valore della bellezza di Gaby (co-protagonista de Il bandito della Casbah) e di Nelly (de Il porto delle nebbie), perché riesce a guardarle e ad amarle come le guarda e le ama Jean Gabin, rimanendo però donna, senza cioè dover aderire al modello opposto di uomo (come le lady di ferro e le donne poliziotto contro cui polemizza nell’incipit), ma semmai nella consapevolezza che la visione cinematografica veicola la fluidità di una scelta assolutamente libera da qualsiasi schema e dispositivo narrativo. Del resto, la volontà di evidenziare la correlazione fra la visione cinematografica e la possibilità della presenza di uno sguardo eccentrico è ribadita dal richiamo alla controparte queer maschile. Poco prima dell’inizio della proiezione de Il porto delle nebbie, Sapienza ricorda un altro giovane spettatore suo coetaneo, Dante, grande fan di Jean Gabin:
Quello non mostra il culo, ma, si sa, è una femminuccia, più femminuccia di me se, come mi ha confessato, è innamorato di Jean tanto che più volte ha scritto firmandosi al femminile, e invece io – lui ha detto! – vado lì per somigliare a Jean, per imparare da lui a vivere, ad avere il mio sogno di una vita diversa. Questo lo dico dentro di me… Lui quando credette di scoprire il mio segreto, intelligentone!, insinuò:
– È inutile ca cammini come a lui, t’ho vista all’uscita del cinema, io a lui lo sposerei, a te no! (IJG, p. 78).
A Dante Goliarda risponde assumendo il punto di vista libero dagli schemi della sua famiglia, e così la voce del coro dei Sapienza-Giudice parla attraverso le sue parole all’amico e a se stessa:
A casa mia come nel Continente anche i piccoli sono individui coscienti che i grandi aiutano a crescere e a scegliere la propria identità. Vuoi essere donna? Lo sarai, vuoi essere un giornalista, un monaco buddista o una monaca cattolica? Lo sarai, basta che studi e cerchi dentro di te qual è veramente la tua vocazione. Ancora non l’ho detto a nessuno ma il mio sogno è diventare proprio come Jean. Ma questo lo avete già capito (IJG, pp. 78-79).
Non è un caso che la scelta di Sapienza all’interno dell’’alfabeto delle stelle’ della sua infanzia ricada sull’attore francese.[36] Ginette Vincendeau evidenzia come la costruzione dell’immagine della star Gabin sia fondata retroattivamente su alcune notizie che riguardano la sua infanzia, sulla quale si concentra una serie di articoli pubblicati su Pour vous dal 10 ottobre 1935 in poi.[37] Alcuni aspetti messi in luce da questa campagna mediatica (il carattere ribelle, la formazione avvenuta più fuori che dentro la scuola, la personalità forte dimostrata sin da bambino) devono in qualche modo aver contribuito alla formazione del personale mito che Sapienza elegge in queste pagine a esempio di identificazione per la propria Bildung. Inoltre, la mascolinità proposta dalla sua figura divistica si rivela estremamente originale per la capacità di trasmettere un modello che contempera caratteri contrastanti, sensibilità e virilità maschile, cioè un ideale eroico che racchiude in sé maschile e femminile.[38] A considerazioni analoghe si potrebbe giungere riflettendo sul rimando alla figura di Greta Garbo,[39] protagonista di Queen Christina – La regina Cristina (1933), cioè dell’unico altro film citato in Io, Jean Gabin (come in Lettera aperta). In altri termini Gabin e Garbo offrono figure di identificazione di genere che presentano uno scarto dalla norma, e possono aver suscitato il fascino su cui ruota la narrazione proprio in virtù della carica libertaria e anarchica da essi rappresentata nei film citati.
La regina Cristina, Il bandito della Casbah, Il porto delle nebbie, ricordati dalla Sapienza adulta che ripercorre con la memoria una delle sue giornate di spettatrice, pur nella profonda diversità delle scelte stilistiche operate dai registi, presentano un dettaglio che ne accomuna lo sviluppo diegetico. Le storie tragiche degli antieroi incarnati da Jean Gabin, come pure le vicende dell’eroina interpretata da Greta Garbo, si concludono tutte con una fuga (negata dalla morte a Pépé e a Jean) verso il mare, dettaglio che forse si riverbera anch’esso nella costruzione narrativa del romanzo.
L’ultimo capitolo introduce, infatti, una breve divagazione rispetto alla dimensione dello spazio della Civita dominante in un tutto il resto della narrazione. Goliarda «libera e sola», in compagnia del fantasma di Jean che l’accompagna ovunque, sente il bisogno di allontanarsi dalla claustrofobica vita del suo quartiere e salta sul tram che corre verso il mare. Si tratta di una fugace pausa rispetto alla vita nella casbah catanese alla quale ritorna nel finale del romanzo, forse dopo aver tentato di «rubare a quel mare avaro un po’ della sua libertà»[40] (come la Modesta dell’Arte della gioia), per partecipare a una festa celebrata in casa Sapienza, e concludere poi la serata all’Arena Bellini, dove assiste nuovamente alla visione del Porto delle nebbie per tentare di capire la ‘lezione’ di Jean.
Fra gli elementi di anomalia che il Bildungsroman di Sapienza presenta rispetto a quelli degli altri scrittori della sua generazione ce n’è uno che riguarda lo sviluppo della storia: il passaggio da spettatrice a scrittrice aggiunge la tappa intermedia e non poco rilevante di attrice. In questo snodo aggiuntivo nella catena della formazione di Sapienza si scorge probabilmente quella eccedenza che manca agli altri. Le parole conclusive che l’ombra di Gabin pone a sigillo del romanzo sembrano suggerire questo nesso fra il mestiere dell’attore e la libertà di morire e rinascere di continuo:
«La vita è lotta, ribellione e sperimentazione, di questo ti devi entusiasmare giorno per giorno e ora per ora. Vedi me, sono morto tante volte combattendo, eppure sono con te tranquillo a ricordare e gioire delle mie lotte, pronto a rinascere e ricominciare.
Ricominciare, – sussurra sorridendo Jean dal grande schermo – questo è il segreto, niente muore, tutto finisce e tutto ricomincia, solo lo spirito della lotta è immortale, da lui solo sgorga quello che comunemente chiamiamo Vita» (IJG, p. 110).
Il simulacro che fa capolino dal grande schermo e si rivolge alla giovane spettatrice rivela in fondo il segreto che la Modesta del romanzo precedente ha dimostrato come un teorema nelle sue avventure alla ricerca dell’arte della gioia. Nel disvelamento di questa parentela, forse, lo schermo si muta in specchio e la voce narrante riconosce se stessa, come il titolo Io, Jean Gabin lascia presagire sin dall’inizio.
1 Cfr. L. Cardone, ‘Goliarda Sapienza attrice nel/del cinema italiano del secondo dopoguerra’, in M. Farnetti (a cura di), Appassionata Sapienza, Milano, La Tartaruga, 2011, pp. 31-61, che oltre a prendere in esame la molteplicità di ruoli assunti da Sapienza nella sua esperienza nel mondo del cinema, passando in rassegna i film da lei interpretati, mette in evidenza la complessità e varietà di prospettive della relazione fra Sapienza e il cinema.
2 A proposito del lascito dell’esperienza cinematografica e teatrale nella scrittura di Sapienza, della presenza di «tecniche e modalità espressive» tratte dalla settima arte e delle numerose citazioni di film, attori e attrici evocati nelle sue pagine si rimanda a G. Ortu, ‘Visi dischiusi ad ascoltare: Goliarda Sapienza narratrice di visioni’, in L. Cardone, S. Filippelli (a cura di), Cinema e scritture femminili. Letterate italiane fra la pagina e lo schermo, Albano Laziale (Roma), Jacobelli, 2011, pp. 93-105.
3 Per questo aspetto, oltre al saggio di Emma Gobbato pubblicato in questo stesso numero di Arabeschi, che si sofferma sul contributo dato da Sapienza a Maselli nella fase di scrittura della sceneggiatura dei Delfini, cfr. anche gli altri articoli di Gobbato dedicati allo stesso tema: ‘Non accreditata. Goliarda Sapienza invisibile protagonista del cinema italiano’, in L. Cardone, S. Filippelli (a cura di), Cinema e scritture femminili, pp. 106-118; ‘Goliarda Sapienza: The Unknown Scriptwriter’, in A. Bazzoni, E. Bond, K. Welhing-Giorgi (edited by), Goliarda Sapienza in Context. Intertextual Relationship with Italian and European Culture, New Jersey, Fairleigh Dickinson University Press, 2016, ebook for kindle, chapter 5.
4 È Angelo Pellegrino a ricordare in più occasioni questa formula adottata da Goliarda Sapienza per indicare il progetto complessivo all’interno del quale si collocano la maggior parte dei suo scritti, da Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno all’Università di Rebibbia e Le certezze del dubbio: cfr. A. Pellegrino, Postfazione a G. Sapienza, Io, Jean Gabin, Torino, Einaudi, 2010, p. 117; Id., Goliarda Sapienza, telle que je l’ai connue, trad. de N. Castagné, Paris, Le Tripode, 2015, pp. 25-26. Sarebbe necessario uno studio interamente votato a sciogliere la complessità dello stile autofinzionale della scrittura di Sapienza; a tal proposito si rimanda a due interessanti contributi di Mariagiovanna Andrigo (‘L’evoluzione autobiografica di Goliarda Sapienza: stile e contenuti’, in G. Providenti (a cura di), «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza, Ariccia (RM), Aracne, 2012, pp. 117-130; ‘Goliarda Sapienza’s Permanent Autobiography’, in A. Bazzoni, E. Bond, K. Welhing-Giorgi (edited by), Goliarda Sapienza in Context. Intertextual Relationship with Italian and European Culture, ebook for kindle, chapter 1). In entrambi viene evidenziata l’evoluzione delle figure del sé che si presentano nelle varie prove narrative di Sapienza, ma nel secondo, soprattutto, Andrigo precisa che può soffermarsi solo brevemente su Io, Jean Gabin a causa delle insufficienti informazioni filologiche relative al testo e alla sua collocazione cronologica. Si adotta qui il termine ‘romanzo’ per indicare Io, Jean Gabin soltanto perché il tasso di finzionalità dell’autonarrazione di Sapienza appare talmente consapevole da autorizzare la considerazione della sua scrittura memoriale come non distinta del tutto dai canoni della fiction.
5 Ivi, p. 3. D’ora in poi, il romanzo di Sapienza verrà indicato con la sigla IJG.
6 Qui è evidente la dimensione politica del fra presente e passato, che negli altri testi, seppur presente, non è messo in primo piano come in questa affermazione.
7 Riguardo l‘«omologia strutturale» fra memoria e cinema e, in generale, sul concetto di memoria cinematica e filmica si può leggere per esempio, tra gli altri, A. Cati, Immagini della memoria. Teorie e pratiche del ricordo tra testimonianza, genealogia, documentari, Milano-Udine, Mimesis, 2013, pp. 47-56.
8 A tal proposito, si vedano le pagine del saggio di Leonardo Sciascia dedicate al film di Marcel L’Herbier, Feu Mathias Pascal, in cui lo scrittore siciliano arriva a considerazioni analoghe a quelle di Sapienza, concludendo che anche la storia del cinema è una storia fatta a memoria (molto più che la storia della letteratura, per esempio, che permette un riscontro attraverso la consultazione dei testi letti in qualsiasi momento): «Per la storia del cinema, che la memoria di un vivente ottantenne può quasi interamente contenere, si pongono a chi vuol farla dei problemi, delle difficoltà, che non esistono per chi si prova a fare la storia di una letteratura o di altre arti: e appunto vengono dal fatto che non si può rivedere tutto né tutto ricordare di quel che importa. Lo storico del cinema ha pochissimo intorno a sé cui ricorre nelle défaillances della memoria: per quanto completa si possa avere una biblioteca cinematografica e accurato uno schedario di film visti, anche quelli che si ritengono più importanti è difficile, se non impossibile, rivederli e controllarli così come è invece possibile per un’opera letteraria o per un quadro. Le storie del cinema sono peculiarmente fatte a memoria, di memoria. Sono, in effetti, delle mitografie (che possono anche attingere alle mitomanie), non delle storie» (L. Sciascia, ‘Il volto sulla maschera’, in Cruciverba (1980), ora in Id., Opere 1984-1989, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 1989, pp. 1153-1154). Per un discorso complessivo sul modello spettatoriale rievocato nelle pagine di Sciascia sul cinema si rimanda a M. Rizzarelli, Sorpreso a pensare per immagini. Sciascia e le arti visive, Pisa, ETS 2013, pp. 219-235. Per un più complessivo discorso sui cambiamenti del paradigma di spettatorialità determinati dalla introduzione del videoregistratore cfr. A. Friedberg, ‘Lo spettatore flâneur’ [1993], in M. Fanchi, Spettatore, Milano, Il Castoro, 2005, pp. 146-160. Un mirabile esempio di narrazione memoriale costruita sugli intrecci fra frammenti di cinema e di memoria si trova in M. Augè, Casablanca, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.
9 L’originalità di approccio di Sapienza al genere del Bildungsroman si può comprendere all’interno della più ampia prospettiva della originalità del romanzo di formazione nella scrittura delle donne: a tal proposito si rimanda a volume curato da Paola Bono e Laura Fortini (Il romanzo del divenire. Un Bildungsroman delle donne?, Albano Laziale (Roma), Jacobelli, 2007) e al saggio di Adriana Chemello (‘Una Bildung senza roman. Donne in divenire’, ivi pp. 14-33), dove si propone di adottare la formula di «romanzo del divenire» per evidenziare i peculiari dinamismi di una Bildung che non si compie mai pienamente, o almeno mai in modo lineare e definitivo.
10 Sui modelli di spettatorialità e sulla loro storicità cfr. M. Fanchi, Spettatore, pp. 70 e ss.
11 L. Sciascia, ‘C’era una volta il cinema’, in Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989), ora in Id., Opere 1984-1989, p. 640.
12 I. Calvino, ‘Autobiografia di uno spettatore’, pref. a F. Fellini, Quattro film, Torino, Einaudi, 1974, ora in Id., Romanzi e racconti, ed. diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1994, vol. III, p. 27.
13 E. Morreale, M. Pierini, ‘Fare cinema con le parole’, introduzione a Racconti di cinema, a cura di E. Morreale, M. Pierini, Torino, Einaudi, 2014, p. X.
14 La raccolta è suddivisa in quattro sezioni tematiche: A riveder le stelle, che raccoglie testi che hanno come protagonisti le stelle di Hollywood; Sperduti nel buio, che comprende i racconti ambientati nelle sale cinematografiche; Un mestieraccio infame, dove il mondo del cinema, con le sue maestranze e la sua organizzazione produttiva, genera figure pronte per la narrazione e Come in un film, in cui sono inseriti i pezzi in cui il cinema diviene grande metafora dell’esistenza.
15 M. Pierini, Introduzione alla sezione A riveder le stelle, in Racconti di cinema, p. 7.
16 Ibidem.
17 Cfr. I. Calvino, ‘Autobiografia di uno spettatore’, p. 30.
18 A proposito del romanzo di formazione dello spettatore cinematografico cfr. G.P. Brunetta, Buio in sala. Cent’anni di passioni dello spettatore cinematografico, Venezia, Marsilio, 1990, pp. 181-209.
19 Si pensi ancora alle memorie cinematografiche di Calvino, Sciascia, Bufalino, Zanzotto, oppure a un film come Nuovo Cinema Paradiso che ha codificato la mitologia delle varie autobiografie di spettatori di quella generazione (cfr. ivi, pp. 211-219).
20 M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie [1984], trad. it. di S. Vaccaro, Milano, Mimesis, 2002, p. 27.
21 Cfr. ibidem.
22 Sull’immagine della cassapanca Sapienza ritorna in più occasioni in Lettera aperta (Sellerio, Palermo 2008), insistendo su un dispositivo memoriale inteso come contenitore da svuotare: cfr. ivi, pp. 29 e ss.
23 M. Schilirò, Catania di carta. Guida letteraria della città, Palermo, Palindromo, 2015, p. 58.
24 Ibidem.
25 A. Carta, ‘Finestre, porte, luoghi reali e immaginari nell’opera di Goliarda Sapienza’, in G. Providenti (a cura di), «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza, p. 268. Questa spiegazione convince di più di quella data da Angelo Pellegrino, il marito di Sapienza, il quale avanza l’ipotesi che lo spostamento della denominazione dipendesse dalla cattiva fama di San Berillo: «la zona era stata sempre molto malfamata» (A. Pellegrino, Postfazione a IJG, p. 119).
26 Charlotte Ross richiamando Foucault applica la categoria di «eterotopia» alle identità molteplici dell’io autobiografico di Sapienza, sottolineando come il carattere eterotopico della testualità serva sia a rivelare che a nascondere i sé messi in campo nelle opere, le identità sessuali e fittizie in essi contenute (‘Identità di genere e sessualità nell’opera di Goliarda Sapienza: finzioni necessariamente queer’, in G. Providenti (a cura di), «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza, p. 226).
27 A. Pellegrino, Postfazione a IJG, p. 115.
28 Su questo aspetto e su dettagli derivanti dalle french connections presenti nel testo si sofferma Charlotte Ross nel suo ‘Goliarda Sapienza’s “French Connections”’, in A. Bazzoni, E. Bond, K. Welhing-Giorgi (edited by), Goliarda Sapienza in Context, chapter 6.
29 Sull’analoga valenza eterotopica del teatro occorrerebbe un’analisi più accurata che guardi per un verso alla ricorrenza del tema nell’opera narrativa (nel caso specifico di Io, Jean Gabin si veda il capitolo dedicato al puparo Insanguine e al suo ruolo di maestro di vita e d’arte esercitato per la formazione attoriale di Sapienza, IJG, pp. 41-51) e per altro verso alla scrittura drammaturgica dell’autrice. A proposito della formazione attoriale di Sapienza cfr. L. Cardone, ‘Goliarda Sapienza attrice nel/del cinema italiano del secondo dopoguerra’, pp. 34-43.
30 Per il concetto di performatività legato all’identità di genere, a titolo esemplificativo della queer theory, si rimanda al a J. Butler, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità [1990], trad. it. di S. Adamo, Bari-Roma, Laterza, 2013. Per un aggiornamento del dibattito sul queer cfr. E.A.G. Arfini e C. Lo Iacono (a cura di), Canone inverso. Antologia di teoria queer, Pisa, ETS, 2012 e S. Antosa (a cura di), Queer crossing. Theories, Bodies, Texts, Milano, Mimesis, 2012.
31 La nota al testo identifica il «diavolone di un architetto» un po’ troppo velocemente con Gian Battista Vaccarini, la personalità alla quale si deve gran parte della progettazione dell’assetto architettonico della Catania barocca. Per altre possibili interpretazioni di tale figura si rimanda a M. Schilirò, Catania di carta, pp. 54-55.
32 Per una lettura queer dell’opera di Sapienza, e in particolare de L’arte della gioia e Io, Jean Gabin, cfr. A. Bazzoni, ‘Gli anni e le stagioni: prospettive sul femminismo, politica e storia ne L’arte della gioia’, in G. Providenti (a cura di), «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza, pp. 40-41; C. Ross, Identità di genere e sessualità nell’opera di Goliarda Sapienza: finzioni necessariamente queer, ivi pp. 225 e ss; Ead., ‘Goliarda Sapienza’s Eccentric Interruptions: Multiple selves, gender ambiguities and disrupted desires’, Altrelettere, (2012), DOI: 10.5903/al_uzh-2 [consultato in data 11/02/2017 sul sito www.altrelettere.uzh.ch].
33 Si è finora utilizzato il lemma ‘eccentrico’ dando in riferimento a T. de Lauretis, Soggetti eccentrici, Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 11-57. A proposito di Modesta come perfetta incarnazione del soggetto eccentrico, Paola Bono (nel suo saggio’ Le multiple ambivalenze di Modesta’, in A.M. Crispino, M. Vitale (a cura di), Dell’ambivalenza. Dinamiche della narrazione in Elena Ferrante, Jiulie Otsuka e Goliarda Sapienza, Guidonia Montecelio (Roma), Jacobelli, 2016) spiega chiaramente il senso del rimando a de Lauretis e ciò che afferma in riferimento alla personaggia dell’Arte della gioia può valere senz’altro per la Goliarda protagonista delle altre opere di Sapienza: «È un “soggetto eccentrico”, nel senso in cui lo intende Teresa de Lauretis: variegato e mobile, capace di molteplici identificazioni e appartenenze, eccedente a ogni singola definizione, costituito in un processo di interpretazione e trasformazione, di riscrittura di sé in relazione a un’altra cognizione del sociale, della storia, della cultura» (ivi, p. 123). Un’altra lettura in chiave queer dell’eccentricità del personaggio di Modesta posta a confronto con Elena protagonista del ciclo dell’Amica geniale di Ferrante si trova in A.A. Ferrante, ‘Elena e Modesta oltre l’ambivalenza’, ivi, pp.149-161.
34 L. Mulvey, ‘Riflessioni su “Piacere visivo e cinema narrativo” ispirate da Duello al sole (1981)’ in Ead., Cinema e piacere visivo, a cura di V. Pravadelli, trad. it. di I. De Pascalis, O. Catanea, V. Festinese, A. Buonauro, Roma, Bulzoni, 2013, p. 48. Benché l’analisi di Mulvey si concentri sul cinema di Hollyvood, come è noto, il suo saggio del ’75 e i successivi interventi hanno assunto un valore fondamentale per l’applicazione degli studi di genere ai film studies nel loro più ampia estensione. A titolo riassuntivo dell’ampio e articolato dibattito femminista sulla spettatorialità si rimanda a M. Fanchi, Lo spettatore, pp. 78-84; in particolare sulle spettatrici cfr. J. Stacey, Star Gazing. Hollywood Cinema and Famale Spectatorship, London, Routledge, 1994; V. Pravadelli, Le donne del cinema. Dive, registe, spettatrici, Roma-Bari, Laterza, 2014, versione ebook, capitolo I.2..
35 Per le applicazioni più note della teoria del mascheramento alla female spectatorschip si rimanda a J. Rivière, ‘Womanliness as a Masquerade’, in V. Burgin, J Donald, C. Kaplan (ed. by), Formations of Fantasy, London, Methuen, 1986, pp. 35-44; M.A. Doane, ‘Il film e la mascherata: teorie sulla spettatrice’ (1982), in Ead., Donne fatali, Parma, Pratiche, 1995, pp. 20-43.
36 Per cogliere a pieno il senso di questa scelta occorrerebbe un approfondimento volto a indagare le modalità di ricezione di Jean Gabin in Italia. Qui ci si limita a notare che la morte dell’attore francese (15 novembre 1976) precede di qualche anno l’inizio della stesura del romanzo di Sapienza (stando alla testimonianza di Angelo Pellegrino questa si colloca fra il 1979 e i primi mesi del 1980), e che dall’anno seguente la Rai ripropone vari film con l’attore francese, a partire dal ciclo Ricordo di Gabin, un uomo, un attore che prende il via il 15 gennaio 1977 per concludersi il 5 aprile dello stesso anno con dodici pellicole trasmesse il sabato sera sulla Rete 2. Sarebbe interessante rilevare inoltre quanto della costruzione del personaggio di Gabin dalla metà degli anni Trenta sia giunto in Italia e abbia potuto influenzare la scelta di Sapienza.
37 Cfr. G. Vincendeau, Stars and Stardom in French Cinema, London- New York, Continuum, 2000, pp. 66-67.
38 Questa è la conclusione a cui giunge Vincendeau: «This configuration allows Gabin’s star persona to attain the ideal of a complete human being: masculine and feminine, man and woman, father and mother» (ivi, p. 76).
39 La veloce citazione del film con Greta Garbo compare in uno dei dialoghi con Nino, il bambino a cui Goliarda racconta i film che vede al cinema (cfr. IJG, p. 20) e rimanda a un passo più ampio di Lettera aperta, in cui la scrittrice ricorda proprio il finale della Regina Cristina come saggio su cui aveva esercitato la propria capacità attoriale di piangere: «Il finale sulla nave, col vento fra i capelli e le lagrime. Avrei avuto anche le lagrime: già un’latra volta le avevo avute, quando avevo raccontato “Mata Hari”. Avevo studiato molto per ottenerle: “Se questa recita, certo non piange sul serio”. E così anche io, a furia di provare, coi pizzichi, strappandomi le ciglia, infilandomi le unghia nelle palme, avevo scoperto come fare» (G. Sapienza, Lettera aperta, p. 58).